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sabato 13 dicembre 2014

Handwrist - A Vibe to the Perplexed

#PER CHI AMA: Post Rock/blues strumentale
Torna la one man band portoghese capitanata da Rui Botelho Rodrigues, con un album, 'A Vibe to the Perplexed', che costituisce il settimo sigillo in poco più di due anni. Glassa accartocciata su se stessa dalla musicalità dolce e ripetitiva. "Evolve" apre l'album con fare suadente, orientaleggiante, assistito da creazioni sonore tintinnanti, sostenute da una traccia di sottofondo graffiante, corposa, quasi isterica, non fosse per le distorsioni intercalate ad arte nel brano. Se vi siete lasciati andare con "Evolve", tornate tra noi, ma solo per uno switch che volge a delle note disinibite, in cui la chitarra elettrica fa da padrone e la masticazione metal trova pane per i suoi denti. Tutto vero sino alla chiusura del pezzo, che offre un soffuso ambient jazz lungo, molto lungo, forse un po' spinto, ma assolutamente apprezzabile. Smarrite ogni pensiero e col tocco d'un dito fate partire "Ripple". So che vi piacerà tenere il tempo col pensiero, lasciando che la giornata si annichilisca, a favore di ritmiche pregiate, in cui non sentirete che carezze e scosse sonore modulate come un rally in cui guidate solo voi. Forse debbo destarvi dal visibilio per portarvi in "Perplexed". Indodossate abiti comodi, portatevi un cocktail d'alta scuola e seguitemi, come fossi il Bianconiglio nel Paese delle Meraviglie. Si. Perché questo brano mi parla pur essendo strumentale. Perché la traccia ruggisce di gemiti che sguinzagliano suoni improbabili. Perché l'epilogo è ottundimento puro. Fatemi tornare umana. Qualche plettrata e dalla tana del Bianconiglio, ci troviamo proiettati negli anni ottanta. Lasciatemi dire che "Rootkit" è una bella rivisitazione delle nostalgiche suonate, che, che se ne dica sono sempre attuali. Ora un intermezzo. "Sleep". Suoni e voce sembrano amalgamare l'ecletticità passata e futura. Oh sì! Nuova linfa e siamo sempre nello stesso album! "At the Gloomy Carnival". Cambiamo ancora. Lasciamo che questa marcia tamburelli nella mente e costruisca un motivo tortuosamente accattivante. Ripetitività incalzanti smorzate da poche soste ben congegnate, costruiscono un brano originale e così alieno dai precedenti, come ogni brano precedente per ogni brano precedente. Conclusione? Mi sento proiettata per un attimo nelle danze indiane. Sto amando questo album per la sua poliedria. Cosa chiedere ancora a questa band? Credetemi possiamo chiedere! L'album prosegue con "The God of the Machine". Suoni lenti, uno sfiorare corde più animose che metalliche. Un viatico in cui i 9.33 minuti vi faranno rilassare ed al contempo percorrere i sentieri di ognuno dei pensieri che avete lasciato in sospeso. Veniamo ad "Enthropy". Ascoltate. Lo so. Vi sembrerà di stare addentro a una colonna sonora di un film ad alto costo. I suoni vi moduleranno stati d'animo e umore. Proprio così. Stiamo ascoltando un'ottima musica, che senza immagini ne provoca di istantanee. Senza accorgermene e non vi nascondo, con rammarico, giungo a descrivere l'ultimo pezzo. Come potrei, io che vivo di immagini e suoni e sensazioni, non innamorarmi di quest'ultimo brano? Sapete, iniziare una canzone con un temporale cosparso di pioggia è una vittoria facile, ma corollarlo con una batteria lenta, pennellata appena, una voce così decisa eppure effimera, con un volto strumentale che scompare, rende l'essenza del sentire una matrice incorruttibile, che si fa immagine impensata, vivace, personale. Concludo, lasciandovi a questo ascolto che traccia dopo traccia si materializzerà sulla vostra pelle come un tatuaggio indelebile, lasciando i vostri timpani pregni di bramosia che chiede solo il replay. (Silvia Comencini)

