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mercoledì 16 ottobre 2013

Solacide - Waves of Hate

#PER CHI AMA: Death Thrash Progressive, Children of Bodom, Carcass
Finlandia, fucina di band, da sempre. Ecco la new sensation dal paese dei mille laghi, i Solacide e il loro EP, “Waves of Death” che altro non è che il demo del 2006 a cui sono state aggiunte due tracce live, di cui una dal precedente EP, “Baptized in Disgust”. L'attacco della title track è bello tirato e mette in luce la direzione musicale dei nostri: un death progressive che trova solo nelle vocals urlate, un leggero punto di contatto col black. Affilate come rasoi, le chitarre girano a mille con splendide melodie che poggiano su una ritmica death/thrash. Buone le linee melodiche, ottima la performance dei singoli musicisti, ma su questo avrei messo la mano sul fuoco, notevoli e frequenti gli assoli, per cui ho accostato la musicalità dei nostri a tre band che poco hanno in realtà da spartire tra loro, Megadeth, Children of Bodom e Cynic. Con “Your Worst Enemy” si pesta che è un piacere: l'uso del blast beat non è disdegnato, Gökhan grida come un invasato dietro al microfono, mentre il duo d'asce, formato da Kimmo e Joonas, si diverte un casino a rincorrersi con le taglienti 6-corde. Spaventoso poi il lavoro di precisione chirurgica di Matti dietro alle pelli: picchia come un assannato con Sami che gira al basso funambolicamente. Quando la chitarra di Kimmo parte con le sue fughe solistiche è vera delizia per le mie orecchie: un po' Carcass e un po' Amon Amarth, di certo il nostro axeman mostra un'invidiabile tecnica. “After the Fall” apre in acustico, irrompe l'elettrica, ma poi è una ritmica sincopata che accompagna le clean vocals di Kimmo, bravo sia in fase strumentale (con un'altra serie di splendidi solos) che vocale. I Solacide in studio mi piacciono molto, non lo nascondo e mi sorprendo del fatto che questo sia materiale vecchio di sette anni, chissà come suonano oggi i nostri. Vado a dare un ascolto al live, si tratta di una performance del 2010. “God on Fire” è una roboante traccia di black death, estratta dal precedente EP che mette in luce la ferocia della band in sede live, pur mantenendo inalterata le qualità compositive, evidenziando qualche inevitabile imperfezione tipica dei live (che su album non apprezzo granché) e denota un po' in carenza in fatto di dinamicità e di virtuosismo solista. La conclusiva “Nothing Weak Survives” è un vecchio pezzo quando ancora si chiamavano Dim Moonlight: la sua crudezza delinea una ancora non del tutto formata maturità anche se le ritmiche sincopate e l'onnipresente lavoro in fase solistica, evidenziano già le ottime potenzialità di una band, di cui auspico presto parlare per un definitivo full album. Attendo pertanto con ansia per capire se le mie aspettative verranno soddisfatte. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

