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lunedì 17 giugno 2019

Bjørn Riis - A Storm is Coming

#PER CHI AMA: Progressive Rock, Porcupine Tree, Pink Floyd
È davvero incredibile come dalla penisola scandinava escano continuamente proposte musicali originalissime e di una qualità altissima. Bjørn Riis, già frontman degli Airbag, ci delizia con questo 'A Storm is Coming', sei epici brani sul tema delle relazioni umane, della perdita di qualcuno di caro, scritta come un dialogo tra due persone. I pezzi sono struggenti ed emozionalmente intensi, si sente un lontano eco delle grandi band degli anni d’oro del rock, una su tutti i Pink Floyd, come nella splendida suite di apertura "When Rains Fall", cosi come pure band più recenti che portano in alto la bandiera del prog, e penso ai Porcupine Tree, come nel secondo pezzo "Icarus". Il dialogo tra la voce e la chitarra solista è il punto forte del disco, anche se ormai di assoli ne abbiamo tutti avute piene le orecchie, le evoluzioni di Bjorn sulla sei corde sono più che altro slanci di espressività che la voce non può raggiungere, layer di emozione che si posano uno sull’altro. Il risultato finale dei brani è senza dubbio qualcosa di unico e particolarissimo, che affonda le sue radici nella migliore tradizione del prog internazionale e che cerca di rievocare i fasti di uno dei generi musicali più belli mai inventati dall’uomo, a mio parere, con successo. Per tutta la composizione siamo come sospesi su nuvole di fumo bianco, in un cielo terso ed infinito, dove niente è turbato da niente e dove la perfezione è così immacolata da trasmettere tristezza e senso di impotenza come quella che prova un marinaio solo in mezzo al mare e in mezzo al cielo. Se non ci credete provate ad ascoltare "You and Me" e poi ne riparliamo. Si prosegue con "Stormwatch", un pezzo che con il suo quarto d’ora di lunghezza copre svariati paesaggi, oltre che alle usuali sospensioni estatiche anche dei pesanti riff distorti che arrivano come un fulmine a disturbare la calma del tappeto di synth e chitarra acustica, poi ancora assoli di gilmouriana memoria e linee vocali sentite e accorate. Ogni brano è un viaggio che porta ad esplorare le sfaccettature della propria interiorità e che porta a chiederci se siamo in grado di sopportare il dolore che una perdita può lasciare o il vuoto che le relazioni tra noi, per la loro profonda imperfezione, si lasciano dietro. 'A Storm is Coming' è un modo splendido di far fronte a queste emozioni che ci affliggono ma che ci permettono anche di andare oltre noi stessi, di crescere e trovare qualcosa che da soli non riusciremo mai nemmeno a cercare. Tutto questo nella consapevolezza chre non possiamo evitare il dolore e il vuoto, così come non possiamo fermare l’avanzata delle nubi cariche di pioggia e fulmini, così come di fronte alla tempesta che si avvicina minacciosa, non possiamo far altro che aprire le braccia ed accogliere tutta la sua magnifica e spaventosa potenza. (Matteo Baldi)

Moodie Black - MB I I I . V M I C H O A

#PER CHI AMA: Noise/Rap
Avevamo lasciato Moodie Black poco tempo fa con la recensione del precedente 'MBIII', ed ecco che a sorpresa il duo americano, rilascia una nuova release di altri quattro brani, dal titolo che si lega ed evolve il suo predecessore. Anche in questo 'MB I I I . V M I C H O A' troviamo l'incedere lento e le sonorità industriali che minano i codici canonici dell'hip hop originale e più standardizzato, focalizzando ancora una volta lo strappo artistico verso una scena troppo abusata e priva di fantasia e sperimentazione. A mio avviso, anche stavolta la band di Los Angeles coglie nel segno, aprendo le frontiere con un suono violento e gelido, che non si risparmia, sdoganato dai dogmi del genere, distorto, affascinante ed introspettivo, senza una continuità ritmica, anzi, il taglio sonoro è frastagliato, fatto di fotogrammi diversificati e scomposti tra loro, minimali, industriali, noise oppure orchestrali, con aperture nelle composizioni che sembrano piccole colonne sonore fatte per un paesaggio post bellico, post guerra nucleare, apocalittico, accompagnate da uno spoken word duro e drammatico, anch'esso prevalentemente distorto come fosse una band harsh/EBM. In quest'ottica la canzone più rappresentativa è la conclusiva "32" (anche se il disco mantiene costante uno standard di qualità e produzione molto alto), che si presenta come una perla preziosa, oscura e radiosa allo stesso tempo, che rappresenta a dovere il percorso artistico intrapreso dai Moodie Black in questi ultimi tempi, con un ponte al minuto 1:43 che spacca la song in maniera brutale, drammatica ed inaspettata, con una sensibilità compositiva da vero fuoriclasse, come se la musica fosse virata in un grigio e cupo brano dell'ultimo Nick Cave, per poi rientrare in una coda esasperata dalle tinte minimal-rumoristiche, ossessive e soffocanti. La musica dei Moodie Black è un aut-aut, uno strappo contro il mondo da cui è stata generata, una musica che si ama o si odia, che non si associa facilmente e banalmente al contesto hip hop, perchè è frutto di un risultato artistico che vuole essere più alto e libero dai confini commerciali e stilistici. Quattro brani tutti da scoprire, pieni di immagini musicali diversificate tutte da apprezzare. Altra prova molto interessante e fantasiosa che associata al precedente 'MB III', forma un full length di tutto rispetto. Ascoltare per credere! (Bob Stoner)