(Self - 2014)
Voto: 85

The Slaughterhouse 5 – Alban B. Clay

#PER CHI AMA: Alternative Rock, At the Drive In, Minus the Bear, Echolyn, Sparta 
I The Slaughterhouse 5 (TS5) sono una band math-rock danese nata nel 2012 e composta da sei signori musicisti. Dico signori perché questo 'Alban B. Clay' è il frutto di un lavoro monumentale: un concept album con cui vengono raccontate le vicissitudini di un misterioso individuo, Mr. Alban appunto. L'album a lui dedicato è composto da sedici tracce arrangiate, registrate ed editate in modo professionale, a queste si aggiungono inoltre degli intermezzi parlati in stile teatrale. Quest'ultimi regalano un'esperienza diversa dal classico rock album dove i musicisti si focalizzano totalmente sui brani, arrangiamenti e suoni. Il loro genere è il math-pop/rock, quindi ritmiche ingarbugliate (ma non troppo), riff iperbolici che mutano dopo poche battute e cantato che per pochi secondi segue la melodia principale e immediatamente si stacca e ne crea una propria. Gli strumenti utilizzati sono i classici del rock, con un forte utilizzo di cori che rafforzano le linee melodiche e anche alcuni campionamenti/loop per aumentare la complessità sonora. Dopo una breve intro cacofonica, l'album apre con "Alban B. Clay the Artistè", un brano talmente ricco di arrangiamenti e suoni che diventa una festa per le nostre orecchie. Provate ad immaginare gli Arctic Monkeys al quadrato, il tutto miscelato alla perfezione, senza mai una sbavatura o un calo di tono. Per tutto il brano non troverete uno strumento solista, ma un'unica sinfonia che veleggia in maniera suadente; "Kill Thrill 2.0" è una canzone totalmente diversa, breve e ritmata, la voce femminile diventa la protagonista e gli strumenti si divertono esibendosi in una sorta di fuga. La batteria in particolare da prova delle sue velleità tecniche, sfoderando una ritmica complessa e rullate velocissime. Un pezzo coraggioso è "Hitler in a Box" che dopo un breve campionamento di un qualche vaneggiamento del Führer, si lancia in una corsa scavezzacollo con il basso e la batteria. Questi creano una ritmica che si impossesserà delle vostra membra e vi troverete a muovervi a scatti, in preda alle convulsioni con tanto di schiuma alla bocca. Ogni singola nota vibra di energia e ogni volta che ascolterete questa brano, vi accorgerete di una linea melodica o un arrangiamento che vi era sfuggito precedentemente. Se continuate l'ascolto di questo cd, soffermatevi su "The Celebrity Snuff Tape pt. 1", un brano che vi riporterà indietro di qualche hanno, quando i Radiohead producevano album come 'Pablo Honey' e in seguito 'Ok Computer'. Per carità, gli arrangiamenti diversi, ma i TS5 hanno studiato bene la lezione e hanno saputo fare tesoro di una struttura compositiva vincente. Concludo confermando quanto detto prima: la band danese è degna di nota, si meritano ampiamente il successo che stanno avendo e non ho difficoltà a pensare che la loro strada sia ancora lunga e piena di successi. Con loro l'idea classica di concerto è forse pronta al cambiamento a diventare un po' più rappresentazione teatrale, per dare così vita ad uno spettacolo che coinvolga appunto altre forme d'arte. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 85