http://www.solacide.com/

We Hunt Buffalo – We Hunt Buffalo

#PER CHI AMA: Grunge, Stoner, Queens of The Stone Age
C’era un tempo in cui i dischi ancora si vendevano, e la possibilità di vivere (bene) solo di musica non era un concetto astratto. La mia generazione si potrà fregiare in futuro del titolo dell’ultima ad avere frequentato con una certa regolarità un negozio di dischi, inteso proprio come luogo fisico, fatto di muri e mattoni, con scaffali ed espositori, e sebbene speri che questo fatto mi doni un’aria da eroe romantico, temo che mi lasci solo addosso l’odore polveroso del sopravvissuto. Ebbene, in quell’epoca, un gruppo come i canadesi We Hunt Buffalo non avrebbe avuto difficoltà a firmare per una major, e un disco come questo loro debutto, molto probabilmente, avrebbe potuto vendere diverse centinaia di migliaia di copie. Ma, come tutti sappiamo, oggi le cose sono un tantino diverse, e lavori come questi rischiano di rimanere del tutto sotterranei, anche quando avrebbero un potenziale ben diverso. Per fortuna i tentacoli del Pozzo arrivano davvero ovunque… I We Hunt Buffalo sono un power trio dei più classici, chitarra-basso-batteria, e suonano un rock saturo ma non privo di sfumature, che si colloca da qualche parte tra il grunge (qualsiasi cosa voglia dire questa abusatissima non-definizione) e lo stoner, per un risultato finale non troppo distante da quello ottenuto dai Queens of the Stone Age di "Songs for the Deaf" e i Motorpsycho di metà anni '90. Gli ingredienti sono dunque ben noti: sezione ritmica potente e precisa, con un bel basso spesso saturo e distorto, chitarre fuzz al punto giusto, e una voce convincente, che si staglia subito alta nel pezzo di apertura, “Strange Sensation”, sorta di ibrido tra Soundgarden e gli ultimi Mastodon. I tre mettono in mostra una notevole versatilità, pur nel solco dei sopra citati maestri, con un occhio sempre rivolto anche agli anni '70, e un’invidiabile vena melodica in brani come “Northern Desert” o la splendida “Digital Reich”, piccolo capolavoro di costruzione in equilibrio tra melodia e potenza, mentre “The Search” e “Someone Other” potrebbero essere uscito da qualche cassetto nascosto degli schedari di Josh Homme. Resta da dire delle interessanti derive post-rock della strumentale “Harry Barry”, posto in chiusura, e di una “21st Century Schizoid Man” dei King Crimson, suonata con tanta potenza e totale rispetto per l’originale, sulla cui utilità si potrebbe discutere, ma che non sfigura e non suona fuori posto all’interno di un lavoro coeso, solido e al quale manca pochissimo per raggiungere il livello dei modelli a cui aspira. Attesi ad una conferma, magari con un pizzico di personalità in più, ma per il momento molto, molto interessanti. (Mauro Catena)

(Self - 2012)
Voto: 75

http://wehuntbuffalo.com/

martedì 8 ottobre 2013

Luciferi – V

#PER CHI AMA: Psichedelia, Motorpsycho, Karma to Burn
Luciferi è una band parmigiana composta da tre elementi in formazione classica e tipicamente rock, basso, batteria e chitarra. La loro musica è un raccoglitore di varie tipologie sonore che ruotano attorno alla galassia del noise rock, qui proposto in veste strettamente strumentale con richiami plurimi a stoner rock, psichedelia, alternative rock. Analizzando il sound, subito ci rendiamo conto che i Luciferi non hanno tracce heavy di nessun tipo nel loro background musicale infatti, non si parla di post metal, post noise o post core ma al massimo possiamo tentare di spingerli verso il post rock (anche se sarebbe un po' come sviare i loro intenti...) ma meglio dire che i nostri vedono il rock' n roll con gli occhi dei Motorpsycho, con tanta psichedelia '60s & '70s, aperture alla Mogwai e atmosfere fumose e desertiche. Non che l'impatto sia spudoratamente desert rock ma sicuramente dei richiami cosmici ci sono. Per l'impianto a tre strumentale ricordano i Karma to Burn anche se non sono così acidi e ruspanti, possono ricordare i Jesus Lizard ma sono meno punk e più lisergici, scivolano tra le frequenze degli And You Will Know Us by the Trail of Dead ma si rendono comunque originali perchè fondono l'urgenza creativa, romantica e rumorosa dei The Pineapple Thief; infine possiamo dire che in alcune parti hanno un tocco molto carino e tutto rock alternativo italiano che si rivela sulle cadenze dei più recenti Diaframma e Marlene Kuntz. Detto questo, ci sembra ovvio pronunciare un verdetto più che favorevole nei confronti dei Luciferi. Una band con queste caratteristiche che prende spunti da così tanti modi diversi di fare musica rock e allo stesso tempo riesce a mantenere una sua peculiarità stilistica non può altro che giovare nell'abbandonato sottosuolo italico. Ricordando che "V" è un album autoprodotto e degnamente realizzato sia come suoni che come grafica dai nostri luciferini, vi invitiamo a gran voce di andare ad ascoltarlo e a farvi contagiare un bel pò... (Bob Stoner)

