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lunedì 15 settembre 2014

A Tear Beyond - Beyond

#PER CHI AMA: Gothic metal, Elettro-industrial, How Like a Winter
Difficilmente cerco di lasciarmi influenzare nel giudizio su un lavoro dalla veste grafica del “contenitore”: il rischio che si corre sta nel soppesare il contenuto aprioristicamente, un po’ come se partisse in curva e pertanto con più strada da recuperare per farsi largo alle orecchie del fruitore, penalizzato a causa di una scelta magari “poco felice” in termini di veste grafica per mille motivi diversi... oppure l’esatto contrario, tanto fumo e niente arrosto. Mi rendo conto che quanto affermato risulterà pacifico ai più, ma lo metto nero su bianco ugualmente in questo contesto perché, per una volta, contenitore e contenuto vanno realmente a braccetto e la copertina racconta in anteprima cosa andremo ad ascoltare inserendo il CD nel nostro beneamato lettore. Benvenuti a teatro! Prego prego, prendete posto, le luci si spengono, il drappo rosso del sipario si apre e siamo improvvisamente catapultati in un’epoca dove il tempo si è fermato in un certo passato elegante, colto e ricercato, molto diverso dal nostro vivere quatidiano, e ritengo siano i termini giusti per descrive appieno, a mio parere, pure il carattere di questi ragazzi vicentini. Musicisti non di primo pelo, ma qui al debutto (ormai del 2012) con questa formazione ed il risultato racchiuso in queste note entusiasma nel suo essere maturo e a tratti decadente. Non lasciatevi intimorire dall’inflazionato termine “gothic”, usato per descrivere la musica dei A Tear Beyond, in quanto posso assicurarvi che questa etichetta risulta alquanto stretta, certo limitante, funzionale solo a dare un’indicazione superficiale sul gusto musicale dei Nostri; in realtà molti più elementi emergono all’ascolto, sempre calati in questa atmosfera da palcoscenico, pertanto parlerei molto più volentieri di “dramatic metal” o qualcosa di simile, ma in definitiva chi sono io per proporre categorie e quindi teniamocelo inter nos tra queste righe. Ad ogni modo, è indubbio il valore intrinseco del disco, meritevole di plauso per il ritmo fantastico che lo sostiene, così come i nove pezzi ne rappresentano i diversi atti di un dramma: l’intro omonima da favola, dove la narrazione parlata in italiano ci mostra il percorso da seguire (il concept dell’intero album, arricchito da uno scritto nella pagina centrale del booklet) avanzando nel buio a lume di una candela dalla fiamma flebile e traballante, l’energia di "Lullaby for My Grave" che ci presenta la band (o compagnia di teatranti, se preferite) in grande coralità, quindi le fantasie orientaleggianti di "By Tears and Sand (The Golem)" e così via. Un posto speciale nel mio cuore è occupato da "Rain on the Oblivion", probabilmente l’episodio più riuscito dell’intero album grazie ad un refrain tra i migliori ascoltati da un po’ di tempo a questa parte. Musicalmente emerge ogni singolo strumento e, finalmente, mi sento di poter apprezzare un intelligente utilizzo delle tastiere nel ricreare il sound così teatrale che mi ha fatto apprezzare questo disco. I ragazzi poi non lesinano anche su alcune scelte più elettroniche ed industrial ("The Hunt"), ma danno il meglio quando vestono realmente i panni da teatranti, in particolar modo il vocalist Claude Arcano, dal timbro profondo e carismatico che mi ha ricordato il meraviglioso cantato di Marco Benevento (The Foreshadowing e How Like a Winter, in particolare!), ma in grado di mutare forma verso un buon screaming, a rinforzare ulteriormente il concept di dualismo e confronto tra opposti alla base di tutta l’opera. Personalmente, nonostante rispetti la scelta del gruppo di utilizzare l’inglese come lingua cantata, avrei osato con qualche pezzo in italiano in più, data la grande resa che la nostra lingua può avere in ambito teatrale, ma sarà per la prossima volta. In definitiva forse l’unico vero difetto del disco è la sua durata, poco più di 36 minuti ma, mi perdonerete, direi poco male: siamo a teatro, quindi tutti in piedi, un bell’applauso e sentiamo la folla richiedere il bis a gran voce... speriamo che la band ce lo conceda a breve... ancora più bello. (Filippo Zanotti)

Narriamo dell'antico tempo, ciò che lo scribano disse, 
riguardo all'occulto vespero dell'esistenza 
e di ogni suo elemento, 
della Rosa, dell'Assenzio, dell'Ombra e della Luce, 
dell'Uomo pazzo e dell'Uomo assiso...

