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sabato 15 febbraio 2014

Ioseb – The Ghost of Thirtythree – Agartha – Remixed; The Ghost of Thirtythree



#PER CHI AMA: Post rock, Alternative, Sigur Ros, Mogwai, Radiohead
Mentre guardo il cielo minaccioso fuori casa mia e mi preparo ad affrontare la famigerata “big snow” prevista da tutti gli esperti meteo, non potrei trovare miglior colonna sonora dell’opera omnia di questo combo svedese, scoperto di recente (benchè il loro debutto sia datato 2009) con il loro secondo album, 'Agartha', e al quale mi sembra doveroso dedicare una piccola, ma spero esaustiva, monografia. È musica evocativa, quella dei quattro di Nyköping. Di coltri bianche che tutto inghiottono, di nebbie solide, cieli candidi e nuvole veloci. È del 2009 il loro primo, sorprendente demo, che viene poi di fatto ripubblicato come 'The Ghost of Thirtythree'. Un disco che, al di là di qualche (poche, per la verità) ingenuità e nonostante un suono non proprio scintillante, mette in fila una decina di composizioni emozionanti, che cambiano ed evolvono solenni come i cieli del nord. Ancora indecisi su cosa diventare da grandi, se i Sigur Ros o i Mogwai, gli Ioseb si destreggiano da par loro tra chitarre stratificate, batterie quasi marziali e pianoforti dilatati, realizzando brani in un delicato crescendo dal respiro quasi sinfonico, sui quali una voce sottile si adagia come la neve appena caduta. I brani sono spesso lunghi, a volte oltre i dieci minuti, ora più rarefatti come la pastorale “C/o Night”, ora più enfatici e “grattuggiati” come “The Sea et Al” con i suoi muri chitarristici eretti all’improvviso. L’impressione è quella di avere tra le mani un diamante grezzo in grado di determinare una sintesi tra i Radiohead ed una via nordica al post-rock. Passano quattro anni perché il seguito, 'Agartha', veda la luce. E l’impressione è che siano stati anni di lavoro duro e consapevole di sottrazione, asciugatura, certosina cura. E così, degli Ioseb del debutto, 'Agartha' finisce per essere quasi un distillato: sei brani, nessuno dei quali supera di molto i 5 minuti, per nemmeno mezz’ora di durata totale. Il suono è ora curatissimo, quasi cristallino, l’inglese è stato abbandonato a favore della lingua madre, i brani sono spogliati di tutti gli orpelli e ogni lungaggine è bandita. Tutto, da “Det Röda Tornet”, strumentale d’apertura, alla coda di “O Swedenborara! O Rosencreutzare!”, riscaldata da chitarre acustiche ed ottoni, appare perfettamente centrato nel posto esatto in cui dovrebbe essere. Le barricate chitarristiche vengono ridotte al minimo e controllate da una ritmica nervosa, come una tensione che corre sottopelle senza mai esplodere, e si toccano vette di poesia quasi commovente nella stupenda “Det Femte Inseglet”, come un notturno di Chopin che si avviluppa in spirali rock sferzate da venti gelidi e bufere di neve, mentre una dolcissima melodia sembra voler indicare la strada verso casa. Se con 'The Ghost of Thirtythree' hanno raccontato l’inverno del grande nord, con 'Agartha' gli Ioseb fanno una cosa molto più difficile: ovvero cristallizzare il momento dell’inizio del disgelo, l’istante esatto in cui dal ghiaccio si forma la prima goccia d’acqua. Sarebbe da archiviare come poco di più di una curiosità 'Remixed; The Ghost of Thirtythree', uscito sul finire dello scorso anno solo in formato digitale, se non fosse che, a fianco a 6 diversi remix di un paio di brani del primo album in versione elettronica più o meno algida e rarefatta, si trova anche l’inedita “It’s Allright”, brano fortemente elettronico e quasi danzereccio. Semplice divertissement o possibile indizio di una direzione futura? Nota post-recensione: la “big snow” alla fine si è rivelata una solenne, piovosa bufala. Non così, per fortuna, la musica degli Ioseb, in grado di imbiancare qualsiasi paesaggio nel tempo di una manciata di giri di lancette. Consigliatissimi. (Mauro Catena)