venerdì 14 giugno 2019

Target - Deep Water Flames

#PER CHI AMA: Techno Death/Progressive, Meshuggah, Cynic
I Target me li ricordo bene: band cilena uscita con il debut nel 2011, 'Knot of Centipedes', un disco che sottolineava le eccellenti doti tecniche dell'ensemble di Santiago. Poi un gran silenzio, interrotto fortunatamente da un EP nel 2017, che mi faceva ben sperare per il proseguio della band che pensavo ormai desaparecida. Ed eccoli finalmente tornare con il secondo lavoro, questo 'Deep Water Flames' che ha permesso al quartetto di strappare un contratto con la Australis Records e strappare a me un sorriso per la loro proposta musicale. Quanto contenuto in questo disco infatti ha un che di miracoloso, dato che i nostri hanno pensato bene di combinare il techno death dei Meshuggah con il post metal dei The Ocean. Non capite quanto io abbia goduto e stia godendo tuttora all'ascolto di un pezzo come "Inverted Gloaming", che pone l'accento sulle capacità tecnico-esecutive, ma incredibilmente anche sulla creatività compositiva dei nostri. E allora preparatevi al classico muro di riffoni poliritmici, come i gods svedesi insegnano, ma anche a larghi tratti atmosferici, catchy quanto basta per far gridare al miracolo. Aggiungete a tutto questo un ottimo dualismo vocale, tra il growl e il suadente pulito dello stesso Andrés Piña e capirete il perchè del mio entusiasmo. "No Solace Arises" è più ritmata, ma altrettanto efficace nella sua portata emozionale, grazie a delle melodie di fondo assai gradevoli e ad una serie di cambi di tempo e break strumentali da URLO e lo scrivo in maiuscolo proprio per sottolinearlo a gran voce. Bravi, bravi e poi bravi. Non è una proposta semplice, ci vuole coraggio, perchè il rischio di essere etichettati come cloni è proprio dietro l'angolo, soprattutto quando pezzi come "Oceangrave" o la successiva "Surge Drift Motion", sembrano essere stati pensati da Jens Kidman e soci. Spaventosi a livello percussivo, paranoiche a livello chitarristico, orrorifiche per l'utilizzo dei synth, signori, 'Deep Water Flames' si candida ad essere uno dei top album sul versante techno death di questo 2019. Mamma mia che mazzate ci rifilano tra faccia e pancia, un uno due, diretto e montante, da knockout. E poi che dire quando in "Surge Drift Motion", la band smorza i toni, anzi spegne la luce completamente e regala un assolo (di scuola Cynic) da brividi. Un intermezzo ombroso per scrollarci di dosso l'incredulità che si è nel frattempo posata sulla mia faccia di fronte a tali sonorità ed è tempo di farci investire ancora dalla sublime ed ingannatoria atmosfera di "Drowned in an Everlasting Mantra", tranquilla all'inzio ma poi dirompente al massimo. Ancora tanta carne al fuoco, perchè mancano all'appello "Blackwaters", song assai mutevole nel suo incedere baldanzoso, e la lunga "Random Waves", oltre nove minuti di rabbiose e ubriacanti ritmiche, dove i Target saranno in grado di intrappolarci nella loro matrice sonora, merito delle tele intessute da questi incredibili musicisti e dell'ottima verve di cui è dotata la compagine sudamericana. Ah dimenticavo, l'ascolto di 'Deep Water Flames' è altamente consigliato da consumarsi in cuffia per assaporare al meglio la debordante miscela sonora (quasi noisy sul finire del penultimo pezzo) esplosa dalla strumentazione di questi artisti. Una bomba ad orologeria pronta ad esplodervi addosso. (Francesco Scarci)