(Self - 2012)
Voto: 80

sabato 2 agosto 2014

Woe Unto Me - A Step Into the Waters of Forgetfulness

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Skepticism, Shape of Despair
Russia, Ucraina, adesso anche Bielorussia: ormai sembrano queste le terre più prolifiche in termini di musica funerea, branca estrema del nostro amato doom. Ancora una volta la Solitude Prod. ci porta su un piatto ossidato ed incrostato di ruggine, una band che ha fatto proprio il vessillo delle lacrime trattenute, del momento limite tra il lasciarsi andare per sempre all’oblio ed il volgere ancora una volta il capo verso l’alto. Gli Woe Unto Me, con il loro debut fresco fresco, regalano questo: un album che contiene poca luce e ancora meno speranza, anche se non completamente assente perché resiste un capillare di melodia a condurre ogni singolo brano, un lamento che tenta di medicare la devastazione di un growl a tratti quasi effettato e riverberato, creando un contrasto molto apprezzabile tra clean vocals (maschile e femminile, per nostra fortuna bypassando il solto dualismo a la “beaty and the beast”) e grugniti. Tutto questo a frantumare ogni singola nota imbastita dalle due chitarre e sorretta in modo marziale da una sezione ritmica che offre comunque una discreta variabilità di tempi, con qualche accelerazione tuttosommato appropriata per spezzare il mood monocromo che permea il disco. Aspettatevi molti effetti, molti intermezzi rumoristici quali scrosci d’acqua piovana, tuoni in lontananza e rumori di passi, a fare da collegamento tra i vari brani, il che forse rappresenta una delle pecche dell’album, per un certo sentore di già sentito, un po’ un cliché del genere che forse varrebbe la pena di abbandonare in favore di un ben più apprezzabile stacco netto tra i pezzi. Sicuramente l’utilizzo delle tastiere e dei sintetizzatori facilità la vita di non poco nel realizzare sonorità così decadenti, ma per quel che può valere, ritengo che questo possa rappresentare la solita nota (ma sempre ben affilata) lama a doppio taglio, perché il rischio di cadere a volte nello stucchevole si avvicina in più di un’occasione (vedasi il finale del pezzo conclusivo), senza però compromettere troppo il risultato finale. I pezzi sono in media lunghi, si parte dai nove minuti e mezzo per arrivare ad oltre i quattordici, con l’eccezione del quarto brano solo strumentale che si aggira intorno ai sette (e forse rappresenta il miglior esempio di utilizzo delle tastiere di tutto l’album, sarà ripetitivo ma tant’è...). In definitiva, questo disco può essere considerato come un valido esordio per una band che dimostra di avere già idee personali e carattere e che deve solo rendersene conto, ma che dimostra di aver compreso la strategia da usare per il futuro: prendere quanto già esiste e rimaneggiarlo a propria immagine e somiglianza. Con qualche riserva ma bene. (Filippo Zanotti)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 70

woeuntome.bandcamp.com

sabato 28 giugno 2014

Crypt Of Silence – Beyond Shades

#PER CHI AMA: Death Doom, My Dying Bride, Esoteric
Lode decadente e gloria funerea alla Solitude Productions, al solito direi! Evviva chi sponsorizza e promuove (non sbagliando un colpo se mi permettete il commento) chi propone lavori d’esordio prima di tutto sentiti e pregni di emozioni, non importa quale sia il loro colore. E questo è il caso: gli ucraini Crypt of Silence imbastiscono quattro tracce per quasi 50 minuti di death doom che molto deve a maestri quali My Dying Bride, Esoteric ed in secondo piano Pantheist, ma aggiungerei anche un certo sentore gotico ammiccante ai primi Theatre of Tragedy. Qua non si scherza: un album freddo e pessimista, che canta di vuoto, di assenza di prospettive e desiderio (recondito) di un momento, anche uno solo, di speranza, trattata quasi come un’ombra, un abbaglio sfuggevole che ci perseguita solo per scherno, per beffarci e non farsi afferrare mai. Dal punto di vista musicale, ci si presenta alle orecchie un sound basato sui riffoni portanti delle due chitarre, ripetuti e riverberati, che rappresentano la spina dorsale di ogni pezzo, ben abbelliti da una sezione ritmica cadenzata che non contempla accelerazioni (dimenticatevi doppi pedali e quant’altro) e inserti di basso che spuntano come funghi. Il vocalist (che è pure il bassista) alterna un growl “genuino”e poco effettato (almeno così sembra alle orecchie di chi scrive), a validissime clean vocals. Nonostante la relativa semplicità dei pezzi, la noia non è di casa tra queste note. Da segnalare l’opening track ed il brano conclusivo, vera perla dell’intero album anche solo per la sua intro arpeggiata. Più volte si è detto e scritto che in questo genere è molto difficile inventare qualcosa, per sua stessa natura, pertanto spesso quello che si sente non è altro che una rivisitazione della “lezione principale”, girata e sfumata a sentimento di chi si lancia a comporre musica melanconica. Sarà anche così, ma ben venga aggiungere sfumature e toni di grigio alla tavolozza ostica e meravigliosa della musica del destino. Molto bene ragazzi. (Filippo Zanotti)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 75

