Cerca nel blog

venerdì 3 ottobre 2014

Wreck and Reference – Want

#PER CHI AMA: Experimental/Drone/Post Rock
È da un po' che tengo sott'occhio questa band statunitense, ma vuoi per un motivo, vuoi per un altro (l'aver pubblicato la precedente release solo in vinile ad esempio), non sono mai riuscito ad affezionarmene. L'uscita del nuovo 'Want' e la sua recensione mi danno finalmente motivo di avvicinarmi ai Wreck and Reference. La band si propone con una propria personale chiave di lettura del post black, come già fatto da altri ensemble del rooster Flenser Records, da sempre esempio di sperimentalismo sonoro. I WaR non sono da meno e ci offrono il loro lugubre sound: nessun assalto di stile cascadiano, nessun accenno folk, ma “solo” un tragico slow-mid tempo funereo, ricco di preziosi inserti dark e pompose melodie d'organo, con le vocals che si dipanano tra uno screaming disperato e uno pulito/sussurrato. “Stranger, Fill this Hole in Me” è una stravagante song in cui si unisce l'anima dannata dei nostri con inserti industrial/noise. L'ascolto della musica dei WaR non è quasi mai facile e la delicata (almeno musicalmente) “Bankrupt” ne è un esempio. Se non ci fossero le abrasive vocals del cantante, potremo parlare di sperimentalismi a la Radiohead ai tempi di 'Amnesiac' in un inedito connubio con i Massive Attack di 'Mezzanine'. Le atmosfere tenebrose di “A Glass Cage for an Animal” sembrano far pensare ai Fields of the Nephilim in una versione più catartica. Ma l'elemento caratterizzante la musica dei WaR e forse anche la componente che dona un certo estremismo sonoro alla band americana, è proprio quel demoniaco dualismo vocale che domina nelle song e che rende il sound dei WaR difficilmente etichettabile ma comunque di grande fascino. (Francesco Scarci)

(Flenser Records - 2014)
Voto: 70

Grace Disgraced - Enthrallment Traced

#PER CHI AMA: Technical death metal, primi Death, Carcass, Morbid Angel
Dalla Russia con furore: i Grace Disgraced sono un potente quartetto di Mosca, che hanno debuttato con questo densissimo full-lenght 'Enthrallment Traced'. L’album è una sorta di concentrato del meglio del thrash-death anni ’90 (Death, Carcass, Morbid Angel), arricchito da una spaventosa attenzione alle ritmiche e alla tecnica. Niente è lasciato al caso, nessuna scelta è banale: i tempi cambiano spessissimo, i riff si inseguono in continuazione tra cambi repentini e accelerazioni, il tutto condito da tempi dispari, sfuriate di doppia cassa e la rinuncia quasi totale alla forma canzone tradizionale (strofa-ritornello-strofa-assolo e così via: ascoltate la opening “Prophecy Of Somnambulist”). E non parliamo di veloci pillole hardcore: la maggior parte dei brani supera i 6 minuti, e la finale “Orchids Of The Fallen Empire” sfiora addirittura gli 8 minuti di lunghezza. Una vera sfida, per un genere abituato a pezzi ben più sintetici. Il primo applauso va senz’altro al granitico Andrew Ischenko alle pelli: in certi passaggi mi ha ricordato il Paul Bostaph dei tempi d’oro, per la capacità di colorare in maniera sempre diversa ogni rullata e per l’ottima gestione di tempi sincopati, stop-and-go ritmici e spietati blast-beat. Ascoltate “To Autumn” o “Adzhimushkai”, con le improvvise accelerazioni, le pause e le cavalcate ossessive di doppia cassa. Il secondo applauso è invece per le capacità vocali della cantante: Polina Berezko, bionda e apparentemente innocua, gorgoglia e ringhia per tutta la durata del disco. È un cantato perfettamente allineato con i canoni del genere e più che sbalorditivo per una ragazza ma, personalmente, il suo ruggito piatto e invariabile alla lunga stona con l’enorme varietà musicale e ritmica proposta dal resto della band. 'Enthrallment Traced' è comunque un disco d’esordio di cui essere fieri: produzione, testi, artwork, arrangiamenti e tecnica musicale sono di altissimo livello. È perfetto per i nostalgici del thrash-death e per gli amanti del metal tecnico e brutale degli anni ’90: ma se cercate originalità, forse questo non è il disco adatto. I Grace Disgraced sono giovani: sarà un piacere scoprire se la loro evoluzione li porterà a soluzioni più personali e innovative. (Stefano Torregrossa)