Darkenhöld/Griffon - Atra Music

#PER CHI AMA: Atmospheric Black/Folk
Torna la Les Acteurs de l'Ombre con una produzione nuova di zecca, tutta made in France, come da tradizione in casa dell'etichetta transalpina. Questa volta trattasi di uno split album, in cui a condividere il minutaggio, ci pensano i Darkenhöld, trio originario di Nizza, e i Griffon, quintetto proveniente da Parigi. La proposta di 'Atra Music', questo a proposito il titolo del dischetto, si apre col folk black di quest'ultimi e i loro quattro pezzi a disposizione con i quali farci assaggiare la loro personale visione del black. Oltre alle variegate contaminazioni folk, quello che colpisce in "Si Rome Vient à Périr", è un uso alquanto originale delle voci, tra il declamato e lo screaming arcigno, il tutto su un impianto ritmico a tratti nevrotico e urticante, ma in grado anche di deragliare in anfratti più sinfonici, proprio come accade nel finale dell'opening track. Lo sferragliare di "Souviens Toi, Karbala" sembra evocare il suono della battaglia grazie ad un black tirato, interrotto solo da qualche frangente più ragionato e melodico, nonchè tribale, ancora una volta sul finire del pezzo. In "Jérusalem" rieccheggia il suono di un black battagliero, di scuola "windiriana" che sottolinea le influenze della band ma che ci dice anche che non c'è nulla di nuovo all'orizzonte, aggrappandosi ad idee interessanti fino ad un certo punto, sicuramente già largamente sfruttate da tutto quello stuolo di band dedite ad un atmosferico ed epico black metal. L'outro folkish dei Griffon ci dà modo di prepararci al sound acustico di "Marche des Bêtes Sylvestres", la prima delle quattro frecce da scoccare da parte dei Darkenhöld. Con mia somma sorpresa però apprendo che la proposta dei nostri sia interamente affidata a suoni acustici e quella che io credevo una sorta di intro, rappresenta in realtà lo standard dell'offerta dei Darkenhöld anche nelle successive "Le Sanctuaire de la Vouivre", "Les Goules et la Tour" e via dicendo ove i nostri ci deliziano con un sound all'insegna di un medieval black metal, dove la parola black è affibiabile esclusivamente alle grim vocals. La ritmica infatti, è affidata a flauti, violoncelli, arpe e percussioni, il ttuo in versione completamente unplugged. La proposta del terzetto mi ricorda per certi versi il brano contenuto in 'Rotten Light', “Dialogue with the Sun”, dei nostrani Laetitia in Holocaust, per quel suo drumming incessante che va ad intersecarsi alle chitarre acustiche e ci permettono di conoscere qualcosa di più della personalità camaleontica dei Darkenhöl. Esperimento riuscito, anche se non so quanto possa aver presa sui fan. Vedremo. (Francesco Scarci)