giovedì 19 giugno 2014

Ea – A Etilla

#PER CHI AMA: Funeral doom, Ahab, Monolithe
È con estremo piacere che mi cimento nella recensione di questa quinta fatica in studio degli Ea. Al solito, per chi già li conosce (altrimenti mi permetto di farlo presente a coloro che ignorano l’esistenza di questa creatura oscura), i ragazzi non lasciano trapelare nulla che vada appena al di fuori delle note registrate in questo disco. Gli Ea (ma per quanto ne sappiamo potrebbero essere pure una one man band, chissà…) negli anni ci hanno abituati ad un suono votato alla terra, possibilmente adombrata e, tutt’al più, appena rischiarata da sfuggevoli raggi di luce crepuscolare. Criptici (dicono di provenire dalla Russia, sempre ammesso che questo corrisponda al vero), adornano le loro composizioni con sintetici testi scritti in un misterioso idioma antico, ricavato e ricomposto sulla scorta di studi archeologici, ed anche a tal proposito qualche dubbio può lecitamente sorgere. Quale che sia lo scopo ultimo di tutto questo mistero, di assolutamente pacifico e, per una volta, ben illuminato dalla luce del sole c’è un talento non comune emerso sin dal primo lavoro e maturato album dopo album. Notevole la capacità della band di affrontare (trionfalmente) il ben difficile salto da una struttura basata su lunghe ma separate composizioni ad un’unica suite, e questo è il secondo monolite che i Nostri partoriscono, segno di una ormai confidenza raggiunta in tal senso. Ci troviamo di fronte, per lo meno per chi scrive, al loro miglior lavoro ed, in ogni caso, a quanto di più accessibile faccia parte della loro discografia (il che è tutto dire!). Ciò che di ostico poteva essere ritrovato nei precedenti capitoli qui è stato adeguatamente smussato e levigato, senza perdere una virgola di quegli elementi di solennità ed epicità sonora che ne rappresentano senza dubbio il marchio di fabbrica. Il songwriting maturo ci dà in pasto un unicum scevro di quei momenti (per fortuna pochi) a volte vuoti, o lungaggini, che potevano essere riconosciuti specialmente nei lavori d’esordio. Di pregio l’utilizzo più marcato e convinto della doppia cassa, portando il disco a muoversi su granitiche ritmiche capaci di accelerazioni ed improvvisi rallentamenti, continuando quanto intrapreso già nel precedente album. Il riffing delle chitarre non ha subito grandi variazioni rispetto al passato, sempre portante nell’intrecciare la struttura di ogni singolo passaggio; immancabile il tappeto melodico-onirico delle tastiere a fare da supporto, nonostante un’evidente ridimensionamento dato a questo strumento rispetto agli esordi, il che non è affatto un demerito. Qua e la fa capolino l’onesto growling del vocalist, sicuramente non il migliore in circolazione, ma ben oltre la sufficienza. Solo un rapido accenno al finale, molto diverso dal loro solito in quanto quasi “tronco” rispetto alle abitudinali lunghe scie tastieristiche. Ma al di la degli aspetti tecnici, ciò che conta nell'intraprendere l’ascolto di un qualunque disco degli Ea è l’atmosfera che sono in grado di creare, capace di trasportarci in un mondo buio e meraviglioso ma non terrificante, lento ma non opprimente, epico ma non vagheggiante e dove la sensazione di smarrimento non si connota negativamente, perché alla fine si ritrova la strada di casa quasi d’improvviso. Gli Ea sono una realtà nel panorama funeral doom che ormai non si può più ignorare… se mai decideranno di mostrarsi, saranno accolti e acclamati a gran voce dal popolo delle odissee musicali. Sicuro. (Filippo Zanotti)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 85

sabato 12 aprile 2014

Grieving Age - Merely the Fleshless We and the Awed Obsequy

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Esoteric
Perplesso… molto perplesso. Posso solamente definirmi così dopo l’ascolto provante di questo doppio CD, che rappresenta la seconda opera studio dei Grieving Age, sestetto di ragazzoni arabi… eh, già, arabi! Peccato che, se non lo avessi letto sul booklet, mai lo avrei pensato, andando a collocarli mentalmente in tutt’altra geografia, dato lo spirito doooom che pervade questo disco. Quanto appena affermato può apparire un plagio bello e buono nei confronti di altre recensioni sul medesimo album e gruppo perfettamente consultabili in rete, ma vi assicuro che si tratta solo della logica considerazione spuntata nella mia mente dopo aver completato con notevole sforzo questa maratona pesantissima della durata di ben due ore. Tutto in quest’album è lungo, troppo lungo: il titolo, i titoli dei singoli pezzi, il minutaggio, lo sconforto del recensore di turno. Scordatevi qualunque riferimento al Medioriente: qui si entra in un tunnel marcio in caduta libera, che ben presto si apre in un vero e proprio abisso di melma e fastidio, giacché questa è la prima sensazione che ha evocato nelle mie orecchie il pezzo d’apertura, tale “Merely the Ululating Scurrilous Warblers Shalt Interminably Bray”; e di raglio si tratta, in definitiva, perché il cantato del buon Ahmed a questo assomiglia, sporco, sgraziato e lacera-corde vocali, ma anche monotono e un po’ troppo spesso senza variazioni di sorta. Questo vale pure per le sonorità e tutto quello che rappresenta l’incedere dei cinque (SOLO cinque) pezzi che compongono l’intera opera. Ma è necessario essere onesti: i ragazzi sanno il fatto loro e di sicuro non ci troviamo di fronte a pivelli o musicisti della domenica, perché sulla tecnica esecutiva non si può discutere. I singoli strumenti suonano come dovrebbero suonare in ogni album funeral doom che si rispetti e la scelta di non appoggiarsi a troppi tappeti sonori, magari ridondanti, aggiunge valore (e toglie speranza) al tentativo di ricreare una landa sonora desolata e desolante, al limite del sulfureo. D’altro canto, va da se che quasi due ore di musica, spalmate in sole cinque canzoni, relega questo album ad una sorte da “lavoro di nicchia”, dedicato ai più temerari, musicalmente disperati o masochisti proni a torture lente e prolisse. Non vi è nulla di male nel produrre monoliti di tale entità, a patto di essere in possesso di un’ispirazione tendente al divino ma, nonostante tutta la buona volontà profusa dai Nostri, l’obiettivo non è stato raggiunto. La sensazione è spesso di smarrimento sonoro, dove risulta facile perdersi e confondersi sul che cosa si stia ascoltando, così come quale sia il pezzo o addirittura il CD inserito nel lettore. In parole povere, è facile perdere il segno e, ahimè, il rischio di deconcentrarsi è molto alto. A parere di chi scrive, questo rappresenta solo un demerito. In definitiva, cosa dire? Assolutamente non da ascoltare in auto o durante cazzeggi vari, perché la dose di attenzione da dedicare al lavoro è notevole. Se si tratta di un mezzo passo falso o di un capolavoro incompreso, lo lascio a voi come quesito. Per quel che può valere (molto poco), il consiglio che mi sento di dare è uno solo: accorciare, accorciare e snellire. Dopo ne possiamo riparlare… (Filippo Zanotti)

