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sabato 26 gennaio 2019

Helllight - As We Slowly Fade

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Altro ritorno storico sulle pagine del Pozzo dei Dannati per i brasiliani Helllight, band che seguiamo sin dalle origini e di cui abbiamo recensito quasi tutti gli album. Mancava a rapporto l'ultimo uscito per la Solitude Productions, 'As We Slowly Fade', un altro, l'ennesimo, monumentale lavoro dei sudamericani. Chi è appassionato di funeral doom, sa di certo di quale preziosa entità flemmatica e funerea stiamo parlando, una band che per quanto provenga dall'assolato Brasile, è in realtà portatrice di un messaggio oscuro e di morte, e per questo divenuta una dei maggiori esponenti della scena funeral mondiale. E pure questo disco, costituito da sei lunghe tracce più intro, conferma quanto di buono il trio di Sao Paolo, produca da oltre vent'anni. E allora addentriamoci nelle viscere della bestia per scoprire le affascinanti trame chitarristiche di Fabio De Paula e compagni, che già con la title track impreziosiscono questa release con lente e strazianti melodie squarciate da decadenti assoli dal sapore progressivo. I quasi 12 minuti della song scivolano via che è un piacere tra growl terrificanti e drammatiche cleaning vocals che stemperano la pesantezza delle prime, mentre la porzione ritmica si mantiene su tempi dettati al rallentatore, soprattutto nella terza disperata e disperante "While the Moon Darkens", brano lento ma dalle keys magniloquenti nella sua seconda parte, che nuovamente si fa accattivante nella sua sezione solistica, vero punto di forza del combo paulista. Qualche anno fa dicevo come gli Helllight avrebbero rappresentato il punto di riferimento del funeral in futuro, oggi posso solo confermare che i nostri abbiano raggiunto quest'invidiabile status, grazie all'ispirato lavoro di chitarre e atmosfere creato nella splendida "The Ghost", in principio dinamica, ma poi sprofondante in territori di opprimente musica funeral. Le sorprese non terminano qui dato che "Bridge Between Life and Death" e "The Land of Broken Dreams" hanno ancora da regalare due putrescenti capitoli di inquietanti sonorità d'oltretomba, sicuramente evocative a livello canoro (a me l'epica performance di Fabio piace assai) quanto nel gigioneggiare a livello chitarristico con queste ardite scale ritmiche e i continui rimandi a sonorità prog rock. L'ultima "Ocean" riserva l'ultima sorpresa nell'ascolto di 'As We Slowly Fade', ossia la presenza di una gentil donzella a prestare la propria suadente voce a duettare con Fabio (qui a tratti non troppo all'altezza, a dire il vero, complici dei rimandi inopportuni agli Arcturus) e chiudere comunque con una certa eleganza questo brillante disco, mi sa tanto, il mio preferito nella discografia degli Helllight. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2018)
Voto: 80

