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giovedì 21 settembre 2017

Deliverance - Chrst

#PER CHI AMA: Black/Sludge
Gira e rigira il mondo, ma sempre in Francia dobbiamo ritornare, nemmeno fosse il polo magnetico del metallo estremo. Ecco quindi i Deliverance e il loro 'Chrst', un concentrato maligno di black metal e le atmosfere melmose tipiche dello sludge. La opener "Hung Be the Heavens With Black" conferma immediatamente quanto stia qui dicendo e la pasta indigesta di cui è fatto questo quartetto parigino: i vocalizzi arcigni del frontman si stagliano su ritmiche rallentate di scuola Neurosis, in un lento incedere che trova il suo sfogo rabbioso nella seconda metà del brano che sul finire tira però il freno, rallentando paurosamente la sua fuga. "Out of the Saddening Blank" è un pezzo di oltre 10 minuti che si perde in chiacchiere nei primi due minuti tra riffoni in salsa dronica e qualche rumorino di fondo. Poi quando finalmente i nostri innescano la marcia, la macchina feroce dei Deliverance sembra quasi ingolfata, mantenendo un sound assolutamente controllato che sembra tuttavia tramare nell'ombra una pericolosa accelerazione che tarda però ad arrivare, anzi ad un certo punto il suono si fa decisamente più fioco e tenebroso, con reminiscenze che ci portano anche ai Cult of Luna (non a caso dietro la consolle si siede Magnus Lindberg, ascia proprio dei gods svedesi). La proposta dei Deliverance però suona po' troppo statica per i miei gusti, sembra non voler osare nemmeno nella terza "The Discrucified", altro mid-tempo che si lancia in un attacco ferale solo per una manciata di secondi. La furia black esplode finalmente in "A Bone Shall Not Be Broken", scrollandosi di dosso tutta quella patina controllata post sludge della prima parte del disco. Dopo un paio di minuti, i nostri sfoggiano un rifferama che poteva tranquillamente stare su 'South of Heaven' degli Slayer, arricchito da uno secondo strato di chitarre che enfatizzano la carica atmosferica della song, che va incupendo e rallentando il proprio sound. E a proposito di atmosfere oscure, ecco arrivare "I Say: Chrst!", traccia nera come la pece, lenta e malata che mette in mostra la bravura dei nostri nel saper combinare con una certa facilità, due generi come il black e lo sludge, senza risultare mai scontata. 'Chrst' non è comunque un album cosi immediato o facile da ascoltare anche se l'ultima "Across Gehenna" è forse la song più lineare del lotto sebbene s'increspi ancora una volta nel finale. Insomma, un album quasi incompiuto che mostra luci e ombre di una band ancora in rodaggio. (Francesco Scarci)

Voto: 65
(Deadlight Entertainment - 2017)

https://deadlight.bandcamp.com/album/chrst

Kora Winter - Welk

#PER CHI AMA: Math/Post Hardcore, The Dillinger Escape Plan
L'EP 'Welk' rappresenta il secondo lavoro dei Kora Winter, quintetto berlinese dedito ad un post hardcore. Il disco si apre con "Bluten" che, con un delicato e un po' banale arpeggio dà il via alle danze del dischetto. L'atmosfera è tirata, comunque piacevole ed è costruita da chitarre isteriche dal piglio math quasi ad emulare i The Dillinger Escape Plan. L'introduzione poi del sax di Paul Griesbach abbassa i toni e incupisce l'atmosfera; pur senza creare alcun sconvolgimento progressivo, l'utilizzo del sax apre una parentesi nettamente diversa dal contesto sonoro iniziale. La successiva "Stiche" torna sulle orme della prima a livello ritmico, tanto che si potrebbe confondere come la continuazione della precedente. La seconda metà della release si apre con "∞", un canto interpretato da Lisa Toh, rifacimento di "Es War Einmal Ein Fischer" dell'artista lituana Lorez Alexandra, scomparsa nel 2001, una sorta di canto di una sirena che per alcune cose mi ha ricordato il folk di Kari Rueslåtten, prima cantante dei The Third and the Mortal, suggestiva, ma forse un po' fuori contesto. Questo breve EP si chiude con "Narben", traccia in cui si evidenzia particolarmente la disinvoltura chitarristica dei nostri in pattern ritmici propri del post black. La produzione infine è tipica del genere: patinata e brillante, con forti compressioni. Le composizioni giocano con breakdown e improvvise accelerazioni per dare l'impressione di movimento anche se l'effetto finale non è sempre azzeccatissimo. In conclusione, i 20 minuti di musica inclusi nel cd, mostrano una certa omogeneità di fondo dal punto di vista strutturale e melodico, eccezion fatta per la terza ovviamente. La tecnica c'è, il cantato in tedesco è particolarmente emozionale e si presta al genere, riguardo il resto c'è ancora da lavorarci duramente sopra. (Francesco Scarci)

