#PER CHI AMA: Death Progressive/Djent/Metalcore, Opeth, Tesseract |
Il Pozzo lo seguono anche dalla Nuova Zelanda. Ecco quindi arrivarmi da Auckland il notevole cd dei Seasons, quartetto che si muove sulle coordinate stilistiche del djent/metalcore progressivo. Non vorrei però che queste mie etichette avessero una qualche valenza limitante per l'egregio lavoro fatto dai nostri. 'Patriarch' è un album di nove pezzi che dura la bellezza di 60 minuti. Un'ora che scorre via veloce come il vento, nonostante un genere come questo necessiti solo di una trentina di minuti per esplicare il suo effetto. 'Patriarch' no, richiede più tempo per essere assimilato, percepito, letto e gustato. Un po' come quando sorseggiate un ottimo rum invecchiato o un whiskey, 'Patriarch' lascia il suo forte retrogusto. L'intro ci inebria immediatamente con quel suo piacevole fare melodico ma deciso. Quando attacca "Eutopia" ho il timore che la song possa annoiarmi nel suo evolvere burrascoso. Nulla di più sbagliato: il brano esordisce con fare gagliardo e violento per poi imboccare una strada oscura, quasi drammatica, che prende le distanze da quel metalcore paventato all'inizio della recensione. Ci riprovano i nostri a spararci in faccia il loro armamentario metallico con "Nimbus"; all'inizio della traccia la band sembra anche riuscirci, ma poi ecco nuovamente che i nostri si avviano alla loro personale reinterpretazione del genere, cambiando mille volte il tempo, offuscando addirittura la mia mente con passaggi più plumbei, al limite del doom. I riffoni, quelli seri del djent, mica da femminucce, rombano pesanti in "Sunshine", con il bravo vocalist che ringhia a denti stretti il suo growling scorbutico e acido. La song, un po' come tutte, miscela furia metallica con una discreta dose di melodia, facendosi notare per l'elevato quantitativo di groove che si cela nei pezzi, che trovano addirittura il tempo di piccole divagazioni industrial e sfoggiano qualche tastierina stile primi Tesseract. Fenomenali. Per impatto e per perizia tecnica. Un po' meno per originalità, ma poco importa. Con "Odysseus" ci addentriamo ancor maggiormente nel sound intimista dei Seasons: un death metal illuminato, a tratti sperimentale, che saprà accendere l'anima inquieta che è celata dentro di voi. Non solo: estesi sprazzi post metal in un break di "tooliana" memoria che lascia vagare ampiamente la mente e inebria non poco i miei sensi. "Atlantis Rising" è un pezzo strumentale che ammicca ancora ai Tesseract più potenti e fantasiosi, con quelle belle chitarre polifoniche come i mostruosi Meshuggah insegnano ai propri adepti da più di vent'anni. Se avete per un attimo avuto il timore che i nostri avessero calato il tiro, niente paura, ci pensa la devastante "Lotus" a ripristinare il tutto con la sua verve, la pesantezza delle sue chitarre e l'eclettismo sonoro del suo drummer. L'eco dei maestri svedesi è forte più che mai, ma non stiamo certamente parlando di plagio, bensì di una rivisitazione alquanto interessante, che propone nuove soluzioni al tema, grazie all'inserto mai massivo di tastiere. Dopo 48 minuti di botte, sento che posso andare avanti e sfidare il limite dell'ora, dove molte volte la tensione tende a calare. I nostri non cadono nel tranello e anzi trovano il modo con "Flourish", prima di sfondarci il cranio con un ritmo infernale e poi di darci lo zuccherino con i passaggi più mansueti del cd, dove appaiono anche clean vocals e chorus ruffiani davvero azzeccati. Il suono del mare di "Marine Snow" ci accarezza per i cinque minuti finali di questo ottimo lavoro che mette in luce l'ottima prova canora del frontman in chiave pulita, un po' a rendere omaggio a Mikael Åkerfeldt degli Opeth, anche per quello che è l'aspetto musicale. Che altro dire di un album che ho incensato in lungo e largo, se non auspicare un vostro ascolto accurato. (Francesco Scarci)
(Self - 2014)
Voto: 80