(Solitude Productions - 2013)
Voto: 60

sabato 1 marzo 2014

Everlasting - March Of Time

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Mournful Congregation, Thergothon
Ancora Solitude Productions, ancora Russia, ancora debutto, esordio, chiamatelo come vi pare, ma di questo si tratta: gli Everlasting sono tre ragazzotti provenienti da Rostov sul Don, cresciuti a pane e funeral doom e territori limitrofi, con un buon gusto per la scelta delle melodie e un pizzico di apertura mentale che tanto fa bene al genere in questione. D’accordo, magari alcuni storceranno il naso di fronte all’etichetta funeral, preferendo un più “mite” doom-e-basta, ma l’incedere e la durata dei quattro pezzi che compongono questo disco mi autorizzano a parlare in tali termini senza troppi scrupoli. Cosa rende valido quest’album? Nessun miracolo, nessuna trovata rivoluzionaria o cambio di paradigma, ma tanta dedizione alla musica e un’attenta analisi della scena musicale sguazzante tra doom, gothic, funeral, con spruzzi black, ricerca di melodie di più ampio respiro e meno soffocanti, zozzeria della voce in growl ad hoc e momenti di cantato pulito o addirittura parlato. Non segnalo nessun pezzo in particolare, perché tutti meritano un ascolto con la giusta impostazione mentale, ma senza ritrovarsi per forza con l’umore a terra in una uggiosa giornata di febbraio, sotto l’acqua battente sui vetri delle finestre di casa. I ragazzi sulla loro pagina Bandcamp citano le loro fonti d’ispirazione, in particolare Mournful Congregation e Thergothon, il che ci semplifica di poco il lavoro di “caccia” perché i riferimenti in effetti sono piuttosto chiari, e questo non è un male in quanto da buone fonti partono i lavori migliori. Quindi plauso alla Solitude Productions per l’ulteriore scoperta e, che vi devo dire, lunga vita al funeral doom… il che sembra un controsenso, ma non stavolta! Promossi. (Filippo Zanotti)

(Solitude Productions - 2013)
Voto: 70

http://everlasting1.bandcamp.com/album/march-of-time

sabato 15 febbraio 2014

Shallow Rivers - Nihil Euphoria

#PER CHI AMA: Death Doom Melodico, Swallow The Sun,
Altro debutto in casa Solitude Production/BadMoodMan, il disco in questione, opera prima dei russi (un duo, peraltro) Shallow Rivers. Non serve spendere molte parole per dare una bella inquadrata al lavoro: melodic death-doom quadrato, preciso, ben cadenzato, aggressivo… ecco, si aggressivo, e meno male! Non aspettatevi un lavoro rivoluzionario perché, ormai è risaputo, il genere trattato dai Nostri è quasi l’esatto opposto dell’innovazione e della sperimentazione, ma accogliete a braccia aperte un lavoro ispirato e ben prodotto, che merita di stare nelle vostre scaffalature musicali tranquillamente tra Swallow The Sun, Daylight Dies (quelli degli esordi, per lo meno) e una certa scuola scandinava. I due ragazzi si dividono tutta la strumentazione, ma per quanto riguarda chi scrive il miglior strumento musicale dell’intero album è la voce cavernosa del bravo vocalist, un growl catarroso al punto giusto e pesante, ma anche capace di inserti melodici ad hoc (per esempio in “Down the River to Vortex”, pezzo di ottima fattura che fa scivolare la durata non da poco, senza intoppi e punti morti). Per il resto, il lavoro di intreccio delle varie trame è svolto in maniera più che dignitosa, con una solida impalcatura a sorreggere il tutto. Unico appunto personale riguarda l’utilizzo delle tastiere, dove forse la scelta delle sonorità avrebbe meritato un minimo di attenzione in più, giusto per togliere quel lieve alone di “già sentito” e “banale”, e dare all’intero disco un’ulteriore nota di personalità aggiunta. Segnalo anche l’intro e “The Weeping Lotus Dance”, dove un riff azzeccatissimo vi resterà in testa già dal primo ascolto. Concludo qui rimarcando il fatto che siamo di fronte ad un esordio e pertanto, anche se gli otto pezzi si susseguono senza drastici cambi di atteggiamento, è d’obbligo segnalare alcune prolissità di troppo qua e la, ma nulla di grave o irrimediabile; in ogni caso gioiamo e attendiamo fiduciosi il prossimo lavoro, perché la strada è spianata e il talento non manca. (Filippo Zanotti)

