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venerdì 22 aprile 2016

Temple of Dust - Capricorn

#PER CHI AMA: Stoner/Psych/Blues Rock
Oggi, con estremo piacere mi accingo a parlare dell'edizione in vinile di 'Capricorn', debutto degli italianissimi Temple of Dust, uscito per l'etichetta Phonosphera Records. Il trio monzese nasce nel 2013 e debutta l'anno successivo con la versione EP di 'Capricorn', ovvero due brani in meno pubblicati su cd e in digitale. I Temple of Dust si caratterizzano per un blues pesante contaminato da sonorità stoner, doom, noise e post rock, ovvero una mazzata dritta allo stomaco che vi farà ricordare gli Hawkwind e la loro psichedelia acida. Il disco è stato stampato in trecento copie e si contraddistingue per il colore bianco del PVC e l'artwork ben fatto, quindi un bel pezzo da collezione per gli amanti del suono meccanico. Il lato A apre con la title track e veniamo accolti subito dalle note di basso che escono piene e suadenti dalle casse dell'impianto mentre il disco (180 gr.) gira in maniera perfetta sul mio piatto. Le chitarre entrano di prepotenza ed oltre a creare il classico muro sonoro, creano in sottofondo una linea melodica distante, in puro stile post rock. Poi è la volta dell'effetto phaser applicato alle sei corde, tipico dello stoner e del rock psichedelico che crea un turbine di suoni pronto a trascinarci negli inferi. Ritmica pesante e cadenzata, quasi a volere dettar legge su quali siano i giusti bpm che regolano i ritmi circadiani della nostra esistenza. La voce ha subito un processo di distruzione sonoro e successivo ricomponimento con l'aggiunta di una buona dose di effetti. Se tutto questo è stato fatto per regalarci qualcosa di diverso dal classico cantato, non possiamo che apprezzare. La miscela è ben riuscita e dona una carattere evocativo a tutto il brano mantenendo un elevato impatto. "Requiem for the Sun" accelera rispetto a quanto sentito fin'ora e acquista parecchio in groove, con i riff di chitarra belli spavaldi anche se qualche arrangiamento ha quel non so di già sentito che permane nella nostra testa. L'assolo aumenta lo stato di ansia già di per sè elevato del brano, insieme a un cantato che è molto più comprensibile, ma sempre carico di riverbero e/o delay. Un brano che vi farà dondolare la testa anche se non vorrete, è assicurato. "Szandor" chiude il lato A del disco ed è un diamante parzialmente grezzo: la ritmica di basso è molto new wave e i tocchi di chitarra vi faranno attraversare mondi lontani dove la sabbia del deserto è blu e il cielo verde. Per tutto il brano è presente il campionamento di un monologo dalla provenienza non meglio precisata, una scelta già fatta da altri, ma comunque azzeccata. Un'ottima colonna sonora dove le chitarre liquide della band vi faranno compagnia per oltre sei minuti. Del side B, vorrei segnalarvi "Goliath", probabilmente il brano che preferisco, infatti in poco più di cinque minuti, il trio mette in piazza il meglio del loro repertorio. Un classico blues imbastardito da una sezione ritmica accattivante ed un fantastico riff di chitarra che come un mantra si ripete all'infinito, ipnotizzandovi in un piacevole stato di meditazione. L'alternarsi del riff principale, in versione pulita e distorta, permette al brano di avere una sua dinamicità e verso la conclusione si aggiunge anche una lieve linea di synth che da un tocco sci-fi che non guasta. 'Capricorn' alla fine è un LP ben fatto, sia musicalmente che a livello di registrazione e post produzione; il feeling del vinile è indiscutibilmente un orgasmo per le nostre orecchie martoriate da migliaia di file mp3 che hanno la dinamica di un manico di scopa. Lunga vita alla buona musica prodotta altrettanto bene. (Michele Montanari)