Feradur - Legion

#PER CHI AMA: Melo Death/Thrash, Amon Amarth
In uscita questi giorni il comeback discografico dei lussemburgo-teutonici Feradur. 'Legion' rappresenta infatti il secondo lavoro per il quintetto originario della capitale del piccolo stato mittle europeo, con qualche membro poi dislocatosi ad Amburgo e Colonia, in Germania. 'Epimetheus', il debut del 2015 era arrivato solamente nove anni dopo la nascita della band, ora abbiamo atteso quattro anni per gustarci il secondo album dei nostri, con questo ritmo non è detto che il prossimo lavoro possa uscire fra un paio di anni. Comunque, parlando dei contenuti musicali delle undici tracce qui incluse, posso dire che in mano ci ritroviamo un Lp dedito a sonorità melodeath, dalle influenze più disparate. Si va dal sound degli Amon Amarth di "A Hadean Task" agli Iron Maiden di "Fake Creator", ma andiamo con ordine. I nostri sono sicuramente diligenti nello svolgimento del loro compito, affidandosi sin dall'opener "Deus (Finis Saeculorum)" a ritmiche robuste, ben dosate, una produzione bella piena, e ritmi incandescenti. Ascoltatevi a tal proposito la roboante "Kolossus", una bella cavalcata death thrash, che vi riporterà ai fasti degli anni '90, pronti per lanciarvi in un infuocato headbanging, anche se poi il finale sembra virare verso territori più moderni, ad un black death dotato di ottime melodie al servizio di una buona tecnica. Sia ben chiaro che nessuno ha scoperto l'acqua calda, un nuovo continente o inventato un nuovo genere musicale, i Feradur suonano quello che più amano e più ha plasmato la loro crescita musicale, un death metal venato di qualche influenza progressive, che trova addirittura il modo di sfociare in influenze folkloriche. Si perchè l'inizio acustico di "Omen of Incompleteness" ci proietta al Kantele finlandese di Amorphis memoria, in un brano che evolve successivamente in un sound macinaossa stile Arch Enemy. Ben più ruffiana "Fake Creator", vuoi per le melodie che si stampano immediatamente in testa, ma anche per l'uso delle keys, che lasciano poi il posto ad un bel rullo compressore fatto di ritmiche tirate e un growling omicida, merito dell'ultimo arrivato, in seno alla formazione, l'unico vero tedesco della compagnia, Mario Hann, che suona nei Reapers Sake e ha peraltro collaborato con altre band, sia dietro la consolle che come guest, vedi Firtan o nel nuovo EP dei Luzidity. Intanto, qui si continua a viaggiare su tempi sparatissimi con un bel tremolo picking in sottofondo, mentre le chitarre sembrano invece richiamare il NWOBHM con le linee melodiche in stile Iron Maiden. C'è tempo ancora di farci sparare in faccia altre granitiche tracce, il disco dura infatti oltre 50 minuti: "Of Greater Deeds" è una bella mazzata in pieno volto con una serie di cambi di tempo da urlo ed una prova alla batteria di "D-" Mich Weber davvero notevole, senza mai perdere di vista il lavoro dei due axemen, che ne combinano di tutti i colori alle sei corde. Più oscura "The Night They Were Taken", dura, quasi spettrale nella sua componente solistica, che mi ha evocato per certi versi i primi Testament, poi altro sublime cambio di tempo e sembra di ascoltare un altro brano, compresso, caustico, serrato, feroce. Si cambia ancora registro con il mid-tempo di "Amplification Monolith", un brano che s'ispira nuovamente agli Amon Amarth e che vede nel ricamo chitarristico delle due asce, il punto di forza della compagine lussemburghese. Poi il finale, affidato alla marziale "Maelstrom" e a quel prepotente gorgo che crea un ambiente denso ma atmosferico prima dell'uscita sparata a mille, con chitarre di Overkilliana memoria. Si arriva intanto alla conclusiva e strumentale "Into Stygian Depths", un breve outro che chiude questo secondo episodio della saga Feradur. Ben fatto. (Francesco Scarci)

(Self - 2019)
Voto: 75

https://feradur.bandcamp.com/

giovedì 13 giugno 2019

Membrane/Sofy Major - Split Lp

#PER CHI AMA: Noise/Hardcore, Unsane, Melvins
Membrane e Sofy Major hanno da poco rilasciato gli ultimi capitoli della rispettiva discografia, il ruggente 'Burn Your Bridge' per il terzetto post-hardcore di Vesoul, e il graffiante 'Total Dump' per il gruppo di Clermont-Ferrand (che probabilmente qualcuno avrà potuto apprezzare live insieme agli Unsane al Solo Macello del 2016). Scopriamo che nel 2011 (riproposto nel 2017 dall'Atypeek Music) le due band transalpine, allora scarsamente conosciute dalle nostre parti, avevano unito gli sforzi registrando uno split fatto di distorsioni ipertrofiche e riff abrasivi. Aprono le danze i Membrane con “Gruesome Tall”, “Small Fires” e “Lifeless Down on the Floor”, pezzi ombrosi e che trasudano rabbia, perfetta sintesi delle coordinate della band: un post-hardcore molto pesante e metallico che richiama Breach e Today Is The Day, lanciato come un treno fuori controllo sui binari tracciati dalla batteria martellante e alimentato dallo sferragliare del basso. Ci pensano poi i cupi accordi di Nico e il cantato sofferente a raschiare ogni residua resistenza di fronte al cataclisma che i Membrane scatenano su di noi. La proposta dei Sofy Major è meno viscerale e più cafona (in senso buono), punta su suoni grossi e sulle distorsioni slabbrate create da quei Big Muff di cui non negano la dipendenza e l’abuso: “Ruin It All”, “Doomsayer and Friends”, “Some More Pills” e “Once was a Warrior” sono dei pugni in faccia a cavallo tra il pesante noise degli Unsane e lo stoner pachidermico dei Melvins, brani in cui la band dimostra tutto il suo potenziale sonoro distruttivo. Entrambe riconducibili al filone noise-core, Membrane e Sofy Major ci offrono due approcci differenti, con i primi maggiormente incattiviti e attenti a costruire atmosfere che coinvolgano l’ascoltatore nel loro abisso di angoscia, i secondi irriverenti e rumoristici servi di una qualche divinità del caos. Dal 2011 a oggi entrambi hanno affinato le proprie lame consegnandoci uscite memorabili, ma dando un ascolto a questo split c’è da dire che le premesse erano buone già all’epoca. (Shadowsofthesun)