(The Ghost of Thirtythree: 75 - Ippolit - 2009)
(Agartha: 80 - Ippolit 2013)
(Remixed; The Ghost of Thirtythree: 60 - Digital release - 2013)

http://ioseb.net/

Shallow Rivers - Nihil Euphoria

#PER CHI AMA: Death Doom Melodico, Swallow The Sun,
Altro debutto in casa Solitude Production/BadMoodMan, il disco in questione, opera prima dei russi (un duo, peraltro) Shallow Rivers. Non serve spendere molte parole per dare una bella inquadrata al lavoro: melodic death-doom quadrato, preciso, ben cadenzato, aggressivo… ecco, si aggressivo, e meno male! Non aspettatevi un lavoro rivoluzionario perché, ormai è risaputo, il genere trattato dai Nostri è quasi l’esatto opposto dell’innovazione e della sperimentazione, ma accogliete a braccia aperte un lavoro ispirato e ben prodotto, che merita di stare nelle vostre scaffalature musicali tranquillamente tra Swallow The Sun, Daylight Dies (quelli degli esordi, per lo meno) e una certa scuola scandinava. I due ragazzi si dividono tutta la strumentazione, ma per quanto riguarda chi scrive il miglior strumento musicale dell’intero album è la voce cavernosa del bravo vocalist, un growl catarroso al punto giusto e pesante, ma anche capace di inserti melodici ad hoc (per esempio in “Down the River to Vortex”, pezzo di ottima fattura che fa scivolare la durata non da poco, senza intoppi e punti morti). Per il resto, il lavoro di intreccio delle varie trame è svolto in maniera più che dignitosa, con una solida impalcatura a sorreggere il tutto. Unico appunto personale riguarda l’utilizzo delle tastiere, dove forse la scelta delle sonorità avrebbe meritato un minimo di attenzione in più, giusto per togliere quel lieve alone di “già sentito” e “banale”, e dare all’intero disco un’ulteriore nota di personalità aggiunta. Segnalo anche l’intro e “The Weeping Lotus Dance”, dove un riff azzeccatissimo vi resterà in testa già dal primo ascolto. Concludo qui rimarcando il fatto che siamo di fronte ad un esordio e pertanto, anche se gli otto pezzi si susseguono senza drastici cambi di atteggiamento, è d’obbligo segnalare alcune prolissità di troppo qua e la, ma nulla di grave o irrimediabile; in ogni caso gioiamo e attendiamo fiduciosi il prossimo lavoro, perché la strada è spianata e il talento non manca. (Filippo Zanotti)

(BadMoonMan Music - 2013)
Voto: 75

http://shallowrivers.bandcamp.com/

Fortid – Voluspà part III Fall of the Ages

BACK IN TIME:

#PER CHI AMA: Black Viking, Borknagar, Tyr, Enslaved
Fortid è una band islandese accasatasi in Svezia e dedita ad un sound decisamente vichingo figlio della musica di Bathory, Tyr e Borknagar con una spiccata attitudine al black metal dei primi Enslaved. Guidati dal vocalist Einar “Eldur” Thorberg, ex Thule e Potentiam, i nostri ci porgono questo lavoro del 2009 uscito per la Schwarzdorn Production e terza parte di un triplo concept sulla saga del 'Völuspá' (La profezia della veggente) che è il primo e più famoso poema dell'Edda poetica. La saga vichinga sulla storia della creazione del mondo e la sua futura fine narrata da una veggente che parla ad Odino del declino e della rinascita del mondo degli dei, il Ragnarok. La musica dei Fortid mette radici in tutte le direzioni prese dal genere oscuro, dal black d'avanguardia a quello sinfonico, dal più atmosferico e melodico della stupenda "New Dawn", che supera ogni aspettativa e suona come un capolavoro (la mia preferita) dove la voce pulita di Eldur spopola per maestosità e intensità fino alle velocissime cavalcate epiche ed i mid tempo di "Heltekinn", la malinconia di "The Future" dove la capacità espressiva della band trova un altro apice che ricorda l'infinita tristezza degli In the Woods e dei 3rd and the Mortals in una forma esasperata e devastante, senza dimenticare la buia psichedelia di Wolves in the Throne Room e la sperimentazione dei Sòlstafir. Maestosi e astratti come nell'iniziale "Ancient Halls", moderni nella concezione e nella sonorità come in "Ragnarok Army from the East", intelligenti e potenti, sognanti ed epici come in "Equilibrium Reclaimed", guerrieri e bardi... Un album di tutto rispetto per una band veramente completa. Un piccolo gioiello! (Bob Stoner)

(Schwarzdorn Production - 2010)
Voto: 80

http://www.facebook.com/fortid

Atlantis - Omens

#PER CHI AMA: Post Rock, Isis, Cult of Luna
A volte mi chiedo come mai tante fantastiche band straniere passino totalmente inosservate nel nostro paese. Non credo sia una carenza di interesse da parte dei fan italiani, quanto piuttosto una sorta di isolamento culturale/musicale in cui viviamo, che ci costringe semmai a godere di quelle schifezze che passano le radio locali. Io che di natura sono invece assai curioso, compio ormai quotidianamente una ricerca mirata a trovare l'album perfetto; oggi mi sono imbattuto in questi Atlantis, ome man band dei Paesi Bassi. Le coordinate stilistiche sulle quali si muove Gilson Heitinga, sono quelle del post rock strumentale, sporcato di infuenze più metalliche, ma sorprendentemente anche elettroniche. E cosi il bel digipack che ho fra le mani (peccato non abbia solo dei colori più vivaci nella cover) offre sei splendidi esempi di musica emozionale, pregna di malinconia (e le linee chitarristiche e di tromba, in "Raptor", ne sono testimoni) e portatrice di nubi cariche di pioggia. Perfetto direi, per questo periodo storico in cui il sole l'avremo visto si e no in un qualche servizio turistico alla tv. Comunque per 4 dei 6 brani contenuti in 'Omens', preparatevi ad affrontare lunghe cavalcate in cui, a forse fin troppo ridondanti giri di chitarra (vera pecca dell'album), si sovrappongono intermezzi ambient e appunto elettronici. I chitarroni melodici di "And She Drops the 7th Veil" sono belli pieni, in stile Isis, mentre le atmosfere rarefatte e a tratti psichedeliche che si materializzano qua e là, mostrano un che dei Cult of Luna. I momenti migliori rimangono quelli delle fughe nell'elettronica, che conferiscono al lavoro del mastermind olandese, quel pizzico di originalità che li distingue dalla massa. Se poi nella stessa song fa la comparsa anche la voce di Sanne Mus, non posso che gridare al miracolo, io che tanto mal digerisco i lavori completamente deprivati delle vocals. Una vena drone compare nella breve "The Path Into", mentre l'inizio ipnotico basso/batteria di "Widowmaker" mi carica come una molla, eccitando le mie cellule neuronali con suoni lugubri, maledetti e impreziositi da campionamenti vocali di fanciulle impaurite. Con la conclusiva e doomish "Omen" ci lanciamo a tutta velocità in un tunnel con le orecchie che rischiano quasi di scoppiare, ma non c'è da temere perchè chitarre, drumming e i sensuali vocalizzi di Sanne, ristabiliranno ben presto l'ordine delle cose. Intrisi di emozione. (Francesco Scarci)