(Phonosphera Records - 2016)
Voto: 80

https://templeofdust.bandcamp.com/album/capricorn-lp

mercoledì 20 aprile 2016

Chrch – Unanswered Hymns

#PER CHI AMA: Doom, Solitude Aeturnus, Earth, Cathedral
Non esistono compact disc dei Chrch ma solo audiocassette o vinili, ed io sono il fiero possessore di uno di quest'ultimi. Tre tracce, quarantacinque minuti. Il combo californiano, con questo debut album, evoca un doom ipnotico, estenuante, con tratti psichedelici e poderosi fendenti sonori. “Dawning” si apre con movimento paradossalmente veloce, ove le chitarre granitiche dettano il ritmo, il basso è enorme, distorto e riempie ogni poro dell'anima. La voce pulita di Eva si alterna con lo screaming arcigno di Chris in un orrorifico dialogo. Verso metà brano si entra in un banco di nebbia sostenuto da arpeggi puliti dai contorni liquidi, dove la voce femminea accompagna l'ascolto tra il monolitico pronunciarsi della linea ritmica e un'eterea chitarra solista. Durante quest'onirico viaggio, la nebbia si dirada progressivamente fino a far tornare le distorsioni sovrane e aumentando il ritmo esponenzialmente fino a ritrovarsi nel movimento iniziale, che colpisce con ancor più forza e malvagità. Segna l'inizio del lato B “Stargazer”, song che si rivela la parentesi melancolica del disco e culla l'ascolto nell'agonia della saturazione sonora. Le chitarre sono melodiche e l'atmosfera sognante non si perde nemmeno quando nella seconda metà del brano, il tutto s'incupisce con sporadici scream e chitarre maggiormente aggressive. La conclusiva “Offering” rallenta ulteriormente il ritmo trascinandoci in un buio e interminabile oblio. Le pennate si fanno ancor più lente, il sustain e i feedback invitano la materia grigia a dissolversi, le urla angoscianti avvertono dell'impossibilità della salvezza, le basse frequenze non lasciano quartiere. 'Unanswered Hymns' è un disco a dir poco mastodontico a livello di suoni, volumi e songwriting. Riesce a catturare, emozionare, distruggere e tumulare tutto ciò che si è provato. L'ascolto è altamente consigliato sia ai proseliti della scena stoner-doom americana che a coloro che sono più affezionati alle funeree atmosfere continentali. (Kent)

(Battleground Records - 2015)
Voto: 80

Heartbeat Parade - Hora de Los Hornos & Some Sort of Naked Apes


#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Math Rock
Dopo 'Digital Tropics' dei Mutiny on the Bounty, è la seconda volta nel giro di un mese che mi trovo alle prese con una band proveniente dal Lussemburgo. La musica del trio è un intrigante insieme di math, hardcore e post-metal strumentale, sul quale vengono però sapientemente innestati samples di spoken words provenienti da film, documentari, notiziari radiofonici o televisivi, per un risultato davvero interessante. Saranno state le aspettative non proprio altissime, ma confesso di essere rimasto piacevolmente sorpreso dalla freschezza di questi due album e di averli ascoltati molto piú a lungo di quanto non mi sarebbe stato richiesto ai fini della sola recensione. Niente di rivoluzionario, sia chiaro, ma di sicuro un concentrato di ottime idee realizzate nella migliore maniera possibile. Gli Heartbeat Parade sono musicisti dotati di ottima tecnica ma hanno l’intelligenza di non abusarne e in piú hanno l’inventiva che gli permette di trovare sempre soluzioni intelligenti e sorprendenti. 'Hora de Los Hornos' è il loro terzo lavoro, del 2013, il primo vero e proprio album e quello con cui arrivano alla piena maturità espressiva. L’equilibrio tra le componenti math e hardcore riesce sempre a reggersi in modo mirabile nonostante la sua fragilità, e la scelta dei campionamenti risulta sempre estremamente suggestiva, ovviando nel migliore dei modi all’assenza di un cantato vero e proprio. In particolare, questo espediente permette alla band di affrontare tematiche sociali affidandosi alle voci della cronaca, che unite alla loro musica travolgente, permettono di ottenere un risultato dall’alto tasso emotivo. 'Some Sort of Naked Apes' è invece il loro ultimo full-length, uscito sul finire del 2015, e rappresenta un ulteriore passo in avanti nella proposta della band lussemburghese, che si arricchisce di sfumature, cementa il suono e consolida un’intesa tale da raggiungere vette di quasi perfezione in brani quali “Choc et Stupeur”, “Another One Wipes the Dust” e “Bottom up!”, dove si realizza quell’ideale connubio di potenza e delicatezza, tecnica e passione che vorremmo fosse sempre presente in tutti i lavori di questo tipo. Dischi consigliatissimi (in particolare l’ultimo) per una band davvero notevole. (Mauro Catena)