(BadMoonMan Music - 2013)
Voto: 75

http://shallowrivers.bandcamp.com/

domenica 2 febbraio 2014

Monolithe – Monolithe III

#PER CHI AMA: Funeral doom, Ea, Shape Of Despair
Guardate, su in cielo! E' un uccello! E' un aereo! NO, è funeral doom metal!!! … in realtà no, o meglio, non solo, o non più. Insomma, chi di voi vede nel ramo funereo del metal la propria via, sicuramente conoscerà le gesta dei quattro ragazzi francesi noti come Monolithe, mostri lenti e cavernosi che ci hanno abituati a sberle colossali di musica lugubre, interminabili suite della durata di poco inferiore all’ora. Ebbene, in questo terzo lavoro inteso come full-lenght la formula si ripete, con ben 52 minuti di canzone. Ecco, i paragoni e le affinità con gli album precedenti, a mio parere (e per quel che può valere), si esauriscono qui. Voglio essere onesto: non ho mai ben sopportato i dischi marcati Monolithe, i quali peccavano di prolissità ed eccessivo carattere monocorde nelle composizioni e nel mood, togliendo il fiato più che altro per sfinimento che per vera bellezza degli arrangiamenti. Certo, il funeral in parte si caratterizza proprio da questa tendenza a mantenersi e ripetersi nel suo incedere, appunto come una marcia funebre, un carrozzone che procede a passo d’uomo stanco e azzoppato, e guai se non fosse così… ma questo può rappresentare anche un rischio, la solita lama a doppio filo. Tenendo presente il fatto che questo disco, targato 2012, in realtà doveva uscire già nel 2008, a soli 3 anni di distanza dal precedente 'Monolithe II' (tralascio per semplicità i vari “Interlude”), viene da pensare che sia stato rimaneggiato parecchio, ed in meglio! Se la matrice doom permane (per grazia di Dio), il carattere dei Nostri è sicuramente mutato e maturato, incorporando molti elementi diversi, ribilanciando la pesantissima componente funeral e stemperandola con inserti al limite della psichedelia e, per certi versi, orientati verso il nuovo modo di intendere il black nelle sue aperture più melodiche e rallentate. Poco spazio è lasciato alla voce in growl, ma senza che rimanga nessun vuoto, in quanto è intesa al pari degli altri strumenti ed usata come tale. Pregevolissimo il lavoro delle tastiere e del programming, indispensabile per ottenere l’effetto “sguardo al futuro” ricercato dalla band; le chitarre mantengono il loro stile ben noto nello sviluppo dei vari riff, sporcandosi maggiormente rispetto al passato e assumento quindi sfumature più corpose, ma d’altro canto rappresentando forse l’ultimo vero legame con il precedente periodo; bene la sezione ritmica. Siamo onesti, recensire questo disco a più di un anno dalla sua pubblicazione comporta scrivere di un lavoro già analizzato e sviscerato in altre sedi, e risulta più difficile in quanto si può incorrere nel rischio di ripetere concetti già detti e noti. In questo caso, tuttavia, mi sento assolutamente in buona fede nel (ri-)affermare che il vero tallone d’Achille di 'Monolithe III' è rappresentato dal rimasuglio di cordone ombelicale che lega i ragazzi francesi al loro passato: non si può parlare ancora di capolavoro, ma la strada è giusta e paga, basta solo un po’ di coraggio in più. Per concludere, un mio piccolo consiglio: riascoltate (e se non conoscete, recuperate) i due precedenti full-lenght, quindi passate a questo terzo capitolo, in modo da assaporare il notevole salto di qualità. Per completezza ed onestà si fa presente che lo scorso anno la band ha pubblicato il quarto album, non considerato in sede di questa recensione… a tal proposito, si spera di rivedersi a breve su queste pagine! (Filippo Zanotti)