Trippy Wicked and the Cosmic Children of the Knight – Underground

#PER CHI AMA: Stoner, Kyuss, Monster Magnet
Una bella botta, l’impatto con questo nuovo Ep dei Trippy Wicked (non me ne vorranno i tre inglesi se abbrevio così il loro nome, con buona pace dei “bambini cosmici del cavaliere”): la title track non è altro che una vagonata di fuzz che ti spettina per lo spostamento d’aria, chitarre ribassate, andamento lento nel suo stomp pestone ma inesorabile, e la voce che disegna melodie dal sapore molto seventies, qualcosa tra i Monster Magnet e dei Kyuss meno desertici e più acidi. La successiva "Echoes Return" è un’altra colata lavica di riff assassini, nella quale è sepolta una linea vocale irresistibile stile vecchi Soundgarden (Chris Cornell darebbe un rene per poter scrivere un pezzo così, oggi). Non sono esattamente dei virtuosi, i Trippy Wicked. Il loro approccio allo strumento è molto, per così dire, sanguigno e concreto, e c’è poco spazio per le sottigliezze. Forse anche per questo, “Enlightment” e “Discovieries”, le due tracce strumentali poste al centro del lavoro e unite in una sorta di suite, paiono un tantino prolisse e fuori fuoco - al di là della bontà di certe intuizioni - come un pittore dilettante che avesse deciso di dipingere un tramonto per il quale sarebbero stati necessari colori (mezzi toni, più che altro) che attualmente mancano alla sua tavolozza. Le cose vanno decisamente meglio quando tornano a fare quello che sanno fare meglio, ovvero suonare pezzoni acidi e groovy con la manopola del volume sempre sull’11, alla maniera degli Spinal Tap, come nella conclusiva, "New Beginnings", sette minuti di stoner pesantissimo e annichilente. Lavoro nel complesso godibile e interessante. Da seguire per eventuali ed auspicabili evoluzioni future. (Mauro Catena)

(Super Hot Records - 2013)
Voto: 70

https://www.facebook.com/trippywicked

lunedì 7 ottobre 2013

Throne - Avoid The Light

#PER CHI AMA: Sludge, Stoner-doom, Spiritual Beggars, Weedeater, EyeHateGod
L'artwork di questo primo full-lenght degli italianissimi Throne prepara già al peggio: esoterismo, oscurità e magia nera si fondono per vestire un digipack ben curato. Musicalmente parlando, il quintetto si muove nelle coordinate dello sludgecore di ispirazione sudista, parecchio condito da elementi punk e metal (per intenderci: più EyeHateGod e Weedeater che Baroness) e arricchito da una voce potente come poche se ne sentono ultimamente. La medaglia d'oro per la performance va infatti alla voce di Samu: roca, profonda, violenta e oscura, dà il vero colore all'interno di ogni singolo pezzo e personalità all'intero lavoro. Ottima la prova di tutti gli altri; forse appena sottotono la batteria, che non ama grandi fantasie ma predilige il colpo sicuro e ben piazzato. C'è davvero poca luce in questo album: i riffing di chitarra sono a tratti oscuri e ridondanti fino all'ossessione ("Prefer To Die" – sentite che arpeggio in apertura, roba di prima classe –, "Black Crow", "Forsaken"), a tratti violenti e veloci accompagnati da un drumming di ispirazione hardcore ("Buried Alive", "3 Days Of Rain"); c'è qualcosa dello stoner di scuola Down e Spiritual Beggars ("Smoke-Screen", "God Sent Me To Kill You": saltate a 3:47 e gustatevi il riff più indimenticabile dell'intero lavoro). Ma c'è poco citazionismo in "Avoid The Light", tutt'altro traspare la volontà personale dei Throne, che hanno senz'altro le idee molto chiare sulla musica che vogliono proporre. Per fortuna, i Throne non cadono nel trucco di infilare qua e là delle tracce di rumori giusto per dire "Toh, facciamo pure la pissichedelia": il giochino sta iniziando a stufare. I cinque prediligono, insomma, la via dura: ogni singola traccia è un pugno in faccia all'ascoltatore, diretto, ben piazzato e senza scampo, che vi lascerà un livido per parecchio tempo.(Stefano Torregrossa)