(Hora de Los Hornos - 2013)
Voto: 75

(Some Sort of Naked Apes - 2015)
Voto: 80

domenica 17 aprile 2016

Filth in My Garage - Songs From the Lowest Floor

#PER CHI AMA: Post-Hardcore, Amia Venera Landscape
L'Argonauta Records prosegue la propria politica votata alla scansione delle migliori realtà nostrane e non solo: dopo aver assoldato Nibiru, Wows e Kayleth, giusto per stare in casa nostra, l'etichetta ligure ha messo sotto contratto i bergamaschi Filth in My Garage, che giungono con questo 'Songs From the Lowest Floor', al tanto agognato Lp di debutto dopo due EP usciti nell'arco di quasi dieci anni. Non proprio prolifici è il caso di dirlo, ma la band ne ha la consapevolezza e comunque i nostri hanno speso il loro tempo con lunghi e proficui tour all'estero. Nel frattempo i lavori sono andati avanti per dare in pasto ai fan nuovi brani in una veste grafica davvero elegante. Il disco infatti esce in cd ma soprattutto in vinile, con un lavoro minuzioso fatto di scrittura a mano da parte di un calligrafo professionale e un booklet pazzesco (in stile cd) con delle illustrazioni deliranti, a cura del vocalist (chissà quali funghi allucinogeni avrà ingerito), associate ad ogni song del disco. Bando alle ciance ora e concentriamoci sulla musica dei cinque. Musica che si apre subito con una sorpresa: la sensazione è infatti quella di trovarci nel set del film 'Il Buono, il Brutto e il Cattivo' con tanto di colonna sonora firmata da Ennio Morricone, il classico spaghetti-western italiano. Neanche il tempo di adattarci a questa situazione che la band ci attacca con "Black and Blue" e il paragone potrebbe essere quello di un frontale con un bus. L'acido e contaminato post-hardcore dei nostri ci investe infatti con il proprio ritmo incalzante corroborato dall'ottimo scream/growl dell'allucinato Stefano, mentre i nostri ci concedono solo un brevissimo break che mi ha ricordato alcune cose degli At the Soundawn e degli Amia Venera Landscape. Il corrosivo sound dei nostri prosegue in "Devil's Shape", anche se qui le ritmiche non si rivelano cosi serrate come in precedenza, ma giocano piuttosto a rincorrersi tra cambi di tempo e break acustici, dove le voci abrasive vengono sostituite da un cantato pulito. "Greenwitch" è una strumentale che inzia col delizioso pulsare del basso di Simone, a cui via via si aggiungono gli altri strumenti per una rincorsa vorticosa contro il tempo per raggiungere "The Awful Path". Una song dal sapore quasi blues rock, a cui aggiungerei anche lo sludge, dove l'ensemble lombardo strizza l'occhiolino ai Neurosis, una traccia dall'incedere ondivago che mette in mostra la complessità strutturale della musica prodotta da questi ragazzi. Chi pensa infatti che l'hardcore sia semplice da suonare perchè mera derivazione del punk, e dei suoi suoni dritti, ascoltando 'Songs From the Lowest Floor', dovrà ricredersi completamente, dati i notevoli cambi di ritmo, di umori e tensioni che si avvertiranno durante l'ascolto del disco, che diventano ancor più profondi nella lunga e magnetica "Red Door", la traccia in cui fa capolino anche una certa influenza di scuola Isis: buone melodie, ritmiche che ondeggiano tra ipnotici downtempo e sfuriate di derivazione mathcore, alla The Dillinger Escape Plan, in una song davvero completa e massiccia, che non scorda neppure di palesare il classico break "prendi fiato". "The Lowest Floor" ci concede ancora il tempo di rifiatare con una traccia carica di groove ma anche della caustica attitudine screamo. Mi avvio a chiudere il disco con l'ascolto di "Owl Feather", un'altra, l'utlima traccia in cui il quintetto orobico ci delizia alternando momenti atmosferici e malinconici con sferzate di rabbioso hardcore. Insomma, 'Songs From the Lowest Floor' è l'ottimo biglietto da visita dei Filth in My Garage, far finta di niente e non concedergli un ascolto, sarebbe indegno da parte vostra. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2016)
Voto: 75