(Self - 2017)
Voto: 70

https://korawinter.bandcamp.com/

domenica 17 settembre 2017

Mesmur - S

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Evoken, EA, Esoteric
Torna la Solitude Productions, ritornano i Mesmur con il secondo capitolo della loro discografia, e il neo-sodalizio tra questi due nomi non può che essere un sound devoto al funeral doom. Il quartetto, capitanato dal frontman dei Dalla Nebbia, Jeremy L, coadiuvato da tre fidi scudieri, tra cui anche il bassista italiano Michele Mura, torna a proporre la propria visione apocalittica del doom, attraverso quattro lunghe tracce che, partendo da "Singularity" arrivano a "S = k ln Ω", attraversando l'angosciante oscurità di "Exile" e "Distension". Il suono come avete ampiamente intuito è un concentrato di soffocanti suoni funerei che, come già accaduto nel debutto omonimo, ha però modo di spezzare l'integrità di un muro sonoro spesso e soffocante, con degli intermezzi ambient assai melodici in grado di dare giovamento ad una proposta che rischierebbe invece di peccare di eccessiva monoliticità, come talvolta accade a questo genere. E invece, accanto al lento e logorante incedere ritmico, accompagnato dalle grugnolesche vocals di Chris (che abbiamo già avuto modo di apprezzare negli Orphans of Dusk), ecco apparire di tanto in tanto, giochi di luce, affidati ai synth di Jeremy che si diletta nell'evocare i fantasmi di My Dying Bride ed Esoteric, alleggerendo cosi di parecchio la loro visione fin troppo pessimistica del mondo. Chiaroscuri di matrice sludge, completano una traccia complessa che ha addirittura modo di richiamare i Neurosis. Dopo il finale al limite del noise di "Singularity", ecco le note malinconiche e dilatate di "Exile" che si muovono lentamente attraverso suoni di una drammaticità coinvolgente, merito ancora una volta del magistrale lavoro atmosferico eseguito dai synth del frontman americano. La proposta è cupa e tortuosa, non mancano i rimandi agli Evoken, agli EA, agli immancabili Shade of Despair; splendido l'interludio esattamente a metà brano, in grado di minare la lucidità della mia mente ma anche di alzare l'asticella di un lavoro che sembra aver imboccato una propria strada, sebbene quelli esplorati rimangano i meandri di un genere musicale che ha il merito da sempre di continuare a rinnovarsi con band assai intelligenti ed originali. E i Mesmur sono una di queste, un ensemble maturo che ha imparato dai paradigmi di un genere in continua evoluzione ad ampliare la propria visione cosmica. E il quartetto conferma questo trend arricchendo la loro proposta di strappi black death (retaggio dell'altra band di Jeremy), come sul finire della seconda traccia. Con "Distension", l'atmosfera si fa più perversa, complici dissonanti e disturbanti suoni in grado di deviare la psiche in modo assai pericoloso. Si tratta di oltre cinque minuti di musica delirante quasi lisergica che sfocerà nell'abisso di un funeral doom distorto e contorto che, percorrendo i pericolanti sentieri di una traccia insana e claustrofobica, ci condurrà fino alla conclusiva, epico-dronica strumentale "S = k ln Ω", il cui titolo si rifà alla Costante di Boltzmann, necessaria per il calcolo dell'entropia nella termodinamica, quella grandezza intesa come misura del disordine dell'universo, generalmente rappresentata dalla lettera S, proprio come il titolo di quest'album. Che sia il caso di rivedere le leggi della fisica, che l'entropia dell'universo sia ancora in aumento? Se cercate delle risposte a queste domande, 'S' potrà fare al caso vostro. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/mesmurdoom