La scena alternativa mondiale offre chicche da ogni parte del mondo, forte del suo volubile e versatile senso di esplorazione, espone band come questa, che pur essendo autoprodottasi nel 2014, è stata in grado di partorire un disco dalle splendide potenzialità di riuscita. Il sound della band danese, al suo primo album, è asciutto, fantasioso, nervoso, con un'indole selvaggia trattenuta da una verve che lo imbriglia piacevolmente in ambito pop e si intrufola tra i solchi degli Arcade Fire e i mitici Minus the Bear. Il gusto psichedelico e sperimentale della band emerge soprattutto in alcuni brani lampo fatti di pochi secondi, piccole schegge impazzite di forte urgenza creativa. L'intero lavoro è suonato con forte gusto alternative rock/math pop che richiama il metodo canzone classico degli storici The Housemartins, ed è influenzato dal punk alternativo degli Sparta e a tratti anche dal particolare mix sonoro dei rimpianti At the Drive In. Tra queste tracce si elevano le doti del bravissimo vocalist propense a rievocare il miglior Cedric Bixler Zavala, immaginato in contemplazione ai migliori Band of Horses, per poi proseguire a suon di ritmiche sbilenche, di scuola indie, a metà strada tra Sleater Kinney e The Strokes, cadenze romantiche decadenti glam care al buon Marc Almond e canto ecclesiastico stile Dave Gahan nei Soulsavers. "Hitler in the Box" alza il tiro e per la band è un vero e proprio inno assieme a "Light Bulbs", "Fish pt. 2–3" esalta la composizione in chiave neo progressive e li avvicina agli Echolyn in modo eccelso, mostrando le qualità e le virtù del combo danese, mettendo di fronte all'ascoltatore un'opera di ampio respiro e fresca, degna di nota e di composizione musicale superiore. Uno spettacolo interessante e variegato che farà piacere ai cultori del progressive rock come agli estimatori del rock alternativo senza colore ne parte. Liberi di creare senza vincoli, poiché questa è la sensazione netta che da tempo contraddistingue le band di classe dai surrogati proposti dalle major... e The Slaughterhouse 5 ne è la conferma in positivo! Meglio indipendenti, vitali e geniali. Ottimo esordio! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 90 

Valerian Swing - Aurora

#PER CHI AMA: Math/Post, Between the Buried and Me, Irepress 
Dopo suoni catartici, funerei e catacombali, è giusto concedermi la pausa purificatrice che mi consenta di riprendere fiato per poi rituffarmi nei meandri dell'oscurità. Cosa di meglio quindi della follia delirante degli emiliani Valerian Swing, che snocciolano lungo le otto tracce di 'Aurora', la loro passione per suoni decisamente poco scontati. Il viaggio in cui il terzetto ci conduce, ci consentirà di toccare con mano, l'eclettica visione sperimentale di tre ragazzi di provincia che possono realmente raggiungere vette indefinite di successo, se solo una buona dose di culo saprà assisterli, ma credo che i concerti a supporto di Russian Circles, Boris e This Town Needs Guns, possano valere come ottimo biglietto da visita per i nostri. A tutto questo aggiungete una musicalità pazzesca, che partendo da "3 Juno" arriva a "Calar Alto", e attraverso un'inebriante girandola emotiva, vi catturerà fin dalla prima nota scoccata da questi tre fantastici musicisti che hanno fatto un'ottima pensata, coniugare nelle loro note, il sound di alcuni delle migliori bands in circolazione, per cui cito a random: Irepress, Devin Townsend, Between the Buried and Me, Russian Circles, Dillinger Escape Plan e *Shels, ma sicuramente nel corso dell'ascolto dell'album me ne verranno in mente altre. Si insomma mica gli ultimi arrivati e nemmeno troppo semplici da emulare. Il disco dicevo, parte da "3 Juno", un pezzo che si rifà proprio ai mostri sacri di Chicago, RC, con la differenza che in background si riesce a sentire una voce, mentre la musica abbastanza ruffiana (non nel senso negativo del termine, anzi), si muove tra un scintillante math e un arioso post rock. Il viaggio interstellare ci spinge a "Cancer Minor", in cui sono le melodie di fondo a catalizzare ogni vostra molecola sul sound dei Valerian Swing, che si srotola, attorciglia, sgretola e ricompone, tutto nell'arco di una manciata di minuti ipnotici, orchestrali, fotonici (come quella tromba che esplode a fine brano). Wow, it sounds very cool! Con "Scilla", i nostri mi richiamano più da vicino gli Irepress con un sound che si mostra coriaceo quanto sperimentale, introspettivo e disturbante (per quel suo break noisy); sempre più semplice no? Okay proseguiamo, cosi magari i nostri potranno stupirci ancor di più con effetti speciali e colori ultravivaci... Esattamente "Cariddi" è quello che ci voleva. Con questa song sprofondiamo in uno dei miliardi di inferni che popolano il nostro universo: un brano in slow motion, spaventoso e urticante, quanto il liquido delle cubomeduse australiane. Rimango inebetito da questa inusuale veste musicale dei Valerian Swing, che pomposamente va via via ispessendosi tra il suono improbabile di strumenti a fiato. Valli a capire tu questi, che con "In Vacuum" cambiano il loro umore circa un centinaio di volte grazie a un brano le cui parti potrebbero costituire la colonna sonora di un videogame di macchine impazzite, ma anche una qualche pubblicità televisiva o chissà quali altre mille cose. "Spazio"... al delirio. La sesta traccia continua a prendersi gioco dei fan, offrendo nuovamente il mutevole carattere della band italica, come se il trio di Correggio fosse affetto da un ciclo mestruale costante. Follia pura, gran gusto per tutte quelle trovate strumentali e visionarie che costellano 'Aurora', coraggio per metterle in campo e eccezionale bravura nell'applicarle. Schizofrenia, quella che si respira nelle note di "Parsec", più che una canzone, un tracciato di un elettrocardiogramma di un paziente che soffre di pesanti aritmie cardiache: un po' bradicardico, e un po' tachicardico, il sound si sviluppa tra rallentamenti e progressioni cinetiche allucinanti, che ci conducono alla conclusiva "Calar Alto", la song più lunga del lotto che, nei suoi quasi otto minuti, conciglia cinematicamente tutto l'implosivo repertorio dei Valerian Swing. La fortuna aiuta gli audaci, i Valerian Swing lo sono parecchio, quindi mi aspetto grandi cose per il loro futuro... (Francesco Scarci)