HellLight - No God Above, No Devil Below

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Esoteric, Thergothon, Skepticism
HellLight atto terzo (per il sottoscritto), dopo le precedenti brillanti recensioni di “...and Then, the Light of Consciousness Became Hell...” e “Funeral Doom” anche se “No God Above, No Deilv Below” rappresenta in realtà la quarta release della band paulista. Da sempre fautrice di un sound claustrofobico all’insegna del funeral doom, il quartetto di San Paolo sfodera l’ennesima eccellente prova, nonostante le proibitive durate a cui, da sempre, ci sottopongono i nostri. L’album, che contiene sette tracce più un intro, affida i suoi umori subitamente alla lunga title track. La song ci lavora ai fianchi con il suo ritmo lento e ossessivo, in cui a trasudare è un profondo senso di cupa desolazione. Accanto ad una discreta robustezza delle chitarre, direi che è il lavoro alle tastiere di Rafael Sade a svolgere un ruolo di massima rilevanza. Di spessore poi la performance vocale di Fabio de Paula, sia nella veste tipicamente growl, che in quella pulita. Sottolineerei di questa traccia anche la sezione solista, in cui è sempre il buon Fabio a mettersi in luce, con una prova magistrale, quasi da famigerato top player calcistico. “Shades of Black”, cosi come pure le seguenti tracce, danno ampio spazio alla componente musicale, continuando quell’opera di ammorbamento che avevo già identificato nei precedenti lavori. Rispetto al passato, un più ampio spazio viene lasciato alle clean vocals che donano maggiore epicità al lavoro, soprattutto in rare ariose aperture, in cui il buon Fabio si lancia in cantati a squarciagola. Non ci sono sostanziali mutamenti rispetto ai precedenti lavori, il che certo non guasta, ma alla lunga rischia di stancare, se non siete proprio dei grandi fan del genere. “Unsacred” apre con un bel muro chitarristico sorretto da toccanti note di tastiera, e poi il nichilistico vocione del vocalist ci accompagna nella recondita oscurità delle tenebre. Le atmosfere si fanno ancora più rarefatte e deprimenti; un break ambient e poi un bellissimo assolo di chitarra fende le nostre teste. In “Legacy of Soul” il cantato si fa quasi sussurrato su una porzione musicale piuttosto minimalista, anche se dopo un paio di minuti l'act brasileiro rialza la testa, aggravando i toni e la componente emozionale della loro proposta. “Path Of Sorrow” è un’altra bella mazzata di puro pessimismo cosmico senza soluzione di continuità: un po’ Skepticism, Thergothon ed Esoteric, questa song incarna appieno lo spirito noir della band brasiliana. Chiudono il disco i 23 minuti del duo formato da “Beneath the Lies” e “The Ordinary Days” che ci annichiliscono definitivamente con le loro opprimenti melodie. Ancora una buona prova da parte del quartetto sud americano che da quasi vent’anni contribuisce a caricare di solitudine i nostri ascolti. Riconferma. (Francesco Scarci)

sabato 5 ottobre 2013

Arcturon – An Old Storm Brewing

#PER CHI AMA: Swedish Death, Dark Tranquillity
Ci presentano il loro secondo album i quattro giovani svizzeri degli Arcturon, lavoro immerso totalmente in quel melodic death di scuola svedese che ha fatto la fortuna di molti. L’album, in formato digipak cartonato, è composto da 11 tracce, per una durata complessiva contenuta in meno di 40 minuti. Va detto che chi scrive non è propriamente un esperto del genere, ma certi riferimenti a Dark Tranquillity ed In Flames sono di facile riconoscimento, il che non è necessariamente un male, considerando questi signori tra i padri del genere proposto. Probabilmente negli anni il filone cui attinge il gruppo, è andato via via esaurendosi, con la progressiva comparsa e moltiplicazione di numerosi ensemble musicali dediti a tali sonorità, col risultato che tantissimo è stato detto dal punto di vista musicale. Questa realtà però è riscontrabile pure in altri generi e sottogeneri, quindi probabilmente le nostre aspettative dovrebbe essere riposte in larga misura su quanto di quello che già esiste venga preso a piene mani da una band e stravolto, girato e rigirato, per tirarne fuori qualche cosa che risulti segnato dal un proprio “marchio di fabbrica”, da personalità e freschezza, che renda la proposta unica e riconoscibile. In questo i nostri danno prova di avere tutta la perizia tecnica per riuscire nello scopo, oltreché una buona dose di cattiveria e voglia di spaccare tutto, seppur senza accanirsi sulle corde e sulle pelli a casaccio, riuscendo pertanto nell’impresa di confezionare un lavoro che si fa ascoltare volentieri e che cresce ascolto dopo ascolto, in particolare per il growling di Aljosha Gasser, che in un primo momento non mi aveva particolarmente convinto. Nulla è lasciato al caso e, cosa molto importante per il sottoscritto, non vi sono punti stanchi o, peggio, morti. Validissima la sezione ritmica, batteria quadrata e basso martellante a dovere, mentre a tutto il resto pensa un’ottima chitarra, coadiuvata da inserzioni di tastiera per stemperare qua e là i toni in perfetto stile melodic. La registrazione (affidata a Jonas Kjellgren – Scar Symmetry) e la produzione sono pregevoli, voci e strumenti perfettamente riconoscibili e bilanciati. I pezzi si equivalgono in buona parte come carattere, ognuno con le sue peculiarità ed il desiderio di skippare non si avverte, il che rappresenta da sé un successo. Ad ogni modo, degne di nota vi sono la coppia iniziale composta dalla titletrack e da “The Deafening”, ottime per accendere la miccia, e la conclusiva e validissima “This is the Plan”, da cui è stato tratto anche un video. Insomma, se il primo capitolo aveva convinto, col secondo album la band riconferma e migliora quanto di buono si era prodigata ad offrirci. Unico consiglio quindi rimane il costante impegno a reinventare e rinnovare quanto già esiste in un panorama che da molti è stato definito saturo, ma non per questo incapace di riservarci gradite sosprese future. (Filippo Zanotti)