https://helllight.bandcamp.com/

venerdì 11 marzo 2016

HellLight - Journey Through Endless Storms

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Gli HellLight fanno parte di quella limitata schiera di band che qui nel Pozzo dei Dannati abbiamo visto nascere, crescere e divenire punto di riferimento per altre band dedite al funeral doom. Fa sempre un certo effetto sapere che l'oscuro quartetto (oggi rimasto in realtà un trio) arrivi dalla terra delle splendide spiagge e dei fenomeni del calcio, il Brasile, considerato il mortifero genere proposto. 'Journey Through Endless Storms' riprende là dove aveva lasciato 'No God Above, No Devil Below', ossia con i suoi ritmi lenti e ossessivi, carichi di cupa disperazione. Otto le tracce a disposizione per rievocare, attaverso ben ottanta estenuanti minuti, tetri presagi di oscura e lacerante decadenza. Già dall'iniziale titletrack, il terzetto di São Paulo ci delizia con marziali funebri melodie celebranti il rito della morte, sulle cui note si incrociano il growling e le clean vocals di Fabio de Paula, nonchè la delicata voce di una gentile ospite, Claudia o Ghisi (presente anche nella finale "End of Pain"). Le influenze per i nostri rimangono le stesse di sempre, con in testa i soliti Skepticism, Evoken e Thergothon, che presto verranno spodestati nel loro ruolo di punto di riferimento, proprio dagli HellLight. La musica si muove lenta e disperata come era lecito attendersi, rievocando nei momenti più incredibilmente malinconici, anche lo spettro dei Saturnus, come nel caso del lungo assolo conclusivo di "Dive in the Dark", song che peraltro vede la presenza di un altro ospite al violoncello. La pioggia continua a cadere tra un pezzo e l'altro, a testimoniare quel senso di pessimismo cosmico e profonda tristezza che intride l'album in toto. Tutti i pezzi sono ben bilanciati tra affannose chitarre profonde, e suadenti note di pianoforte. "Distant Light That Fades", nel suo nostalgico flusso sonico, mi ha richiamato addirittura la splendida e deprimente "Sear Me MCMXCIII" dei My Dying Bride dell'impareggiabile 'Turn Loose the Swans': seppur privo del violino, le emozioni strazianti che ho percepito erano molto simili a quelle della "Sposa Morente". Gli HellLight ci consegnano un nuovo capitolo della loro storia, confermandosi ancora una volta una band di eccellenza priva di macchie o passi falsi nella propria discografia, un ensemble che merita tutta la nostra stima. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 80

lunedì 7 ottobre 2013

HellLight - No God Above, No Devil Below

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Esoteric, Thergothon, Skepticism
HellLight atto terzo (per il sottoscritto), dopo le precedenti brillanti recensioni di “...and Then, the Light of Consciousness Became Hell...” e “Funeral Doom” anche se “No God Above, No Deilv Below” rappresenta in realtà la quarta release della band paulista. Da sempre fautrice di un sound claustrofobico all’insegna del funeral doom, il quartetto di San Paolo sfodera l’ennesima eccellente prova, nonostante le proibitive durate a cui, da sempre, ci sottopongono i nostri. L’album, che contiene sette tracce più un intro, affida i suoi umori subitamente alla lunga title track. La song ci lavora ai fianchi con il suo ritmo lento e ossessivo, in cui a trasudare è un profondo senso di cupa desolazione. Accanto ad una discreta robustezza delle chitarre, direi che è il lavoro alle tastiere di Rafael Sade a svolgere un ruolo di massima rilevanza. Di spessore poi la performance vocale di Fabio de Paula, sia nella veste tipicamente growl, che in quella pulita. Sottolineerei di questa traccia anche la sezione solista, in cui è sempre il buon Fabio a mettersi in luce, con una prova magistrale, quasi da famigerato top player calcistico. “Shades of Black”, cosi come pure le seguenti tracce, danno ampio spazio alla componente musicale, continuando quell’opera di ammorbamento che avevo già identificato nei precedenti lavori. Rispetto al passato, un più ampio spazio viene lasciato alle clean vocals che donano maggiore epicità al lavoro, soprattutto in rare ariose aperture, in cui il buon Fabio si lancia in cantati a squarciagola. Non ci sono sostanziali mutamenti rispetto ai precedenti lavori, il che certo non guasta, ma alla lunga rischia di stancare, se non siete proprio dei grandi fan del genere. “Unsacred” apre con un bel muro chitarristico sorretto da toccanti note di tastiera, e poi il nichilistico vocione del vocalist ci accompagna nella recondita oscurità delle tenebre. Le atmosfere si fanno ancora più rarefatte e deprimenti; un break ambient e poi un bellissimo assolo di chitarra fende le nostre teste. In “Legacy of Soul” il cantato si fa quasi sussurrato su una porzione musicale piuttosto minimalista, anche se dopo un paio di minuti l'act brasileiro rialza la testa, aggravando i toni e la componente emozionale della loro proposta. “Path Of Sorrow” è un’altra bella mazzata di puro pessimismo cosmico senza soluzione di continuità: un po’ Skepticism, Thergothon ed Esoteric, questa song incarna appieno lo spirito noir della band brasiliana. Chiudono il disco i 23 minuti del duo formato da “Beneath the Lies” e “The Ordinary Days” che ci annichiliscono definitivamente con le loro opprimenti melodie. Ancora una buona prova da parte del quartetto sud americano che da quasi vent’anni contribuisce a caricare di solitudine i nostri ascolti. Riconferma. (Francesco Scarci)