One Eyed Jack - What'm I Getting High

#PER CHI AMA: Post Grunge, Alice in Chains
Se vi state (carverianamente) domandando di cosa si stia sballando il buon vecchio Jack lo Sguercio quando suona questo 'What'm I Getting High', a mettere le cose in chiaro ci pensa la affilata linea di chitarra assolutamente "goodmotorfinger" nei primissimi secondi dell'introduttiva "Primetime". Nel prosieguo, l'album incede con granitica lentezza, aggirandosi rispettosamente tra i (numerosi) fantasmi di Seattle. Tanti momenti di scuola Staleyniana ("Washyall", "Dog Fight", quasi tutta "Shitting Blood"), compresa la melancolica ballata mad-stagionale "Soon Back Home", tanto distante dagli Alice in Chains quanto il Nostro dalla realtà, nella seconda strafattissima metà degli anni '90. Fungono da estemporaneo contrappeso il tiro (s)groove di "Sgrunt" e l'abbrivio inaspettatamente new-w. di "Drama Shit". Produzione devota ai riferimenti musicali e al loro tempo, ma a tratti eccessivamente affogata ("Little Junior Finally Grew a Beard", per esempio). One Eyed Jack, il fante di picche, è anche il titolo dell'unico film diretto da Marlon Brando e il nome del casinò-bordello dove fu verosimilmente adescata Laura Palmer la notte del suo assassinio ne 'I Segreti di Twin Peaks' (non serviva neanche stare a specificarvelo). Nel caso ve lo steste (carverianamente) domandando. (Alberto Calorosi)

Voto: 65

Ok, passi il termine post grunge anche se in realtà non l'ho mai capito, passi il ponte con la scena di Seattle ammettendolo solo in piccola percentuale ma non mi si tirino in ballo i grandi nomi che la resero grande come Soundgarden o Alice in Chains che proprio il paragone non ci sta. 'What'm I Getting High On?' è un buon album dai risvolti vintage, prodotto uscito per il coraggioso collettivo FIL 1933 group, con buoni risultati e con discreta originalità se si guardano i trend rock del momento, con un pizzico di psichedelia che non guasta ma senza la rabbia che ha portato il sound di Seattle a creare una generazione di mitiche band disadattate. Quindi, bisogna guardare il combo bresciano da una prospettiva diversa. Le uniche band dell'epoca in questione che, per attitudine sonora possiamo accostare al gruppo lombardo, sono gli Smashing Pumpkins agli arbori e in parte i primi Afghan Whings, quelli meno famosi e passati inosservati per tanto tempo. La prospettiva giusta è da ricercare nella musica che precedette il movimento grunge, tutte quelle rock band che volevano creare alla fine degli anni ottanta/inizio novanta, qualcosa di nuovo, spostandosi dal solito rigurgito punk, fuggendo dalla new wave ed evitando il metal, band come i Mega City Four, i Dag Nasty, i primissimi The Flamming Lips, Catherine Wheel o Band of Susans, tutte band strabilianti ma poco comprese perché i tempi non erano ancora maturi per la loro venuta. Quindi, osservati da questa angolatura, gli One Eyed Jack, hanno un motivo serio di esistere e di essere apprezzati per il coraggio della loro proposta fuori dal tempo, radicale e originale, un attitudine tra hard rock, leggera psichedelia e rock alternativo, riveduta e corretta in termini odierni. Bravi musicisti e soprattutto coraggiosi a presentare un album simile a dispetto dei paraorecchie che ci sono in giro oggi. Interessanti, trasversali, prodotti egregiamente e non annoiano mai; anche se qualche brano potrà risultare derivativo ma nel totale sono molto carini all'ascolto. Niente rivoluzioni, solo un occhio intelligente al passato, un gran bel disco di rock alternativo e la voglia vera di fare musica senza condizionamenti modaioli. "Primetime", "Little Junior Finally Grew a Beard" e "Drama Shit" i brani più rappresentativi. Fatevi coinvolgere! (Bob Stoner)