(Debemur Morti - 2012)
Voto: 75

https://www.facebook.com/monolithedoom

martedì 28 gennaio 2014

Mord’A’Stigmata - Ansia

#PER CHI AMA: Post Black, Deafheaven
La Polonia nel tempo ci ha regalato gemme preziose in ambito estremo ed è la Pagan Records, stavolta, a beneficiarne. Nativi di Bochnia e formati nel 2004, i Mord’A’Stigmata riescono a fondere assieme il black più moderno con un numero considerevole di influenze tra le più disparate, tra cui spiccano psichedelia ed elettronica, elementi più dark e una spolverata di shoegaze, ma il mio invito è di lanciarvi voi stessi nella caccia al riconoscerle tutte. Il loro terzo lavoro, 'Ansia', può essere grossomodo così riassunto: sublime e proteiforme. Ottimo il connubio tra harsh vocals rauco-catarrose e parte musicale più black-oriented, una sezione ritmica precisa e mai esasperata (senza strafare, e non è poco), a supporto di un guitar working secco, essenziale, sempre ribassato, cupo ed arioso allo stesso tempo. Non paghi di tutto questo pregevolissimo lavoro, ecco che arriva il colpo di scena, laddove entra in campo l’emozionante vena più elettronica e sperimentale dei Nostri, inframezzata qua e la nelle varie canzoni. I primi tre lunghi pezzi coprono più dei tre quarti dell’intero disco, costruendo un unico movimento altalenante di luce (fioca, molto fioca) e tenebra. "Inkaust", "Shattered Vertebrae of the Zodiac" e "Pregressed" sembrano un mosaico, dove ogni tassello risulta perfettamente incastrato tra i circostanti, a formare un crudo, gelido e affascinante disegno a tinte fuligginose. La conclusione è affidata a "Praefactio pro Defunctis" (probabilmente il pezzo meno ispirato dell’intero album, ma comunque più che gradevole) e la title track, un’asfissiante rampa di lancio verso il nero, il cui unico difetto è, ahimè, la brevità. È ascoltando album come 'Ansia' che mi convinco sempre più di quanto meravigliosa sia la nostra musica preferita e dischi di tale fattura ne rappresentano solo un’ulteriore conferma. Ottima prova. (Filippo Zanotti)

(Pagan Records - 2013)
Voto: 80

https://www.facebook.com/mordastigmata

domenica 5 gennaio 2014

Silentio Mortis - Embalsamado - Natimorto/Illumination

#PER CHI AMA: Doom Occult
Split CD dal Brasile (da Rio de Janeiro, per la precisione) il dischetto in questione, che unisce sotto lo stesso coperchio di plastica i Silentio Mortis, qui con 'Illumination' e gli Embalsamado ed il loro 'Natimorto'. Entrambe le band sono al loro esordio discografico e ci propongono due lavori in realtà molto simili. Questi 44 minuti trasudano doom funereo (attenzione, non funeral!) nota dopo nota, con una certa nostalgia per gli anni ’70, piccolissime presunzioni di psichedelia e qualche strizzata d’occhio ad un ben noto black old-school. A conti fatti, e se piace quel mondo, quanto detto finora dovrebbe lasciar presagire molto di buono ma, sfortunatamente, non è così. Procediamo per ordine: la prima metà del disco è occupata dai Silentio Mortis, fautori di una discreta prova musicale affidata quasi esclusivamente alle chitarre, ma irrimediabilmente rovinata (e non esagero) dalla voce della vocalist. Già, proprio così, quello che poteva essere l’elemento di novità, la chiave di volta/svolta per la band in un genere prettamente maschile, si rivela esserne invece il vero tallone d’Achille. La prova canora (in inglese) risulta sgraziata e disturbante e nulla ha a che vedere con quanto di meglio ci abbia regalato il doom settantiano: cantare sporco NON significa cantare male, punto. Sei track che scivolano via in modo abbastanza anonimo, senza una vera predominanza o elementi di spicco e mi limito solo a segnalare “Sagn” come episodio gradevole in questo marasma, probabilmente perché unico pezzo strumentale. La seconda metà dello split è riservata agli Embalsamado, i quali puntano immediatamente ad alzare il livello del ritmo con pezzi si più tirati e black-oriented (cantati/gracchiati in lingua madre), così come più “impastati” (se mi passate il termine) a causa di una produzione meno elaborata dei compagni di banco, che in ogni caso non faceva comunque impazzire. Se questo sia voluto o meno non mi è dato sapere, ciononostante il risultato non cambia e ancora una volta mi ritrovo sconsolato a scuotere la testa. Insomma, lo ripeto e continuerò a farlo fino alla nausea: sporco non significa brutto!!! Se devo pensare a meravigliosi lavori marcescenti e putridi penso ai Whitehorse o agli Emptiness (e, vi garantisco, mi è aumentata la salivazione al solo pensiero): fate un confronto e vi garantisco che difficilmente vi trovere in disaccordo con quanto affermato. Al pari dei colleghi, anche in questo caso i pezzi si mantengono sullo stesso livello (basso) ed evaporano in pochi istanti come neve al sole. Per concludere: mettersi in gioco e decidere di scrivere un album non è cosa da tutti, pertanto chi intraprende questo cammino solitamente è conscio dell’incertezza del risultato, motivo per il quale non voglio sparare a zero sulle band in questione, ma in tutta onestà non posso nemmeno ritenere sufficiente questo split. Ritengo che ci sia ancora molto lavoro da fare prima di una nuova prova, ma questo è solo il mio parere, per quello che può valere.(Filippo Zanotti)