lunedì 24 settembre 2012

Helllight - Funeral Doom

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Epic, Skepticism
Ragazzi, questa è facile: che genere potranno suonare i brasiliani Helllight con un album intitolato “Funeral Doom”? Beh, se non avete sbirciato la recensione del lavoro precedente (che in realtà rappresenta il lavoro successivo, essendo questa una ristampa dell’album del 2008), credo sia piuttosto intuitivo rispondere. Si, esatto. Questi “solari” Helllight suonano per l’appunto funeral doom, nella sua accezione più cupa ed oscura. Appena infatti ho infilato il cd nel lettore, la luce del sole si è velata sotto l’incombente tenebra della notte, di quelle notti, nere come la pece, senza il bagliore della luna. I 17 minuti di “Deep Siderial Silence” hanno fatto poi tutto il resto, con quel sound lento e soffocante, che non fa altro che confermare quanto di buono già avevo sentito in “…And then, the Light of Consciousness Became Hell…”. Il sound imbastito dai nostri infatti testimonia la classe di cui sono dotati questi quattro loschi individui di San Paolo. Ma ora che una visita l’ho fatta anch’io nella enorme città sudamericana, appurando che in quattro giorni non ha mai smesso di piovere, posso capire da dove possa venire tutta questa tristezza repressa e palesata nelle note di questo doppio cd. Ah si certo non ve l’avevo detto, trattasi di 2 cd, ma parleremo a breve del secondo. La musica degli Helllight, pur essendo più nera delle tenebre, ha comunque il pregio di lanciarsi, in taluni momenti, in splendide riflessive aperture heavy rock, con degli assoli, bridge o break acustici da pelle d’oca. I riferimenti a Thergothon o Skepticism sono sempre ben evidenti nelle note del disco e nelle vocals tetre di Fabio, che trova anche modo di mettersi in mostra per l’utilizzo di vocals più evocative (ricordate “Hammerheart” dei Bathory, ebbene la title track ci regala sprazzi di quel modo di cantare unico di Quorthon). Quello che sicuramente è più difficile da digerire sono le durate: oltre ai 15 minuti di “Funeral Doom” anche “Nexus Alma” ci ammorba per altri dodici agonizzanti minuti che non fanno altro che portarmi al colmo della disperazione. La strumentale “The Diary” mi accompagna per soli quattro minuti in cui è il pianoforte ad essere protagonista. Le altre tre lunghissime song, procedono su questa linea apocalittica, offrendomi un’altra buona mezz’ora di suoni, perfetta colonna sonora per la prossima fine del mondo. Ma passiamo a quello che è il bonus cd, che oltre a racchiudere una traccia inedita (altri 12 minuti di sofferenti ambientazioni da incubo), ci regala invece sei cover. Si parte con l’eterna “Heaven and Hell” dei Black Sabbath e per questo ripenso al buon vecchio Ronnie James Dio (RIP), con quello splendido giro di basso che ancora oggi mi emoziona esageratamente. I nostri la rivisitano un pochino, rendendola un po’ più lenta (tanto per cambiare) e piazzandoci qua e là qualche growl, prima di quello che doveva essere un esplosivo finale, che qui va a rallentatore. Con “How the Gods Kill” andiamo a esplorare i Danzig, per una canzone piuttosto sonnacchiosa a dire il vero. I nostri scomodano addirittura Neil Young con la successiva “Hey Hey My My”, ma il tutto va sempre in slow motion. Slow motion che sembra funzionare alla grande invece con “Confortably Numb” (Pink Floyd), anche se sono le demoniache vocals qui a lasciarmi piuttosto perplesso, anche se l’atmosfera che creano gli Helllight è perfetta, sembra infatti una song cucita su misura per loro. Splendida performance, strumentale, interpretativa che denota una certa personalità dei nostri paulisti. “Man of Iron” palesa l’amore dei nostri per i sopracitati Bathory, nella loro versione più epica. A chiudere il disco ci pensa “The Show Must Go On”, indimenticabile traccia dei Queen, dotata di un pathos incredibile che, magari a livello vocale lascia un po’ a desiderare (Freddie Mercury era un’altra cosa), ma in cui comunque, gli Helllight mettono del loro per regalarci gli ultimi sette emozionanti minuti. Ottimo lavoro, consigliabile non solo agli amanti del funeral, ma di chiunque apprezzi pezzi dotati di un’anima, seppur assai cupa. E ora che calino pure le tenebre… (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 80