(Cavity Records/To Lose La Track/Subsuburban/Small Pond - 2014)
Voto: 90

venerdì 12 dicembre 2014

Aeurtum - The Depths of Which These Roots Do Bind

#PER CHI AMA: Death/Doom, Saturnus
Birmingham da sempre è indicata come essere una delle città di riferimento della scena hard rock, al pari di Liverpool. Se quest'ultima è famosa per aver dato i natali ai Beatles o più recentemente a Carcass e Anathema, Brum non può esserlo da meno, visto che Led Zeppelin, Black Sabbath, Judas Priest e Napalm Death (mica poco) nascono qui, giusto per citarne qualcuno. Oggi tra la folta schiera di band che fioriscono nel West Midlan, annoveriamo anche gli Aeurtum, che con 'The Depths of Which These Roots Do Bind' giungono a distanza di due anni da 'The Fall', al traguardo del secondo disco. La band non è altro che il solo progetto di tal Jonathan Collins, factotum musicale, qui coadiuvato da alcuni ospiti, tra cui, immagino anche la sorella, Alice Collins, che presta i suoi soavi vocalizzi nell'eterea e ingannevole opening track. Ingannevole per la leggerezza e sensualità che la contraddistingue, e che verrà spezzata dall'oscurantismo sonoro di "Antithesis", la song che traccia il percorso musicale che gli Aeurtum intendono tracciare, un death doom dalle cupe linee progressive. Virtualmente influenzato dagli esordi del trittico Anathema, My Dying Bride e Paradise Lost e dagli ormai immancabili Saturnus, Jon esibisce tutto il suo armamentario sonoro alla ricerca di uno stile che sia in grado in primis di catturare l'emotività dell'ascoltatore e direi che le chitarre solistiche riescono in pieno in questo proposito. In secondo luogo, credo che il mastermind britannico voglia buttar fuori, attraverso la propria musica, quel nichilistico senso di perdita che ne avvinghia l'animo inquieto. Il risultato non è certo dei più facili da assimilare, anzi talvolta risulta ostico da digerire, segno comunque di una ricerca sonora quanto mai scontata. Citavamo i gods del passato dai quali Jon prende spunto, e da qui si allontana cercando di inseguire e definire un proprio personalissimo sound che trova sfogo nei malinconici fraseggi di "Within the Ashes of the Deadwood" (ove di nuovo Alice presta la sua voce, cosi come pure nella title track) che apre con un classico riffing doom che si rifà proprio ai già citati Black Sabbath, mentre i vocalizzi del frontman si muovono tra il growling viscerale (un must per il genere) e qualche urlo demoniaco, che sinceramente avrei omesso. La ritmica è abbastanza andante, ma tenete presente che si muove più verso il fondo (dell'anima?) che in estensione, anche se "Shade of a Behemoth" gode di una certa dinamicità che non ne guasta affatto la riuscita; tra l'altro fa capolino in questa song anche un cantato in sussurrato. Lontano dagli estremismi funeral, 'The Depths of Which These Roots Do Bind' è un lavoro che offre una valida alternativa alle cavernose band provenienti dall'est Europa, un disco che va ascoltato e ascoltato più volte, per poter solo lontanamente carpire il poliedrico e intimistico mood di Mr. Collins, che trova modo di sfogare la propria rabbia nella selvaggia "…of Ebony Branches & Bone" per poi rabbonirsi (relativamente) nella successiva title track, in cui sembra vedersi un pizzico di luce in più negli occhi del bravo Jonathan, sensazione confermata anche dall'ascolto dell'ultima lunghissima e quasi spensierata, "Frozen into the Grain" (alla fine la mia preferita), che degnamente conclude un disco che apprezzerete di sicuro solo dopo alcuni svariati passaggi nel vostro lettore. Per molti ma non per tutti. (Francesco Scarci)