giovedì 19 dicembre 2013

0 X í S T - Nil

#PER CHI AMA: Death Doom, Dark Metal, Celtic Frost, Bethlehem, Triptykon
Finlandesi al debutto, ormai lo scorso anno, gli 0 X í S T , da pronunciarsi “zero exist”. Forti di un EP del 2010 ('Unveiling the Shadow World'), i quattro ragazzi dalla terra dei laghi confezionano un album dove i riferimenti sono molto comodi, tanto che ci pensa la band stessa ad indicarci nomi blasonati come Celtic Frost e Triptykon su tutti, ma al sottoscritto è risuonato per il neurocranio anche qualche eco di certi Katatonia più lugubri. Si parla di dark metal e forse, per una volta, siamo d’accordo sulla definizione, in quanto questa spesso sembra un po’ semplicistica: un calderone dove buttare mescolanze di vario genere tra “roba pesante” di stampo death/doom e melodia funerea. Insomma, fin qui tanto di grandi aspettative, eppure... già, eppure rimane qualcosa in sospeso. Ho ascoltato più volte questo disco, con vero impegno, ma senza troppo successo. Il risultato è che, come già detto, sembra mancare di qualcosa. Beninteso, i ragazzi non sono dei buzzurri e in quattro strumenti tirano fuori un mood che gratta bene su ogni singola vibrazione emessa del vostro stereo; ciononostante mi rimane il seguente dubbio: non riesco a capire se si tratti di vero talento oppure “solo” (e si fa per dire) di grandi lezioni ben memorizzate ed un minimo rimaneggiate. In sette pezzi, gli unici che hanno catturato e colpito la mia attenzione sono la opening track “Old World Vanished” e la doppietta conclusiva “Of Wood, Stone and Bone” &“Shrivel”: la prima sostenuta da un riff portante meraviglioso nella sua semplicità, le seguenti molto più ipnotiche, dove Shrivel in apertura sembra un carillon tendente all’incubo. Il resto dei brani si muove tra chitarre ribassate e mid-tempo sicuramente d’impatto (impossibile non tenere il ritmo), ma mancanti (sottolineo, A MIO PARERE!) di quella scintilla ultima, che faccia decollare le note e rendere quest’album micidiale. In realtà credo che, per una volta, il problema non sia dei ragazzi ma piuttosto mio, per non essere riuscito a trovare la vera chiave di volta di tutto il lavoro. Quindi mea culpa e l’invito ad ascoltare questo disco, con l’augurio di sviscerarlo e farlo vostro con più successo. Per quanto mi riguarda, aspetterò un futuro lavoro per rimettermi alla prova...(Filippo Zanotti)

(Self - 2012)
Voto: 65

http://www.zeroexist.net/

sabato 14 dicembre 2013

Fausttophel - Жажда забвения

#PER CHI AMA: Blackened Death, Old Man’s Child, Edge Of Sanity
Esordio incerto quest’album del duo ucraino Fausttophel, intitolato 'Жажда забвения', che grossomodo può essere traslitterato e tradotto come 'Thirst of Oblivion'. Incerto perché, in definitiva, il disco si presenta come un insieme di sonorità che devono molto alla scena europea (in questo caso leggasi scandinava) melodic death dalle tinte black anni ’90, ma senza aggiungere poi molto, con l’unico tratto distintivo di avvalersi del cantato sporco in lingua madre, più delle eteree incursioni vocali femminili qua e la. Sei tracce per circa 37 minuti, comprensivi di intro recitata (in russo) al rumore di un fuocherello scoppiettante, più una cover dei Kollaps (il quarto pezzo “Думи” - "Thoughts"). Quindi? Si tratta di un album? Un EP? Mah... abbiamo capito da molto ormai che non è la durata a fare un lavoro di qualità, ma quello che esso contiene, fosse anche solo una traccia purché di ottima fattura; bene, in questo caso, purtroppo, non si può parlare di capolavoro. Sicuramente di impegno ne è stato profuso nella stesura dei pezzi e mi sento di poter affermare che i ragazzi sono realmente appassionati del loro lavoro, ma in tutta onestà l’unica track che è realmente piaciuta al sottoscritto è stata proprio la cover, il che la dice lunga sulla validità dell’intero album. Ad ogni modo, se non altro per conoscerli, un ascolto lo si può concedere, quindi una pacca sulla spalla e puntiamo su un’iniezione di fiducia e, soprattutto, personalità per il prossimo lavoro. (Filippo Zanotti)

(Another Side Records)
Voto: 60

venerdì 6 dicembre 2013

Blizzard at Sea – Certain Structures

#PER CHI AMA: Post/sludge, Cult of Luna, Neurosis
Bene, dopo i Ghosts at Sea (recensiti su queste pagine giusto lo scorso mese), arrivano alle nostre orecchie i Blizzard at Sea... insomma ci dev’essere qualcosa di grosso che bolle sotto questo beneamato mare, perché tutti quelli che ci fanno una capatina se ne tornano a casa con risultati strabilianti. Americani dell’Iowa, il trio di ragazzi ci propone il loro full-lenght d’esordio (dopo due validissimi EP che vi consiglio di recuperare – 'Invariance' e 'Individuation', entrambi recensiti ed incensati qui nel Pozzo), composto da nove pezzi che... beh, come posso dire... ok, ci provo con questo esempio: immaginate di essere legati da catene e trascinati a forza da un escavatore (che non brilla certo per velocità sostenute) lungo una bella distesa di deserto roccioso pieno zeppo di sassi e punte acuminate, sotto un sole cocente, completamente ricoperti di polvere. Ecco, ora immaginate che al termine di tale avventura qualcuno vi liberi da queste catene e, alzandovi in piedi tutti belli rotti e doloranti, l’unico pensiero che abbiate in testa reciti grossomodo così: “Cazzo, rifacciamolo!!!”. Spero di aver reso l’idea perché, se vi fidate del sottoscritto e concedete un ascolto a questo album, sono abbastanza sicuro che almeno qualcosa delle sensazioni che ho provato a descrivervi le ritroverete. Stiamo parlando di un lavoro ispirato, duro, un post-metal intriso di sludge che certo guarda indietro verso i “soliti” mostri sacri citati più e più volte in tante recensioni (Neurosis, Cult of Luna, The Ocean...), ma che si limita solo ad uno sguardo: i ragazzi non hanno fatto un passo indietro che sia uno da dove li avevamo lasciati, continuando sulla strada del “suonare quel che ci pare e piace”, e guai se non fosse così. Vi martelleranno per bene e vi ipnotizzeranno, concedendovi in dono l’equivalente di un kilometro di carta vetrata grana grossa strofinata con maestria su ogni centimetro quadrato della vostra pelle. Voce, chitarra, basso e batteria, nulla di più, per erigere un muro sonoro pronto a crollarvi addosso. Nove tracce accomunate dall’unico difetto di esaurirsi troppo velocemente, perché ne vorreste ancora! Credetemi, non è da tutti riempire 52 minuti di tale impatto sonoro senza mai una sola volta percepire noia. Così non vi resta che premere di nuovo il tasto play e rotolare di nuovo lungo il pendio funesto di questa scarpata sonora. Tra i pezzi mi limito solo a menzionare “Almost Awake”, come vero e proprio manifesto del tutto, contenente i riff più aggressivi dell’intero l’album; ma non temete, ogni singola canzone vi marchierà a fuoco. Concludo così: presto sarà Natale: fatevi un regalo e recuperate in blocco la discografia di questi ragazzi, ma attenzione a metterla sotto all’albero assieme agli altri pacchetti, perché potreste ritrovarvi con un mucchietto di macerie e cenere fumante... poi non dite che non vi era stato detto. (Filippo Zanotti)