Rature - Les Oublies d'Okpoland

#PER CHI AMA: Rap/Punk/Jazz, Massive Attack, Manes
Nel Pozzo dei Dannati si fa metal, che diavolo ne posso pertanto sapere io di rap/hip hop, manco mi piace, eppure c'è chi pensa che inviarci materiale di simili sonorità possa essere sempre un buon mezzo pubblicitario, il classico modo di dire "che se ne parli bene o male, l'importante che se ne parli". E cosi ecco trovarmi qui a parlare dei Rature, duo francese e del loro 'Les Oublies d'Okpoland', secondo atto della loro discografia. Diciamo subito che l'impressione che ho avuto all'ascolto di "Orgue", opening track dell'album (peraltro riproposta anche in versione remix con "Stone" alla fine dell'album), è stata più o meno la medesima di quando piazzai nel lettore cd 'Disguised Masters' degli Arcturus, con la sola differenza che qui si rappa e nel '99, in un disco estremamente sperimentale di una band già di per sé sperimentale, non lo si faceva. Poi ovviamente se sento uno dopo l'altro una serie di "yo", come accade in "Oldschool", non posso rimanere favorevolmente colpito, ripeto io ascolto metal e per quanto possa essere di vedute aperte, il rap non è certo il mio genere. Eppure quello dei Rature è un sound caldo che miscela in modo particolare hip hop, punk rock e free-jazz, insomma un bel pastrocchio. Non mi resta altro che farmi intrappolare allora e superare il mio blocco psicologico, facendomi avvinghiare dalle sinistre sonorità di "Poney" e da quel drumming elettronico accompagnato dalle litaniche vocals di arcturiana memoria. Sta a vedere che ci trovo anche godimento ad ascoltare questa musica, non lo escluderei aprioristicamente. È tempo di "Stone" e di un sound che mi evoca i miei trascorsi trip hop con Massive Attack (e gli album più sperimentali dei Manes) e diavolo mi ritrovo addirittura a scuotere la testa al ritmo strisciante dei Rature; questa sensazione tornerà anche in "Coma", dove ho ripensato a "Karmacoma" dei Massive. Che succede, la musica mi entra sotto la pelle, entra nelle vene e mi immergo completamente nel groviglio sonoro creato da questi due artisti. La successiva "Aeiou" non la amo particolarmente, forse troppo vincolata al rap e non proprio brillante a livello di testi, anche se poi quando parte il soundscape in background, ammetto di esserne particolarmente affascinato, vuoi perché riesco a trovare anche qualche similitudine con i CROWN. Il lavoro continua in questa direzione, abbinando alla trance sonica, una buona dose di sperimentazione che va ad ampliare ulteriormente i miei orizzonti musicali. Voi vi sentite pronti? (Francesco Scarci)