(More Hate Productions - 2012)
Voto: 65

mercoledì 1 ottobre 2014

I Will Kill You – Extrema Putrefactio

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Cannibal Corpse, Belphegor, Suicide Silence, Anima
La band siciliana degli I Will Kill You si presenta in ottima forma in occasione del full length di debutto (all'attivo un EP) e fin dal primo ascolto si capisce che gli intenti di ispirata perversione sonica sono parecchi. Uscito per la Inverse Records in questo 2014 e dotato di una bella copertina sanguinolenta, 'Extrema Putrefactio' sfodera il suo gusto noir con un'ottima verve da navigato serial killer. L'intero lavoro si regge su un magma sonoro avvincente, figlio dei deliri sonici stile Suicide Silence e Cannibal Corpse per impatto killer e una produzione di taglio death metal molto moderna che evoca i Dying Fetus. Di frequente si abbandona ad incesti black metal ibridi dal sapore molto maligno e lugubre sulla scia degli ultimi Belphegor. L'album è apprezzabilissimo e gode di una vena ispirata che sormonta, esalta e mischia una vena romantica di stampo acustico con innesti rubati a classici lenti strappa lacrime metal con effetto cristallino ("Die") ad una lacerata verve sudicia di marcio thrash/black metal carico di violentissimo macabro carisma. L'intero lavoro si avvale di una buona dose di potenza dal sapore horror, come suggerisce senza inganni il titolo e per anarchica scelta stilistica (anche se in realtà i brani riflettono più aree del metal estremo), ci piace accostarli per attitudine alla band tedesca degli Anima (quelli di 'Enter in a Killzone'). L'impatto è violentissimo e sostenuto da un drumming encomiabile e comunque anche se non tutto risulta originale, sicuramente i brani godono di grossa personalità, con l'intrusione mai scontata di chitarre pulite e persino di un brano guidato da un malinconico piano ancestrale ("Ante Mortem") che ben contrasta con l'aria distruttiva dell'intero box. 'Extrema Putrefactio' è un album fatto con passione e intelligenza, un lavoro che cerca in continuazione di stupire e mettere in sincronia l'arte malata del black metal con l'arte violenta e penetrante del death metal più claustrofobico, difficile da inquadrare ma facile da apprezzare ascolto dopo ascolto; un lavoro decisamente invadente e mai scontato che affascina e non delude affatto. Album da ascoltare a fondo, un gioiellino insanguinato!!! (Bob Stoner)