(Self - 2013)
Voto: 80

http://blizzardatsea.com/

giovedì 28 novembre 2013

Ghost at Sea – Hymns of our Demise

#PER CHI AMA: Post Black, Ulver, Wolves in the Throne Room, Darkthrone
In tutta onestà, ho avuto qualche momento di difficoltà nel digerire a priori l’idea che il disco in questione (peraltro difficilmente identificabile come opera prima), prodotto da questo due esordiente proveniente dal Nord America (sodalizio Kentuky più Indiana), si serva esclusivamente di una drum machine: non tanto per il fatto in sè di utilizzare una macchina invece della pedalante potenza umana (basti vedere ciò che i Darkspace hanno partorito servendosi esclusivamente di questo espediente), quanto piuttosto perché i ragazzi propongono un genere che si nutre di umanità e che, a parere di chi scrive, meriterebbe quel tocco che solo un martellante batterista bipede riesce a dare ad un lavoro come questo. In sostanza, la perfezione della macchina rappresenta una minuta macchia, una piccola nota di demerito, laddove si avrebbe preferito sentire quella minima sbavatura o quell’indugiare voluto sul pedale o sul rullante di pertinenza esclusivamente umana e così appagante... ciò nononstante, prendete tutta questa manfrina iniziale per quello che è, vale a dire una pippa mentale da appassionato, e non un elemento limitante la fruizione di questo disco. Si tratta di un lavoro che tanto deve alle influenze indicate alcune righe sopra, dove grandi mostri del black metal si incrociano con quella nuova corrente di musica nera atmosferica che, in realtà, tanto di nero non ha se non nelle sonorità. Quale che sia la vostra idea in merito, sicuramente non si può rimanere insensibili di fronte alle note sparate a mille di questo disco che si apre nel migliore dei modi, con una chitarra ipnotica ad invitarci a guardare nel pozzo in cui saremo risucchiati di li a poche battute, per precipitare in questo viaggio in discesa di luci ed ombre. “A Fitting End To Human Suffering” ne rappresenta solo l’inizio, pezzo ben congeniato dove i blastbeat si alternano ad arpeggi di carta vetrata ma senza mai dimenticare la matrice melodica che caratterizza ogni traccia. Si passa quindi a “Wanderer”, in origine inizialmente pezzo distribuito come “singolo” e qui rivisto e riadattato ad un contesto di full-lenght, decisamente più lineare nel suo incedere marziale rispetto all’opener. Meritevoli di nota sono poi “Decay” e la sua naturale proscuzione in “The Weight of 1,000 Suns”: un ribassato ruggito di chitarra la prima, quasi a fare da intro alla seconda, caratterizzata da un incedere fantastico come piglio e ritmo nel suo intreccio di voce, chitarra e batteria, dove è praticamente impossibile non battere il tempo con i piedi, per buona pace dei vicini di casa! A chiudere il tutto è “Through the Shadow that Binds Us”, forse il pezzo più black-oriented e grezzo in senso classico (nessun orpello, nulla oltre i singoli strumenti e voce a guerreggiare tra loro), al punto da risultare quasi discostato dal resto del disco: il minutaggio importante (oltre i 14 minuti) probabilmente lo penalizza in ultima analisi e forse sarebbe stata più efficace qualche prolissità in meno, ma non mi sento di criticare la band per questo. Ripeto, stiamo parlando di un’opera prima ed un plauso va sicuramente ai due ragazzi per la maturità della composizione, pertanto quelle che possono essere delle limature da fare qua e la sono più che tollerate. Insomma, la drum machine ha fatto anche stavolta il suo sporco dovere, però il sottoscritto confiderà sempre nell’arrivo di un batterista “organico”. Ad ogni modo, avanti così! (Filippo Zanotti)