Voto: 70

Mekigah - Autexousious

#PER CHI AMA: Avantgarde/Drone/Black/Noise, Ulver
Mekigah atto quarto: tanti sono infatti gli album che il sottoscritto ha recensito per la band australiana qui nel Pozzo dei Dannati, band che seguo sin dal loro debutto del 2010, 'The Serpent's Kiss'. L'act di Melbourne, capitanato come sempre dal solo Vis Ortis, coadiuvato poi da tutta una serie di amici che da queste parti conosciamo bene (penso ad esempio a T.K. Bollinger) rilascia un nuovo lavoro, 'Autexousious', che prosegue nella sua evoluzione sonora verso lidi sconfinati. Li avevamo conosciuti come promotori di un sound dark gothic, li abbiamo apprezzati nella loro veste death doom, li abbiamo lasciati in territori drone con 'Litost' e da li ripartiamo per immergerci nelle nere tenebre di 'Autoexousious' e del suo suono apocalittico, putrescente e melmoso che per certi versi riprende proprio il penultimo album, affidandosi completamente a landscapes sonici disturbati, votati ad un dronico approccio angosciante, come quello che si respira ad esempio nella lunga ed inquietante title track, una marcia funebre aspra ed allucinata, contraddistinta dai vocalizzi insani del mastermind australiano. Si prosegue e si finisce catturati dai suoni deliranti di "Fooled Blood", non so se una vera song o piuttosto un interludio per la successiva "Zmatek". Una traccia sperimentale di scuola "ulveriana", complice una voce che evoca in un certo qual modo, quella di Garm, in un incedere epico e finalmente digeribile e coinvolgente (soprattutto a livello percussivo), in grado di rendere la proposta dei Mekigah un po' più abbordabile, almeno nella sua prima parte, prima che rigurgiti psicotici emergano dalla maledetta ed oscura musicalità di questo brano. Un altro intermezzo noise ed ecco "The Infinite Never", una non-canzone all'insegna di voci robotiche e dilatatissimi suoni ambient-ritual-cibernetici. Ci avete capito qualcosa? Io non molto, ma forse è il bello di questa band che ha ancora tempo di sparare le ultime cartucce con il trittico finale affidato alle litaniche e soffocanti melodie di "A Vast Abyss", un brano che incarna forse l'intera produzione dei Mekigah in un malinconico e caustico pezzo all'insegna di ambient black doom drone d'avanguardia. Con "Backpfeifengesicht" ci immergiamo in dieci minuti di minimalistici vaneggiamenti sonori che tra drone, black noise, oscuri anfratti ambient, avantgarde e musica elettronica, non fanno altro che proiettarci in uno spazio intergalattico assai distante. A chiudere il disco, il cui mastering è stato affidato a Greg Chandler degli Esoteric, ci pensa "Rejection Nostalgia", l'ultimo atto che mal cela la follia dilagante di Vis Ortis e dei suoi Mekigah. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2017)
Voto: 75