(Inverse Records - 2014)
Voto: 80

Byzanthian Neckbeard - From The Clutches Of Oblivion

#PER CHI AMA: Doom Stoner metal, Iron Monkey, Electric Wizard, Shape Of Despair
C’è un teschio spiritato e barbuto sulla copertina bianchissima di questo 'From The Clutches Of Oblivion'. E nonostante la pulizia del packaging (digipack in edizione limitata), il debutto dei Byzanthian Neckbeard è sporco, grezzo e oscuro come poche altre cose sentite ultimamente. Il quartetto arriva da una sperduta isola britannica nella Manica, dove praticamente tutti allevano una razza pregiata di bovini. Curioso quindi, che da un luogo così verde, bucolico e tradizionalista arrivino questi quattro giganti barbuti, che suonano con accordature letteralmente sottoterra e parlano di cadaveri, occultismo, fine del mondo e allucinazioni. Lo stile si rifà ai grandi del doom metal / sludge britannico: Electric Wizard, Iron Monkey e in parte Orange Goblin. Riff serratissimi (splendide l’opening “Doppleganger” e l’intera “The Ganch”), arrangiamenti intelligenti che mi hanno ricordato certi Paradise Lost, bpm quasi sempre lenti e ossessivi (“Plant of Doom”) salvo poche, misuratissime sfuriate. La voce ha molto in comune con gli Shape Of Despair: un pesantissimo growl di impronta death, che rende tutto ancora più oscuro. Un lavoro che meriterebbe un voto altissimo, se non fosse per due piccoli difetti. Il primo: pur in alcune scelte stilistiche originali (in certi incastri basso/chitarra, ad esempio, o in alcuni repentini cambi di tempo), il disco non aggiunge nulla di veramente nuovo a quanto non abbiano già detto band più illustri. Il secondo: l’unico strumento davvero equalizzato bene è il basso – bello, rotondo, presentissimo, distorto al punto giusto: ascoltatevi l’intro di “Indoctrinate The Priestess”. Tutto il resto poteva essere reso meglio: le chitarre mancano forse un po’ nelle frequenze più basse nonostante l’accordatura, e la batteria a tratti è addirittura ridicola (ascoltatevi i piatti: poca coda, suoni taglienti, poco adatti ad un genere come questo). C’è da concedere ai Byzanthian Neckbeard il beneficio del debut-album: se la linea resta questa, sono certo che il prossimo disco sarà un capolavoro assoluto. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2014)
Voto: 70

A Flower Kollapse - S/t

#PER CHI AMA: Punk, Math, Hardcore
Macina Dischi e Shove Records si sono accaparrate un'altra interessante band, gli A Flower Kollapse (AFK), un quartetto originario della provincia di Treviso. La band nasce nel 2004 e da allora ha partecipato ad alcune compilation e split, arrivando infine a questo terzo album. Loro stessi dichiarano che suonano un mix di punk, math, hardcore, noise e progressive, a cui io aggiungo una cattiveria e potenza inaudita. Suoni ruvidi, freddi e riff velocissimi, il tutto condito da uno screamo dilaniante, a cui l'ascoltatore può solamente soccombere oppure trarne beneficio. Nove tracce per un totale inferiore alla mezz'ora, ma sufficiente per farvi capire quali pensieri contorti possano insediarsi dentro la mente di un musicista alla ricerca della propria espressione. Il tutto è contenuto in un semplice digipack di carta riciclata senza nessun colore e i testi sono scritti in modo da essere illeggibili a causa di un errore in fase di stampa. Delirante e geniale allo stesso tempo. "All Nature is my Nature" è tutto e niente, pura sensazione. A qualcuno potrebbe dare il voltastomaco oppure causare una crisi epilettica, ma se ci si immerge a capofitto nel brano, si riesce a cogliere cosa si celi dietro tanta rabbia. Un urlo in difesa della natura bistrattata (forse, difficile cogliere le parole o leggere i testi), melodia strumentale sapientemente nascosta dietro riff apparentemente inesistenti e poi velocità, tanta velocità. Chitarre al limite dell' autocombustione e sezione ritmica pulita ed ossessiva, il tutto miscelato a modo con suoni altrettanto azzeccati. "Mud" inizia con degli scricchiolii che accapponano la pelle quanto le unghie su una lavagna e poi li subentra la devastazione. Chitarre che fanno sempre da padrone con riff ipnotici che si alternano tra sequenze meno roboanti e scatti d'ira strumentali. Malessere esistenziale ed ansia vengono trasmessi dalla dita ai strumenti, come una pesante e scomoda eredità da padre in figlio. Le corde e le pelli dei tamburi vengono scarnificati ad ogni nota o battuta, il sudore si mescola alle lacrime ed ogni traccia vi lascerà sfiniti e ansimanti. Grazie al cielo durano poco, altrimenti rischiereste un attacco apoplettico Decisamente un album che non può lasciarvi indifferenti, o lo amerete o vorrete disfarvene al più presto. Il rischio che venga inserito incautamente nello stereo da un vostro familiare e che poi dobbiate dare delle spiegazioni, è abbastanza alto. Desumo che gli AFK diano il meglio di se in live, quindi inizia la mia ricerca del loro prossimo concerto. (Michele Montanari)