(Insidious Voices - 2014)
Voto: 75

giovedì 11 dicembre 2014

Polaroids - I Still Have Dreams/In My Past Life


#PER CHI AMA: Hardcore, Ska Punk, Emo
Basta ascoltare "Fort Knight", 1’:39’’ di furioso hardcore punk melodico, per capire da dove arriva il nome della band: quelle dei Polaroids, infatti, sono istantanee di vita quotidiana, che riescono a catturare sguardi, espressioni, colori ed emozioni in modo estremamente diretto e sincero. Il loro primo album 'I Still Have Dreams' si compone di 10 brani veloci, potenti ed emozionanti. Lo stile oscilla di continuo tra l’hardcore e lo skate punk melodico, che spesso vanno a braccetto nei pezzi più “lunghi” (solo 3 su dieci superano i tre minuti, e altri 3 non arrivano a completare il secondo giro di lancette), sposando vocals strozzate in stile quasi screamo ad altre invece più pulite e ariose (come nell’ottima "Red Herring"). Quando poi schiacciano forte sul pedale dell’intensità emotiva, complici testi densi e tormentati, riescono a cambiare marcia e allora è davvero difficile rimanere indifferenti di fronte a "Soul Mates", la sofferta "Immigrant Song pt.II", "Blue Period" o "Rearview". C’è anche spazio per la splendida strumentale "Somnia", che chiude come meglio non si potrebbe un disco intenso. L’Ep 'In My Past Life', uscito all’inizio del 2014, non sposta la questione e regala un’altra decina di minuti (per 4 tracce) di hardcore e struggimenti post-adolescenziali da cameretta. Questi ragazzi del New Jersey suonano con una passione che traspare da ogni piccolo particolare, a partire dall’artwork dei loro CD-r, realizzati come se fossero delle vere e proprie fotografie Polaroid e riccamente corredati di testi e informazioni, il tutto in perfetto stile DIY. La cura del dettaglio è poi evidente anche nella loro musica, registrata benissimo, e nella varietà della strumentazione usata, che arricchisce il suono in densità e profondità, un suono che si stratifica sovrapponendo chitarre elettriche e acustiche, percussioni, pianoforti, perfino un contrabbasso. Impossibile non guardare benevolmente a realtà come queste, dove l’amore per la musica è talmente evidente da risultare commovente. Impossibile non volergli bene. (Mauro Catena)