(Burning World Records - 2013)
Voto: 75

http://www.facebook.com/atlantisrocks

giovedì 13 febbraio 2014

I Shalt Become - Louisiana Voodoo

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum, Xasthur
La musica degli I Shalt Become potrebbe essere la perfetta colonna sonora de "Il Pozzo dei Dannati". Le sonorità del duo dell'Illinois infatti, che con questo album giunge alla sesta fatica, incarna perfettamente quanto di dannato ci sia nel nome del nostro sito. La musica dell'ormaai ex one man band statunitense, torna ad offrire il proprio delirante e quanto mai inquietante sound, che partendo da una base prettamente di musica classica, offre poi tutta una serie di sonorità spettrali e dall'aura malsana, che solo nelle screaming vocals trova il suo punto di contatto col black. Fatto sta che il sottoscritto ha già un brivido che corre lungo la schiena. "Strangers" e "Total Perspective Vortex" sono i primi due splendidi capitoli di 'Louisiana Voodoo', in cui il signor Holliman ci riconsegna tutto l'armamentario tipico degli I Shalt Become. Parlavo di musica classica all'inizio, e il tessuto musicale su cui si imbastisce tutta l'opera, sono appunto quei famigerati e raggelanti tocchi di pianoforte, su cui poi si innestano le oscure vocals, i melodici giri di chitarra al limite del depressive e le lisergiche atmosfere. La title track è una song tenebrosa, costruita sullo stesso ossessivo giro di chitarra/tastiere per un effetto finale al limite del drone/doom. "Drowning" è più vicina all'ambient/noise che al black, non fosse altro per le abrasive e zanzarose chitarre poste in sottofondo e qualche ululato lontano del frontman americano. "Rain" è una delicata ninna nanna dal forte influsso suicidal-depressive, un infuso mortale di droghe catalettiche. Con "Riot" invece si ritorna ad una sorta di pomposo metal orchestrale che fonde un po' tutti gli insegnamenti derivanti dalla prima ondata black ambient (Burzum e Xasthur su tutti) che ci fa perdere nuovamente in loop ipnotici di catatoniche ritmiche. Pur non essendo il top della tecnica o non offrendo nulla di cosi dinamico e adrenalinico, a me 'Louisiana Voodoo' piace parecchio, perchè mi permette di apprezzare una forma di black metal molto accessibile e rilassante, cosi come solo gli australiani Germ sono riusciti ultimamente a fare. A chiudere il disco ci pensano gli abissali 19 minuti di "The Rats in the Walls", soffuso esperimento di black dalle venature elettro-industriali, con vocals gracchianti, che mimano vagamente quelle di Attila Csihar, e sprazzi di musica al limite del tribale. Ottimo comeback discografico, dopo tre anni di silenzio. (Francesco Scarci)

(Inspired Hate Records - 2013)
Voto: 75

https://www.facebook.com/IShaltBecome

Elimi – The Seed

#PER CHI AMA: Black, Pest, Tsjuder, Krypt
Alla terza release dalla sua nascita, il duo svedese ci offre un EP contenente due lunghi e complicati brani che riempiono il cd per più di ventidue minuti. Uscito per la Obscure Abhorrence Productions, 'The Seed' non smentisce gli intenti della band e dell'etichetta, proponendoci una band battagliera, diabolica e nera al punto giusto. Gli Elimi appunto, act che non si sposta significativamente dai canoni del genere e che figlia di una registrazione e produzione molto cruda, realistica e grezza, ci offre queste due tracce lunghe e abbastanza interessanti con evoluzioni inaspettate, tribali, acustiche e sperimentali in senso psichedelico come la parte centrale di "King of the Red Desert". Per il resto l'EP si snoda in un contorto e a volte non sempre logico black metal melodico di matrice svedese, ruvido e aggressivo con una voce ben impostata tra growl e screaming e con un suono di batteria da migliorare molto; ma è in generale un sound bisognoso di una qualità più alta per poter essere apprezzato al cento per cento. Due scorrevoli song tutto sommato convincenti, che mostrano una band dalle buone capacità che però deve ancora trovare un suo assetto finale. Le idee sono valide ma potrebbero essere sviluppate al meglio in un futuro vicinissimo e l'ausilio di una produzione di dovere, potrebbe avvalorarne la proposta musicale. Vedremo cosa ci riserverà questo duo per il futuro, rimaniamo in attesa... (Bob Stoner)