https://mekigah.bandcamp.com/album/autexousious

venerdì 15 settembre 2017

Hypnotic Drive - Full Throttle

#PER CHI AMA: Heavy/Stoner, Black Sabbath, Alice in CHains
Ovunque, monolitiche architetture di conglomerazione lapalissianamente sabbatiana ("Voodoo Witch" vs. "Black Sabbath", la canzone; "Darkened White" vs. qualcosa a caso di 'Master of Reality', per esempio "Lord of this World"), sabbatianamente psych anche nel modo altrettanto sedimentario, tanto caro agli Alice in Chains, di rarefarsi improvvisamente e generare repentini stati di sospensione emotiva ("Barbwire"). I toni digressivamente vintage (alla Wolfmother, giusto per dirne una) di canzoni come "Heading South" lasciano dubbi sull'intenzionalità, forse in realtà semplicemente heavy-southern (perlomeno a giudicare dal titolo). Un approccio ortodosso ed eccessivamente devozionale nei confronti di quello che è universalmente noto come il sottogenere più monolitico della storia del rock (quindi occhio agli sbadigli), impreziosito però dalla introduttiva deflagrante "Five Regrets", una canzone che emana monossido di carbonio prima ancora di cliccare sullo Start, che al contrario è indebolito da un'incerta performance vocale sempre dubbiosa, al confine tra il rauco e il clean e a tratti disgraziatamente prossima a certi mugugni alla tardo-Glen-catetere-Danzig, specialmente quando lo skyline melodico si fa più accidentato (cfr. "Crossroads"). (Alberto Calorosi)

Voto: 65

A sentirli non si direbbe che la loro base operativa sia nella capitale francese, tanto è il sudore, l'asfalto caldo e la polvere che emana il loro primo album. Con intelligenza e maestria la band parigina, nel suo piccolo, stravolge le regole dello stoner, del metal e del doom. Gli Hypnotic Drive mantengono una certa originalità pur mischiando le carte dei generi citati in precedenza senza pretendere di spacciarsi per innovatori ed il risultato li premia, perché questo loro primo lavoro nasconde paragoni stilistici distanti tra loro ma uniti dalla voglia di questi musicisti di comporre brani fuori dagli schemi, diversi dalle mille band fotocopia che popolano il panorama internazionale. Per cominciare citiamo gli Alabama Thunder Pussy che suonano caldi e sudati, uniti al piglio ancestrale di certi album dei Candlemass (vedi "Dactylis Glomerata"), Wino e Down, con la graffiante verve punk dei Damned della prima ora e la malattia per i motori e le strade desertiche che li accomuna all'hardcore/hard rock degli Zeke. Gli Hypnotic Drive non prediligono la psichedelia, che in questo album è praticamente assente, hanno un tiro assai spinto di scuola Motorhead anche se il tono particolare della voce, che per certi aspetti ricorda il mai dimenticato, spettacolare, Dave Vanian degli esordi con picchi più aggressivi che spopolano in territorio Sixty Watt Shaman, li rende molto interessanti e credibili. Una produzione piacevole dona infine il tocco sotterraneo e pesante all'intero lavoro e la copertina rispecchia bene l'intento della band. Echi di classic metal escono dal pentagramma del combo transalpino e non guastano, anzi li spingono in territori molto vintage rock che ben si sposano con l'idea di rinnovare ed ampliare l'immagine dello stoner rock. Disco adrenalinico, da apprezzare a volume alto, curato e indipendente, fuori dagli schemi di chi si aspetta il solito categorico stoner rock, decisamente un buon album per chi ama il suono duro e polveroso. Dei buoni musicisti, un groove potente e la voglia di andare oltre. "Voodoo Witch", "Crossroad" e "Barbwire" i brani più incisivi. Bel disco! (Bob Stoner)