(Self - 2013/2014)
Voto: 70

mercoledì 10 dicembre 2014

Endname - Demetra

#PER CHI AMA: Post-metal, Doom, Ambient
Un disco concettualmente diviso a metà: due lunghe tracce da una parte, due dall’altra, come suonate da band differenti (sono quattro tracce, ma è un full-lenght vero e proprio: l’intero lavoro dura quasi 45 minuti). I russi Endname sono in grado di mescolare ingredienti estremamente diversi in un unico flow strumentale che, strano ma vero, fila via dritto come un missile. 'Demetra' si apre con “Duplication of the World”: pesante e ossessiva, delirante nei tempi dispari, carica di intensità doom. A seguire “Union”: la traccia più complessa, dove distorsioni e ritmiche si inseguono per quasi 12 minuti di oscurità e groove, tra crescendo e calando di pulsazioni metalliche e sonorità nerissime. Ce ne sarebbe abbastanza per fare un EP, catalogabile banalmente come post-metal strumentale. Ma gli Endname osano di più e si avventurano in territori completamente diversi. La seconda parte del lavoro si apre con una lunghissima (17 minuti) suite ambient, “Forest”. Emerge il lato riflessivo e inquieto del terzetto di Mosca: campioni elettronici, suoni sottili, lunghi respiri del vento. La foresta è buia e avvolta nella nebbia, siamo soli nell’oscurità e qualcosa di terrificante sta per accadere. È “DOTW RX”: come un mostro che emerge dalla notte, gli 8 minuti della traccia di chiusura sono sconvolgenti e folli: dissonanze, lunghe cavalcate noise, disturbi elettronici. Pazzia pura, come nelle malate dimensioni alternative pensate da H.P. Lovecraft: si perde il senso del ritmo con la batteria completamente sfalsata, che accelera e rallenta ignorando il percorso degli altri strumenti per esplodere in un finale rumoroso e disturbante. Pur penalizzato qua e là da una produzione non sempre all’altezza della situazione, questo 'Demetra' è proprio un bel lavoro: rompe le regole del post-metal proponendo un ascolto complesso, difficile, denso di dettagli, stili, riferimenti. Un disco per pochi. (Stefano Torregrossa)

(Slow Burn Records - 2014)
Voto: 75

domenica 7 dicembre 2014

Gilgamesh - The Awakening

#PER CHI AMA: Black/Death, Behemoth, Melechesh
L'epopea babilonese di Gilgamesh, che narra le gesta di un antichissimo e leggendario re sumerico, appunto Gilgamesh, alle prese con il problema che da sempre assilla l'umanità, la morte e il segreto dell'immortalità, mi ha sempre affascinato per quelle sue affinità con i testi biblici (diluvio universale, la pianta della vita e il serpente). Cosi dopo Melechesh e Absu, possiamo dare il benvenuto ai bavaresi Gilgamesh, che contribuiranno ad arricchire la nostra conoscenza in fatto di civiltà mesopotamiche. Se poi accanto all'aspetto prettamente culturale ci piazziamo anche quello musicale, corredato da un sound black death all'insegna dell'occultismo, statene sicuri, che questo potrebbe essere l'album che fa per voi. 'The Awakening' si apre col cielo oscurato da "Eclipse", una breve intro che mi riconduce con la mente a fantasticare su popoli e terre lontane. Mi ritrovo pertanto tra i palazzi di quella misteriosa civiltà di cui si sa che amasse profondamente la musica e io con loro. E cosi i nostri eroi finiscono per sfoderare una prova da paura, giocando ad annichilire gli ascoltatori con un attacco frontale fatto di muri di chitarre imperturbabili che macinano riff schiacciasassi su cui spicca l'ottima prova del drummer e della porzione d'asce che in "Astaroth", sciorina riff taglienti come la lama più affilata, dibattendosi con i blast beat ossessivi di Matthias Wedler, su chi possa primeggiare come migliore performance sonora. Vi dirò che è un pari merito: pesante, elaborata e serrata la batteria, frastagliate, chirurgiche ma assai melodiche, le chitarre. Aperta da un arpeggio dal sapore orientale, "Slaying in the Name of Ishtar" divampa col suo sound incendiario, che si muove tra il death bombastico, corredato da profondi vocalizzi growl che si alternano con clean vocals e arabeschi che arricchiscono la proposta del quartetto di Monaco. Mi piacciono parecchio questi Gilgamesh, mi inducono a riprendere in mano la lettura della mitologia mesopotamica. "The Astronomer" è un altro pezzo che merita menzione a se stante: rifferama melo death, porzioni corali e assoli da urlo, con le liriche che si affacciano su un mondo fatto di antichi e oscuri cerimoniali e il misticismo del culto delle divinità. Con "Aeons of Hate", il ritmo è leggermente più cadenzato, i mid-tempo si inframmezzano infatti al ripetuto e impazzito martellare sulle pelli, in un ritmo che va intensificandosi con chitarre perennemente in tremolo picking. La song però non emerge come le altre, fatto salvo per le scudisciate alle 6-corde del duo formato da Schorsch H. e Emanuel Daniele, quest'ultimo anche vocalist. "Evocating Enlil" parte in sordina, quasi in punta di piedi, come se si trattasse di un outro e cosi si comporta fino e oltre metà brano, in cui rinvigorisce in termini di energia e devastazione, mantenendo una certa epicità vocale. Con i quattordici minuti finali di "The Curse of Akkade" e il suo suono marziale accompagnato da una linea di chitarra magistrale, i nostri ci mostrano la loro veste più thrash oriented, con cavalcate che si muovono tra i primi Testament, miscelati con la ferocia dei Behemoth e i suoni orientali stile Orphaned Land, per un risultato che rappresenta la summa di un album, 'The Awakening", assolutamente da far vostro. Tecnicamente mostruosi, accattivanti da un profilo visuale, i Gilgamesh sono la new sensation che arriva da lontano, anzi no, da molto molto vicino. (Francesco Scarci)