(Obscure Abhorrence Productions - 2011)
Voto: 65

https://www.facebook.com/elimi.sweden

Phobonoid - Orbita

#PER CHI AMA: Black Industrial, Blut Aus Nord, Darkspace
Quando si parla di spazio, pianeti o galassie, non c'è niente da fare, io ne rimango affascinato e rapito. I Phobonoid esplorano, attraverso questo EP di sette pezzi, un concept incentrato sulla fine della civiltà su Marte, di cui ne è testimone Phobos, il narratore e guarda caso anche il nome di una delle sue due lune. 'Orbita' è cosi una breve storia, raccontata dal mastermind e polistrumentista che si cela dietro al monicker Phobonoid, che inizia il tutto proprio con la song "Phobos", in cui è il forte vento che spazza la superficie del "Pianeta Rosso", ad emergere nei suoi primi minuti, poco prima che irrompa una voce aliena e una drum machine non di questo mondo. La batteria sintetica attacca con la sua violenta percussione con "Ex", ponendosi su un tappeto di serrate ritmiche black cibernetico industriali, interrotte solamente da un breve intermezzo ambient. I vocalizzi del frontman, pur posti decisamente in secondo piano, si riveleranno assai efficaci. Tutte le song sono piuttosto brevi e la terza "Vuoto" è un'altra scheggia di sonorità oscure, fascinose e ipnotiche di un vorticoso black sci-fi frammentato di partiture industrial e intermezzi dall'apocalittico flavour. I nomi a cui accostare la proposta del combo italico sono un paio e aggiungerei di elevato spessore: Blut Aus Nord in primis e Darkspace in seconda battuta, che potrebbero servirvi come indizio per intuire maggiormente la soffocante proposta dei Phobonoid. "Lo Spettro di Deimos" (Deimos fratello di Phobos e seconda luna di Marte) è un omaggio al drone, mentre "Omega" rappresenta una raffica di asteroidi e meteoriti che si schiantano sul quel pianeta che sentiamo cosi affine al nostro. Il sound è sempre più glaciale e le voci, quasi demoniache, ben si amalgamano con l'impasto sonoro creato dalla band. Con terrore ci dirigiamo verso la conclusione del breve EP (solo 20 minuti): "Magnete" è un breve intermezzo che apre all'energica "Deimos". Melodica, malinconica, rarefatta e nevrotica, è la perfetta conclusione di un lavoro che per me è solo un antipasto di qualcosa di grosso che spero arrivi quanto prima. Aguzzate le orecchie, i Phobonoid sono un'altra band da tenere sotto controllo. (Francesco Scarci)