https://filthinmygarage.bandcamp.com/

sabato 16 aprile 2016

Swan Valley Heights - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock, Colour Haze, Truckfighters, Fu Manchu
Potrei chiudere questa review all’istante. Vi basti sapere che sullo splendido packaging di questo lavoro del trio tedesco Swan Valley Heights c’è scritto “Please listen at full volume”. E che le sette tracce (mai sotto i 6 minuti l’una, più spesso oltre i 9) sono un capolavoro di fuzz e bigmuff con le rotelle a fine corsa, basso distorto e pulsante, batteria minimale ma sempre precisa, arpeggi spaziali imbevuti di delay e una voce pulita e distante (forse l’unico neo del disco, per la sua scarsa personalità), leggermente grunge nelle scelte melodiche. Se esistesse una scuola di riffing, gli Swan Valley Heights sarebbero i prèsidi onorari a vita: potenti, lineari, ossessivi, precisi. Talmente in fissa per il groove, che non ho trovato un singolo riff noioso, banale o semplicemente riempitivo. Vi sfido a non canticchiarvi in testa il giro portante della spettacolare "Mammoth" (11 minuti abbondanti tra crescendo magistrali e cavalcate in pieno mood Truckfighters), a non muovere la testa a tempo su "Let Your Hair Down" o a non stupirvi ascoltando i cinque quarti di "Caligula Overdrive". Non si corre, qui: c’è molto mid-tempo ben sfruttato. Un paio di pezzi rallentano fino allo spasmo, tingendosi di cupe tinte doom ("Slow Planet", "Mountain"). Poi, quando meno ve lo aspettate, il viaggio tra stoner e sludge lascia la terra e si spinge nello spazio: "Alaska", o l’intro della splendida "Caligula Overdrive" sono gemme di psichedelia lisergica. A completare questo lavoro, metteteci una produzione magistrale: tutto il suono vi arriva in piena faccia, come un pugno. Cassa, basso e rullante fanno sobbalzare il torace e rimbalzano nel cranio (sentitevi il minuto 4.00 di "Mammoth"); la voce è morbidamente in secondo piano, dove dovrebbe essere; la chitarra è definita pur restando pastosa, grassa, gorgogliante di distorsione. Sono senza parole: un disco straordinario, in grado di far incontrare lo psych-stoner più tedesco con la scuola americana, il riffing di derivazione blues con l’ispirazione metallara di un certo stoner di oltreoceano. Comprate questo disco. (Stefano Torregrossa)