(Macina Dischi/Shove Records - 2012)
Voto: 70

The Pit Tips

Don Anelli

Puteraeon - The Crawling Chaos
Space Eater - Passing Through the Fire to Molech
Death - Spiritual Healing remastered
---

Francesco "Franz" Scarci

Eternium - Repelling a Solar Giant
Azure Emote - The Gravity of Impermanence
Seasons - Lotus
---

Kent

Carcharodon - Roachstomper
The Goddamn Gallows - 7 Devils
Modest Musorgkj - Pictures At An Exhibition
---

Stefano Torregrossa

Fu Manchu - Gigantoid
The Glasspack - Powderkeg
Killer Be Killed - Killer Be Killed
---

Michele "Mik" Montanari

Thom Yorke - Tomorrow's Modern Boxes
Luna Vulgaris - Singles
Bachi da pietra - Quintale
---

Alessio Skogen Algiz

Mayhemic Truth - 96 (demo tape 1996)
Nattvindens grat - Dar svanar flyger (demo tape 1995)
Sorg - Mina Drommars Dal (demo tape 1995)
---

Mauro Catena

J Mascis - Tide to a star
Earth - Primitive and Deadly
Thee Silver Mt. Zion Memorial Orchestra - Fuck Off Get Free...

domenica 28 settembre 2014

Desert Lord – To The Unknown

#PER CHI AMA: Stoner Doom
Quante volte vi è capitato nella vita, di venire solleticati dall’idea del “dream team”, come concetto? Una squadra composta dai migliori giocatori di un determinato sport, una band che annoverasse tra le sua fila i milgiori musicisti di un particolare genere, un vero e proprio sogno, quindi. E quante volte vi è capitato, quelle poche volte che il sogno pareva come per miracolo materializzarsi, di rimanere realmente soddisfatti del risultato finale? A me, personalmente, pochine. Troppo alte le aspettative, o semplicemente troppo aderenti ad uno schema, anche elementare, ma evidentemente difficile da replicare nella realtà (lancio di prima all’ala, dribbling secco, cross perfetto, rovesciata, gol; oppure un pezzo con riff memorabile, strofa, inciso, un paio di assoli da brividi). Quante volte ho avuto tra le mani dischi sulla carta stratosferici, rivelatisi poi schifezze immonde o, ancora peggio, del tutto anonimi. Ecco, a me questo 'To the Unknown' dei finlandesi Desert Lord ha fatto l’effetto della realizzazione, perfettamente compiuta, di quello che avrei voulto ascoltare, a tredici anni, in un disco di una “dream team band”:
- nessun (ma proprio nessuno) elemento di novità o sperimentazione (anche se le cronache lo datano 2014, 'To the Unknown' potrebbe essere uscito in qualsiasi momento degli ultimi trent’anni);
- un amore viscerale per i Black Sabbath;
- l’incapacità di far durare un pezzo meno di 5 minuti, ma anzi la tendenza a sforare i 9;
- la capacità di sfoderare riff memorabili, forse un tantino già sentiti, ma comunque memorabili;
- la perfetta alternanza di riff, strofe, incisi, assoli di chitarra, strofe, assoli di basso, incisi, assoli di chitarra, arpeggi acustici, esattamente quando e come ce li aspetteremmo;
- il tutto suonato a volumi criminali, con quel suono di chitarra che riescono ad ottenere solo in Scandinavia, registrato in modo grezzo e sporco ma nemmeno troppo.
Per quanto sconosciuti, i Desert Lord sono un gran chitarrista, un gran bassista, un batterista pestone e un cantante a cui evidentemente piace il death metal. Questo loro secondo album racchiude in sole 6 tracce e circa 50 minuti, il sogno di un ragazzino, ovvero tanto hard fracassone (non proprio stoner, non ancora doom, non del tutto metal), oscuro, marcio, eccitante. Scusate se è poco. Per me è tantissimo. Pezzi migliori? Piú o meno tutti. Se devo fare nomi dico "New Dimensions", che suona come un nastro di 'Heaven and Hell' lasciato troppo tempo al sole, sul cruscotto di una Ford Sierra. Nera. (Mauro Catena)