Mad Dogs - Ass Shakin' Dirty Rollers

#PER CHI AMA: Hard Rock
Dopo qualche tempo torniamo a parlare della GoDown Records, etichetta granitica nata quasi quindici anni fa e che ha sempre mantenuto un elevato livello nelle sue produzione stoner/garage/psychedelic rock. L'etichetta ci presenta oggi i Mad Dogs e il loro ultimo album ' Ass Shakin' Dirty Rollers' (il terzo) uscito quest'anno ad aprile. Il quartetto nasce a Macerata nel 2009 e dopo due lavori abbandonano la lingua italiana e si buttano a capofitto nel garage/blues rock con ancora parecchio da dire. Le tracce sono dodici, veloci ed intense come ci si aspetta dal genere, vedi "Make it Tonight" che strizza l'occhio ai vecchi Guns N' Roses grazie al ritornello facile e i gran riff e assoli di chitarra. Addentrandoci sempre più a fondo nel mondo di questi cani pazzi, si rimane sempre più colpiti dal groove dei brani, come in"It's not Over", un perfetto blues adrenalinico misto ad hard rock anni '70 che entra facilmente in circolo e convince senza tanti complimenti. Piacevoli, seppur semplici, gli interventi di tastiera/organo che completano il tutto, rendendo il sound rotondo e per certi versi raffinato. Il brano più scanzonato è sicuramente "Surf Ride", una ballata veloce e sentita più volte, ma che cattura sempre, soprattutto durante un live con un pubblico che ha voglia di divertirsi e non aspetta altro per potersi scatenare. Nel complesso la qualità audio dell'album è in linea con il genere, quindi niente di ricercato, tutto si basa sulla musica, quindi il resto è relativo. Ma dove c'è luce c'è anche oscurità, ed ecco quindi "Psychedelic Earthquake" che chiude questa release, una sorta di 'The Dark Side of the Moon' dove i fumi di oppio aleggiano pesanti intorno a noi. Nel frattempo la musica cresce a ritmo di un battito cardiaco ancestrale, tutto rotea sempre più veloce fino all'esplosione finale dove la sezione ritmica prende il sopravvento insieme all'hammond e all'immancabile assolo di chitarra. Un brano di per sè semplice, ma ben eseguito e con grande impatto emotivo. Che sia questo il sound giusto per la band maceratese? Forse si, ma lasciamo a loro decidere cosa fare da grandi. (Michele Montanari)

venerdì 8 settembre 2017

Blood Red Throne - Come Death

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Brutal Death, Cannibal Corpse
Aaarghhh! Abbiamo recensito gli ultimi due album dei mostruosi Blood Red Throne, andiamo allora a pescare un loro classico, 'Come Death' del 2007. La band, guidata dall’ex Emperor Tchort, si riaffaccia sulla scena a distanza di un paio d’anni dal fortunato 'Altered Genesis', con un lavoro compatto di una quarantina di minuti, che prosegue il discorso iniziato nel 2001 con 'Monument of Death'. La musica è come sempre un micidiale attacco frontale di puro death metal sulla scia dei migliori act americani (quelli della Florida per intenderci). La release dei nostri segna tra l’altro, l’ingresso in formazione di Anders Haave alla batteria e Vald alla voce, che mostrano decisamente di saperci fare. La musica? Beh, è il solito pesantissimo e intricato muro di riffs eretto dal duo formato da Tchort e Død, sorretto dalla violenza di Anders alle pelli (mostruoso nei campi di tempo e nei blast beat) e dalle gutturali vocals di Vald (che si lascia talvolta andare anche a uno screaming maligno, di stampo black). È un brutal death efferato che non lascia scampo: chitarre al fulmicotone (ascoltatevi “Taste of God”, “Guttural Screams” o la title track per farvi un’idea) crivellano di proiettili il nostro corpo, spaziando con il loro inquieto riffing in territori black o grind, talvolta rallentano nel tentativo di creare atmosfere angoscianti, quasi claustrofobiche, ma che fanno comunque pur sempre male. La quarta release della band scandinava è vincente, anche se non riesce a raggiungere i livelli dei precedenti lavori. Consigliato ai seguaci della band e agli amanti del brutal in genere, perché per chi non è abituato, qui si rischia veramente la pelle. (Francesco Scarci)