http://www.helllight-doom.com/

giovedì 17 marzo 2011

Helllight - …And then, the Light of Consciousness Became Hell…


Se fino ad oggi avete sempre associato il Brasile al gioco del calcio, belle donne, spiagge assolate o nel mondo della musica ai Sepultura o ai Sarcofago, beh da oggi, sappiate che le tenebre degli Hellligth caleranno sulla vostra testa, oscurando il sole nel cielo. Da San Paolo ecco giungere nuvole cariche di pioggia che diffonderanno la pestilenza infernale voluta da questo cupo duo. Beh se questa mia breve introduzione non vi è sembrata abbastanza chiara, stiamo parlando di un combo, giunto già al traguardo del terzo lavoro, dedito ad un funeral doom che lascia ben poco spazio a squarci di luce. E lo si capisce immediatamente con il titolo della opening track, “The Light that Brought Darkness”, della serie “Lasciate ogni speranza voi che entrate” e a ragione perché si viene immediatamente avvolti da un senso di assenza totale di ossigeno, quasi a perdere i sensi, storditi da cotanta desolazione. Sapete che cos’è la cosa meravigliosa di tutto questo fiume di tristezza che ci travolge fin da subito? Che è a dir poco incantevole, sbalorditivo per intensità, stupefacente per il suo essere cosi inatteso e imprevedibile. La russa Solitude Productions questa volta ha pescato bene dall’altra parte del mondo con una band dalla classe cristallina che conquisterà dapprima i fanatici di un genere, il funeral doom, e poi potrà a mio avviso aprire le menti di chi è cosi prevenuto nei confronti di una tipologia di sound che, all’opposta di quanto si possa credere, è in grado di regalare esaltanti momenti di musica e gli Helllight ne sono la palese dimostrazione, con un album che per quanto possa sembrare inavvicinabile, (se pensiamo ad esempio solo alle lunghissime durate dei pezzi sempre attestati sopra i 12 minuti), riesce a sorprenderci ad ogni passo. Dopo l’eccellente traccia posta in apertura, capace di regalarci con gli ultimi 5 minuti attimi di solennità profonda, con la seconda “Downfall of the Rain” ci immergiamo in sonorità grevi che trovano il loro maggior slancio nell’inserto pianistico posto a metà pezzo. Pesante e opprimente, il duo carioca lavora ai nostri fianchi con un suono al limite della legalità, fatto di chitarre possenti e ultra slow a verniciare alte montagne innevate, riff sorretti poi da un encomiabile lavoro ai synth di Fabio De Paula (sembra il nome di un giocatore di calcio del Chievo) e da un growling vigoroso che talvolta ci regala attimi di pace con un cantato pulito che mi ha rievocato il buon Alan Nemtheanga, nella sua apparizione nei nostrani Void of Silence. Menzione ulteriore ci tengo a farla per alcuni squarci chitarristici di notevole spessore e di scuola classica, che palesano anche una certa preparazione tecnica dell’act sudamericano. Citazione finale per “Children of Doom”, la mia song preferita, che probabilmente mostra il lato più “etereo” (passatemi il termine) dei nostri, ma che comunque sancisce la mia adorazione per una band di cui non ne conoscevo l’esistenze fino a ieri. Peccato infine per una pessima copertina che con la musica dei nostri ha ben poco da spartire. Comunque sublimi! (Francesco Scarci)

(Solitude Productions)
Voto: 80