giovedì 25 settembre 2014

Seasons - Patriarch

#PER CHI AMA: Death Progressive/Djent/Metalcore, Opeth, Tesseract 
Il Pozzo lo seguono anche dalla Nuova Zelanda. Ecco quindi arrivarmi da Auckland il notevole cd dei Seasons, quartetto che si muove sulle coordinate stilistiche del djent/metalcore progressivo. Non vorrei però che queste mie etichette avessero una qualche valenza limitante per l'egregio lavoro fatto dai nostri. 'Patriarch' è un album di nove pezzi che dura la bellezza di 60 minuti. Un'ora che scorre via veloce come il vento, nonostante un genere come questo necessiti solo di una trentina di minuti per esplicare il suo effetto. 'Patriarch' no, richiede più tempo per essere assimilato, percepito, letto e gustato. Un po' come quando sorseggiate un ottimo rum invecchiato o un whiskey, 'Patriarch' lascia il suo forte retrogusto. L'intro ci inebria immediatamente con quel suo piacevole fare melodico ma deciso. Quando attacca "Eutopia" ho il timore che la song possa annoiarmi nel suo evolvere burrascoso. Nulla di più sbagliato: il brano esordisce con fare gagliardo e violento per poi imboccare una strada oscura, quasi drammatica, che prende le distanze da quel metalcore paventato all'inizio della recensione. Ci riprovano i nostri a spararci in faccia il loro armamentario metallico con "Nimbus"; all'inizio della traccia la band sembra anche riuscirci, ma poi ecco nuovamente che i nostri si avviano alla loro personale reinterpretazione del genere, cambiando mille volte il tempo, offuscando addirittura la mia mente con passaggi più plumbei, al limite del doom. I riffoni, quelli seri del djent, mica da femminucce, rombano pesanti in "Sunshine", con il bravo vocalist che ringhia a denti stretti il suo growling scorbutico e acido. La song, un po' come tutte, miscela furia metallica con una discreta dose di melodia, facendosi notare per l'elevato quantitativo di groove che si cela nei pezzi, che trovano addirittura il tempo di piccole divagazioni industrial e sfoggiano qualche tastierina stile primi Tesseract. Fenomenali. Per impatto e per perizia tecnica. Un po' meno per originalità, ma poco importa. Con "Odysseus" ci addentriamo ancor maggiormente nel sound intimista dei Seasons: un death metal illuminato, a tratti sperimentale, che saprà accendere l'anima inquieta che è celata dentro di voi. Non solo: estesi sprazzi post metal in un break di "tooliana" memoria che lascia vagare ampiamente la mente e inebria non poco i miei sensi. "Atlantis Rising" è un pezzo strumentale che ammicca ancora ai Tesseract più potenti e fantasiosi, con quelle belle chitarre polifoniche come i mostruosi Meshuggah insegnano ai propri adepti da più di vent'anni. Se avete per un attimo avuto il timore che i nostri avessero calato il tiro, niente paura, ci pensa la devastante "Lotus" a ripristinare il tutto con la sua verve, la pesantezza delle sue chitarre e l'eclettismo sonoro del suo drummer. L'eco dei maestri svedesi è forte più che mai, ma non stiamo certamente parlando di plagio, bensì di una rivisitazione alquanto interessante, che propone nuove soluzioni al tema, grazie all'inserto mai massivo di tastiere. Dopo 48 minuti di botte, sento che posso andare avanti e sfidare il limite dell'ora, dove molte volte la tensione tende a calare. I nostri non cadono nel tranello e anzi trovano il modo con "Flourish", prima di sfondarci il cranio con un ritmo infernale e poi di darci lo zuccherino con i passaggi più mansueti del cd, dove appaiono anche clean vocals e chorus ruffiani davvero azzeccati. Il suono del mare di "Marine Snow" ci accarezza per i cinque minuti finali di questo ottimo lavoro che mette in luce l'ottima prova canora del frontman in chiave pulita, un po' a rendere omaggio a Mikael Åkerfeldt degli Opeth, anche per quello che è l'aspetto musicale. Che altro dire di un album che ho incensato in lungo e largo, se non auspicare un vostro ascolto accurato. (Francesco Scarci) 