(In Bloom Publishing - 2016)
Voto: 85

https://swanvalleyheights.bandcamp.com/releases

Valgaldr – Østernfor Sol

#PER CHI AMA: Black Old School, Satyricon
La nota tela di Theodor Kittelsen è un piacevole primo impatto con il debut album dei norvegesi Valgaldr. E proprio come il dipinto è stato più volte ripreso da altri gruppi (Burzum in primis), il duo propone un black metal privo di qualsiasi originalità. Purtroppo, questa scelta di riprendere gli stilemi anni '90 si scontra con una mancanza di oltranzismo che non riesce a esaltare il prodotto finito. Il disco si apre con “Tusen Steiner”, traccia energica e dinamica la quale mi rimembra la tipica aggressività di un arcinoto gruppo elvetico, mentre la seconda “Et Slott I Skogen” si addentra con il suo riffing sgargiante su territori riconducibili alle melodie tipiche di gruppi come Satyricon, le quali ritroveremo pure in “Slagmark”, la traccia a mio parere più inconsistente dell'opera. “Taakenatt” è veloce, granitica, diretta e grazie alla sua monotonia rispetta tutti i canoni della genuinità tipica del metal oscuro scandinavo. Questa song, insieme alla traccia successiva rappresentano le prime composizioni dell'opera capaci di evocare un minimo di oscurità, soprattutto “Aske Til Aske” con il suo arpeggio semplice ma efficace.“Vargnatt” segna l'inizio della seconda parte del disco e saccheggia spudoratamente la musicalità di 'In the Nightside Eclipse'. Questa seconda metà, grazie a tracce come “Over Fjellheimen” e “Begravelsesferd”, placa la rabbiosità e la grinta thrash/black per affacciarsi verso parti più pacate ed evocative grazie anche a un approccio corale a livello vocale. A livello sonoro invece, le pecche principali del disco si potrebbero ricondurre a un songwriting matematico e ripetitivo, il quale nonostante i plagi non riesce ad amalgamare pienamente il tutto. Inoltre, troviamo una batteria debole e prevedibile che manca totalmente della furia tipica del genere; infine, un taglio delle frequenze alte che invece di enfatizzare una ricercata cupezza o suono wannabe “old school” non fa altro che togliere dinamica alle ritmiche. In conclusione, questa prima fatica non colpisce granchè nel segno e la sua piattezza è gravata ulteriormente dal potenziale derivante da tutte le idee riciclate. Perseguire uno stile sorpassato e esaurito nel suo ambito non è un male anche se è limitante, ma la mancanza di creatività non può essere giustificata. (Kent)

(Fallen Angels Productions - 2015)
Voto: 60

https://valgaldr.bandcamp.com/

A Time to Hope - Full of Doubts

#PER CHI AMA: Post Hardcore/Math
Gli A Time to Hope (ATTH) sono un quintetto di Montpellier (Francia) che debutta con questo interessante EP autoprodotto, ma promosso dalla Dooweet Agency. ll sound della band francese è un post-hardcore/rock potente ed evocativo, come se gli Architects si fossero fusi con i Mogwai e avessero tentato di intraprendere un nuovo percorso musicale. Il giovane quintetto ha le idee chiare ed una buona tecnica di base, lo si capisce subito da "RosaRosa", la opening track di questo EP. Una potente scarica ritmica di basso e batteria sostiene infatti i velocissimi riff di chitarra, mentre il vocalist si destreggia tra canto melodico e screaming, ad enfatizzare nella maniera corretta i vari passaggi della canzone. I suoni sono quelli giusti per il genere e la gli arrangiamenti sono ben fatti, dove la ritmica complessa si fonde a meraviglia con i diversi intrecci di chitarra, rendendo il brano ben fatto e piacevole. In alcuni frangenti si sembra di percepire una sorta di influenza math che non guasta, rendendo più personale il lavoro fatto dalla band. Il cantato in inglese aiuterà sicuramente la band ad internazionalizzarsi, anche perchè l'uso della lingua madre avrebbe comportato uno sforzo che difficilmente sarebbe stato ripagato. "VII" si sporca di elettronica con una drum machine ambient appena percettibile che lascia quasi subito spazio alla versione acustica della stessa, mentre le chitarre si destreggiano in un fraseggio post rock carico di riverbero a ricreare un'atmosfera evocativa ed onirica. Un brano breve ma sufficiente a dimostrare che gli ATTH sanno soffermarsi e divenire più introspettivi quando vogliono. Piccola dimostrazione di personalità e padronanza di stile. "Catfish" rimette le cose a posto riportandoci di punto in bianco a dove avevamo lasciato la band quanche minuto fa, cioè a un post hardcore sincopato. Ancora degno di nota è il cantato, con il vocalist che riesce a trasmettere una vena triste e riflessiva alle melodie grazie a una timbrica abbastanza originale. I riff di chitarra convincono sempre di più, con un innesto di arpeggio pulito e il ritorno della drum machine a completare il disegno. Molto bella la coda del brano che ci spinge verso l'alto e ci regala una pausa, perfetta per meditare ed assimilare questo 'Full of Doubts', il perfetto biglietto da visita di una band giovane, ma pronta a farsi valere. Ben fatto mes amis! (Michele Montanari)