(Atypeek Music - 2019)
Voto: 74

https://business.facebook.com/AtypeekMusic/

mercoledì 12 giugno 2019

Ferriterium - Le Dernier Livre

#PER CHI AMA: Black, Windir, Satyricon
Oltre a Dies dei Malevolentia coinvolto nei Saturnus Terrorism, anche Raido, della stessa compagine, si è lanciato nel classico side-project, i Ferriterium. La band francese è però già al secondo album, ossia questo 'Le Dernier Livre', un lavoro diviso in sei lunghi capitoli. L'album chiama in causa come principale influenza i Windir, proponendo infatti già dall'opener epiche melodie di chitarra che accompagnano una ruvida matrice ritmica e le indemoniate vocals di quello che è in realtà il chitarrista dei Malevolentia. La musica è tiratissima in tutti i brani ma mantiene comunque quell'approccio evocato dalla musica classica, sviscerato peraltro dagli stessi Windir e dagli svedesi Dispatched. Se i primi due capitoli del cd guardano tendenzialmente ad un black algido ma atmosferico, "Chapitre 3" è più orientata al versante thrash black, pur esibendo un breve break strumentale ove poggiare le vocals invasate del frontman e ripartire poi di slancio con le classiche glaciali melodie intessute dalla sei corde e il serratissimo lavoro alla batteria di Bael. È tuttavia con il quarto capitolo del disco che si toccano gli apici sensoriali di questo lavoro. Una melodia estremamente malinconia scandita dal rifferama del chitarrista, affiancata da un drumming omicida aprono il pezzo, che in 90 secondi prova a cambiar ritmo, rallenta creando un po' di suspense, ma poi riparte col classico tremolo picking ed una serie di cambi di tempo da urlo, scanditi da splendide melodie e da una sezione solistica finalmente all'altezza, che eleggono il pezzo come il mio preferito del disco. Il pungente e ficcante tremolo picking apre anche "Chapitre 5" in quella che forse è invece la song più brutale del disco, là dove convergono le influenze dell'asse formato da Dissection, Satyricon e Mörk Gryning, anche se in realtà potrei citarvene mille altri, considerato che la song strizza poi l'occhiolino ad un certo black'n roll spaccaculi, soprattutto nell'ottimo assolo a metà brano. La carneficina termina con "Chapitre 6", l'ultimo episodio che mette ancora in mostra una certa abilità nella ricerca melodica messa poi a disposizione della durezza del combo transalpino, a scardinare i cuori gelidi dello stuolo di metallari e allo stesso tempo a testimoniare l'eccellente performance stilistica messa in atto da questi Ferriterium, una band assolutamente da non sottovalutare. (Francesco Scarci)

Marche Funèbre - Death Wish Woman

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Paradise Lost
In attesa di ascoltare il nuovo Lp dei belgi Marche Funèbre, la band ha pensato di regalare ai propri fan, nell'autunno 2018, un EP ('Death Wish Woman') di una mezz'oretta che tenesse calde le orecchie degli amanti del death doom del quintetto di Anversa in vista dell'inverno. E cosi, ecco tre nuove tracce più la cover "As I Die" dei Paradise Lost. E proprio ai primi vagiti di Nick Holmes e compagni, la band belga sembra rifarsi, anche se francamente siamo lontani dalla genialità dell'act britannico. "Broken Wings" è una stilettata death metal, solo leggermente sfiorata in qualche soluzione atmosferica, dalle reminiscenze doom che fanno parte del bagaglio dei nostri, mentre a livello solistico, i punti di contatto con il "Paradiso Perduto" si fanno più forti. Con la title track, il registro non sembra cambiare: ancora death secco e diretto ad inizio e fine canzone, mentre nel bel mezzo del brano fa la sua comparsa una voce pulita e una ritmica più adeguata ai canoni dell'ensemble, che ci riporta in mente i Candlemass più epici. "A Departing Guest" è un viaggio di quasi tredici minuti all'insegna di un doomish sound che questa volta evoca i My Dying Bride, ma la song è cosi lunga che nel suo malinconico svolgersi, si possono scorgere altre influenze, soprattutto nel dicotomico uso della voce, sia in pulito che growl e nella comparsa di atmosfere dal sapore quasi stoner che cozzano un pochino con le più intransigenti accelerazioni death. Non so, non mi convince granché, mi sembra un po' troppo eterogenea, anche quando le chitarre nel loro rifferama, celebrano nuovamente i primi Paradise Lost. E si arriva finalmente a "As I Die", visto che ero curioso di verificare come i Marche Funèbre avrebbero modificato il mitico brano dei PL: se nulla cambia da un punto di vista prettamente strumentale, è a livello di cantato che la song ne esce penalizzata, non tanto quando il vocalist dà libero sfogo al proprio growl, piuttosto quando usa il clean o continua a ripetere "As I Die", mah da rivedere. Alla fine mi sento di dire che 'Death Wish Woman' è un lavoro raccomandato solo per i fan del combo belga, per gli altri, il suggerimento è di ascoltarsi i precedenti full length dei nostri. (Francesco Scarci)