(Self - 2013)
Voto: 75

https://www.facebook.com/Arcturon

venerdì 4 ottobre 2013

Mean Messiah – Hell

#PER CHI AMA: Thrash/Death/Industrial, Nevermore, Fear Factory
Quando si dice “meglio soli che male accompagnati”…ecco, questo sembra proprio essere il caso dei Mean Messiah, progetto del musicista e produttore Dan Friml, dalla Repubblica Ceca. Il disco in questione, “Hell”, uscito lo scorso Luglio, è stato composto e suonato in tutte le sue parti dal talentuoso musicista, che sembra essere abbastanza a proprio agio a vestire i panni della “one man band” della situazione. La musica incisa si addentra in territori che appartengono al thrash-death piu’ tradizionale ma con decise virate verso elementi industrial e, spesso, verso sfumature che ricordano alcune influenze di un certo symphonic black metal (Cradle of filth e Dimmu Borgir su tutti). Limpide sono anche le affinità che si possono riscontrare verso gruppi come Fear Factory e Nevermore, il tutto condito da una buona prestazione a livello strumentale grazie alla buona performance di Dan. Il full lenght è una vera e propria mazzata assestata senza troppi fronzoli o sbrodolamenti (non troverete nemmeno un minimo accenno ad un assolo di chitarra), che rischia di far davvero male quando spinge a fondo l’acceleratore, con chitarre ultracompresse, scream vocals e pattern di doppia cassa che lasciano poco spazio a squarci melodici che, va detto, qua e là provano ad emergere dal quintale di lava incandescente che esce dalle casse dello stereo. Notevole la produzione del disco: suoni algidi, chirurgici, dal taglio netto, vestono alla perfezione il genere proposto e rappresentano il valore aggiunto del disco, che risulta a tratti, essere fin troppo monolitico; una maggiore varietà nel riffing proposto e nella velocità dei pezzi (up-tempo e blast beat si alternano rischiando di diventare troppo prevedibili) avrebbe giovato all’insieme della tracklist che comunque, rimane di buonissimo livello. La traccia d’apertura, “Temple of Hell”, si candida al titolo di highlight del disco, insidiata da vicinissimo da “The Last Ride” (in quest’ultima, si possono apprezzare passaggi di chitarra acustica e voci quasi sussurrate, davvero interessanti); plauso al talento indiscutibile del creatore/esecutore/produttore di “Hell” Dan Friml, già militante in formazioni preesistenti ai Mean Messiah (Sebastian, Apostasy), che è riuscito nell’intento di fornirci un buon prodotto, ben suonato e ben prodotto (a maggior ragione essendo un’autoproduzione) che non sfigurerebbe affatto nel catalogo di qualche label di “settore”. Obbligatorio alzare il volume…il moshpit sonoro che si scatenerà rischierà di trascinarvi all’inferno. (Claudio Catena)

(Self - 2013)
Voto: 70

http://www.meanmessiah.com/