sabato 6 dicembre 2014

Oltrevenere - S/t

#PER CHI AMA: Rock, Teatro degli Orrori
Gli Oltrevenere sono stati una bella scoperta quando ho avuto la possibilità di calcare lo stesso palco durante un contest che hanno poi vinto. Il quartetto vicentino nasce nel 2009 e si rivela al grande pubblico nel 2014 con l'album in questione e tutta una serie di live per presentarlo. La loro musica è un mix di rock e cantautorato con chiari riferimenti ai Teatro degli Orrori, vecchi Litfiba e influenze prog della gloriosa scena italiana che fu qualche anno fa. I testi sono intensi e gli arrangiamenti graffianti, il tutto condito da suoni moderni ma non troppo. Si aggiunga anche un po' di sana elettronica come nel brano "L'Albero delle Mele", un mix di electro-industrial con un filo di pianoforte e voce, e i giochi sono fatti. Forse un esercizio stilistico o semplicemente la band ha voluto levarsi uno sfizio, anche perché la traccia poteva essere sviluppata maggiormente e diventare un brano con molto personalità. Passando agli altri brani, ci si imbatte ne "Il Sesto Giorno", la canzone con maggior tiro dell'intero album, potente e dalla ritmica che prende da subito l'ascoltatore. I riff sono in puro stile hard rock e il basso spara cannonate che ingrossano il sound del brano per tutti i quattro minuti di durata. L'assolo finale trasmette rabbia e nervosismo che vengono mitigati subito da un breve break di chitarra acustica che permette di tirare il fiato e arrivare alla fine della traccia. Poi arriva "Colt-Love" che apre con il basso che resta il protagonista indiscusso per gran parte della canzone caratterizzata da un'impronta più oscura e introspettiva, ma sempre con una possibilità di riscatto. Infatti gli Oltrevenere giocano molto bene sui cambi di ritmica e di riff, regalando tracce con molte sfaccettature che mettono in risalto anche le loro doti tecniche. I testi riescono a parafrasare tematiche comuni in maniera mai superficiale ed il vocalist interpreta i brani in maniera profonda, quasi teatrale, ecco perchè parlavo di somiglianza con Il Teatro degli Orrori. "Senza Fili" ricorda invece quelle atmosfere del rock italiano quando i Timoria e i vecchi Litfiba, ci regalavano delle gran chicche. Su quest'onda nostalgica, gli Oltrevenere elaborano a loro piacimento un brano ben fatto con qualche arrangiamento che odora di citazione alla storia del rock, il tutto discretamente amalgamato. Verso la fine i riff s'incattiviscono e ciò ci fa un po' rammaricare perché forse avremmo voluto tale energia sin dall'inizio. Resta il fatto che la band è tecnicamente preparata, ha cercato di crearsi una propria identità e questo album ne è la prova. Molto può ancora essere fatto e ora che sono usciti allo scoperto, dovranno dimostrare di che pasta sono realmente fatti. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 70