Aidan Baker - At Komma

#PER CHI AMA: Post Rock
'At Komma' è uno dei tanti progetti di Aidan Baker (chitarrista) qui aiutato da Felipe Salazar (batterista dei Caudal, altro gruppo di Aidan Baker). Il Canadese Baker, in attività dal 2000, vanta numerosi album e collaborazioni tra Stati Uniti e Berlino. ed è proprio nel vecchio continente che nasce 'AT KOMMA'. cd registrato live nel febbraio del 2014 presso il centro culturale di Esslingen in Germania, e l'album e le tracce prendono il nome proprio dal locale, appunto Komma. dove spesso i suoi live sono improvvisati grazie al suo stile nel ricreare atmosfere dispersive tramite lenti e eterne sequenze di accordi e suoni che si mescolano tra loro e in loop ti portano altrove ("Komma 2" su tutte). La fragilità di un disco post rock, come quello prodotto da Aidan Baker, sta nel momento in cui lo ascolti. per cui non ne vieni immediatamente folgorato per la costruzione delle canzoni nemmeno dopo svariati ascolti. Devi essere particolarmente propenso a lasciarti trascinare e perderti, trasportato dalle onde sonore ("Komma 3") che Baker e Salazar sono riusciti a creare. Non trovo nulla di nuovo, ma è un buon sottofondo per certi momenti riflessivi che la vita ti richiede. "Komma 4" parte con un clima più festaiolo, 4/4 bello spedito, shaker in ottavi, che un po' ti rincoglionisce dopo 10 minuti di canzone, ma forse è proprio lo scopo prefissato dai due musicisti. Certo, da un album live non ci si può aspettare molto di più, quindi considerando l'attitudine ad improvvisare spesso, lo trovo anche ben strutturato. (Alessio Perro)

(Tokyo Jupiter Records - 2014)
Voto: 60

https://www.facebook.com/AidanBakerMusic/?fref=nf

venerdì 15 aprile 2016

Corinth - S/t

#PER CHI AMA: Stoner/Sludge
Lo sludge/stoner sembra andare parecchio di moda in UK. I Corinth sono infatti una band di Leeds formata da quattro simpatici burloni, come si evince dalla loro pagina facebook (andate a dare un'occhiata giusto per farvi due risate), che ha rilasciato a febbraio di quest'anno, un EP omonimo di tre pezzi che si aggiunge nella loro discografia, ad altri due EP usciti rispettivamente nel 2013 e 2014. Nonostante il loro buffo aspetto, l'ensemble di sua maestà la regina, offre un sound tipicamente melmoso che nelle sue corde, ha modo di inserire spruzzatine doom e heavy. Se l'attacco di "Solar Blaze" sembra abbastanza aggressivo e arrogante, nella sua evoluzione sonora, avrà modo di rendere la propria proposta musicale ben più tetra e pesante, definitivamente doom nel suo claustrofobico finale. Con "Those With No Eyes", il mood dei Corinth si fa ancor più cupo e ossessivo, con il cantato (nella sua duplice forma, sporca e pulita) del duo formato da Ben e Tom (rispettivamente anche chitarrista e bassista della band) ad emulare in una qualche maniera i Neurosis. Il riffing dei nostri è lento, quasi asfissiante ma trova comunque squarci di una certa eterealità nei momenti in cui il vocalist si cimenta con clean vocals evocative. Un approccio più stoner oriented invece si ritrova nella lunga e conclusiva "Ironclad", forse la migliore song del lotto, certamente la più completa. L'incipit stoner dicevamo, a cui seguono deliziosi e pulsanti momenti di psichedelico space rock, reso interessante da un cantato che si fa ancor più convincente lungo gli oltre nove minuti di una traccia ipnotica, lisergica e pachidermica, ma che sa anche divenire camaleontica, contorta e psicotica, e che in alcuni frangenti sembra persino rievocare lo spettro degli Isis. Insomma un disco quello dei Corinth che può essere un preludio a qualcosa di davvero buono. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 70