(Self - 2014) 
Voto: 80 

Burzum - The Ways of Yore

#PER CHI AMA: Ambient
Burzum, 'The Ways of Yore'. Tremate. Abbandonate definitivamente le tendenze black metal, cosi come pure le velleità di commettere atti terroristici, il Conte torna dandoci in pasto al suo concentrato ambient. Assecondate i suoni accattivanti, vibrati, accostati a nuvole di fumo psichedelico ed ascoltate. "God from the Machine". "The Portal". Dimensioni oniriche, prismi dai cangianti velati, ostacoli duttili, ripetizioni reiterate per alienazioni lugubri, in cui la chitarra sfregia i pensieri ed il tempo involve in collisioni improbabili. "Ek Feller (I Am Falling)". Ora abbiate paura. Questo brano è sordo, lascivo, sospeso tra un cantato mortuale e pochi cenni strumentali che peggiorano un mood impossibilitato alla felicità. Se la serata vi ha lasciato con l'amaro in bocca, questo ascolto, potrebbe illuminare il vostro inferno. "Hall of the Fallen". Cristalli che si abbattono a terra. Incedere di voce ed elettricità dal pallido sentore musicale. Terrore. Ghiaccio ancora. Ossa spezzate dentro un turbine di sensazioni dall'incedere spettrale, invisibile, minaccioso. Lasciandovi trasportare, credetemi, rischiereste di venire a patti con l'anima. A vostro rischio. "Emptiness". Voluttà ripetute. Tortuosità appianate. Un basso che distoglie dal ritmo soffuso. Soffiate sull'orizzonte, ma sappiate che non se ne andrà il grigiore, malinconico, assente pensiero che questo album evoca con individualità allargate alla coscienza comune. Nel buio di questo metallo, emerge almeno un rincorrersi di suoni estatici e carnali, sino all'epilogo orientaleggiante. "Lady in the Lake". Perché non strofinarsi su pareti di ferro ruvido, lasciando che la pelle sanguini e l'anima segua strade sconosciute? Perché non alimentare la follia, prima che vincerla, lasciando che il tempo e la ragione diventino virtù d'altri? Perché non digrignare i denti e corroborare lo stupore con la piú nichilista tra le benzine alcoliche? Perdizione. Rabbia. Museo degli orrori. Benvenuti nel tripudio del black ambient. "Hell Odin". 3 minuti ed 11 secondi. Pensateci bene se percorrerli. Suoni ripetuti si fondono con la stessa improbabile frase che il titolo del brano rappresenta. Virtuosismi modulati calano il carico presto ed il brano è buono solo per un rave di bassa lega. "The Reckoning of Man". Suoni dalle metamorfosi metalliche. Voce dai toni pretenziosi. Virtù narrative corrugate dal volo raso terra della musica narrante e del testo ipotimico. "The Hel and Back Again". Mi chiedo perché Burzum cerchi di ripulirsi la coscienza con musiche zen. Mi chiedo perché una scia di rumori di fondo imprigioni quella coscienza riportandola nelle segrete della prigionia malsana. Mi chiedo, ma so che in questo album, nulla è come ce lo si aspetta... "Heil Freyia". Danze circolari. Movimenti psichici piú che corporei. Impossibile entrare in questo rituale. C'è un obolo troppo costoso da pagare. Accompagno un velo sugli altri brani. Lascio alla notte ed alle vostre inquietudini la scelta per continuare questo album, che mi ha lasciata sfatta di luce e sottesa al buio. Buon ascolto. Tremate. (Silvia Comencini)

(Byelobog Production - 2014)
Voto: 70