A Million Dead Birds Laughing - Bloom

#PER CHI AMA: Grind Death sperimentale, Anaal Nathrakh
La mia vena sperimentalistica mi sta portando giorno dopo giorno a provare cose fuori dall'ordinario. Non che gli A Million Dead Birds Laughing non li conoscessi, ma stavo bramando il ritorno della band australiana, da quando recensii il precedente 'Xen'. Eccomi quindi accontentato. Arriva 'Bloom' ad annichilire il mio lettore cd e la mia testa, con la consueta abbondante offerta di song dalla breve durata ma dai densi contenuti. La proposta dei quattro folgorati ragazzi di Melbourne non sposta più di tanto il tiro rispetto al passato, continuando a triturarci le membra con scheggie di delirante grind death: “Rashômon” e “Defaced” mi mettono ko con spaventosa facilità e velocità, avendo i nostri di fatto abbandonato quelle influenze avantgarde che in passato ne mitigavano l'eccessiva irruenza. Niente paura però, chi è avezzo a questi suoni non farà certo fatica ad affrontare 'Bloom' e i suoi continui uno/due assassini. La lunga “Maboroshi” (3 minuti) prova ad offrire tutta una serie di variazioni ubriacanti al tema: cambi di tempo, stop'n go, momenti acustici e belle linee melodiche alla fine la designano come la mia preferita. La band ci lavora ai fianchi con la consapevolezza che prima o poi cederemo; guai quindi abbassare la guardia, perchè è già pronta la seconda sfornata di song tritura ossa che da “Warlord” a “Bushidou” martella che è un piacere ogni singolo neurone contenuto nel mio residuato bellico di cervello e chissà se ne avrò poi ancora al termine dell'ascolto di questo disco. Rabbiosi, ultra tecnici, possenti, digrignanti e imprevedibili: gli AMDBL ci concedono una sosta all'autogrill con “Praxis”, giusto il tempo di rifiatare un attimo e ributtarsi a capofitto nella bolgia finale delle lunghissime tracce “Bloom” ed “Equilibrium”, rispettivamente di 5 e 6 minuti, un minutaggio che credevo impossibile per il four-piece oceanico. Apparentemente la band tira il freno a mano con la title track, un pezzo che va decisamente fuori dagli schemi poichè sembra essere la preghiera di un induista. La roboante chiusura è probabilmente la song più lineare creata dai nostri, almeno in apparenza, prima del finale in cui il growling isterico e caustico di DL si alterna a quello di due ospiti: Aaron Grice (dei deathsters Hadal Maw) e James Turfrey (ex-The Mung). Bel ritorno per i fenomenali AMDBL, anche se mi spiace un po' si sia persa quella vena avanguardistica che contraddistingueva 'Xen'. Un peccato veniale che si può tranquillamente perdonare. (Francesco Scarci)

(Self – 2013)
Voto: 75

https://www.facebook.com/amdbl

martedì 11 febbraio 2014

Breathe Your Last – Fifth

#PER CHI AMA: HC italiano, RFT, At the Drive in, Congegno, Contrasto
La giovane band vicentina alla prima uscita autoprodotta sforna un EP carico di energia, pregno di vigore HC e di rasoiate punk melodiche e moderne, molto vicine alla scena hardcore alternativa e anarcopunk, della penisola tricolore. Niente di nuovo sotto il profilo stilistico ma i brani sono tutti validi, magari poco differenti tra loro ma belli, tirati, intensi e potenti. In risalto soprattutto la voce del vocalist Matteo Giacomuzzo che assieme ai testi assai ricercati (e questo gli fa un grande onore in un epoca dove il punk italiano si lascia andare sempre più verso il demenziale o il testo idiota), cantati tutti in italiano tranne che "On These Days", l'unico brano in lingua inglese. A dir la verità i brani in italiano risultano più incisivi e rendono molto l'idea dell'urgenza creativa dei nostri, del rimorso e della reattività, della volontà di non soccombere in mezzo a tutto quello che di grigio ci circonda. Forse vi sembreranno meno pesanti dei milanesi RFT, più orecchiabili dei Contrasto o dei Congegno e dal suono modernista come lo stile de Gli Altri, con un pizzico di At the Drive In nelle liriche e nei cori, ma i Breathe Your Last svolgono il loro compito egregiamente nonostante questo EP sia troppo corto per soddisfare la nostra voglia di ascoltare il grido della loro rabbia. La speranza che band come questa diventino un esempio per il genere post core/punk/HC italiano dei prossimi anni è tanta, per poter ricordare ai teenagers che si può coniugare il verbo punk con intelligenti testi di costruttiva rabbia esistenziale, e che punk e HC non sono solo e sempre sinonimo di autodistruzione e nichilismo fine a se stesso (chi di voi ricorda i KINA?). Gran bel debutto! (Bob Stoner)