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venerdì 27 settembre 2013

Taste the Void – Sun's Heat

#PER CHI AMA: Post Hardcore, Isis, Norma Jean, The Chariot
Impatto violentissimo fin dall'apertura per questa band transalpina al secondo album autoprodotto uscito nel 2012. Post-hardcore e post-metal si fondono in un connubio molto fumoso e oscuro di melodie taglienti, piene di rabbia da sfogare in litanie gridate a gran voce. Il genere intrapreso non lascia tante aperture ma l'ispirazione non manca e la band sfodera il meglio di sé. Il brano "Sun's Heat", che dona il titolo all'album, offre il combo in una veste diversa con l'atmosfera che diventa lenta e plumbea, soffocante e ricorda a nostra meraviglia certe cose scritte dai The Prunes (cult band new wave di fine anni '80/ primi anni '90) rivisitate in un'ottica moderna con suoni più potenti e metallici. Si riparte e i Taste the Void suonano con determinazione e disinvoltura mostrando una capacità emotiva che supera la sola rabbia e che impone un ascolto intenso e sofferto, un magma di crude emozioni disciolte in un mare di umori post-core. I suoni sono molto carichi, costruiti a puntino, succhiano il colore vivo delle escursioni musicali in stile Ulan Bator e li evolvono rendendoli ruvidissimi, senza disdegnare parti d'atmosfera e disegni più astratti chiesti in prestito ai migliori Isis, solo che qui, il suono è molto più vicino, caldo, passionale il che li rende molto particolari. Il duetto di "Disruption" è un manifesto che identifica le due anime dei Taste the Void, quella straziata e difesa con lancinanti urla liberatorie e l'altra molto introspettiva, sofferta e malinconica che unite ad un tocco di moderna psichedelia chiudono un disco tutto da scoprire. "Sun's Heat" è rinchiuso nel post-hardcore solo nella testa di chi li vuole catalogare, qui siamo di fronte ad una band capace di tanto altro ancora,con una visione noise che sposa le teorie degli ultimi stupendi Norma Jean e The Chariot. Un album da ascoltare e riascoltare per assorbirne tutto il suo valore, un album di una bellezza assoluta. Lode all'anima lisergica dei Taste the Void. Album da avere assolutamente! (Bob Stoner)

giovedì 26 settembre 2013

Our Ceasing Voice – That Day Last November

#PER CHI AMA: Shoegaze, Gothic, Post Rock, Pink Floyd
Non è facile cominciare a scrivere di un disco che ti è piaciuto, e non poco, e non sapere bene come inquadrarlo. Non che sia un amante della classificazione e delle etichette a tutti i costi, anzi, tutt’altro, ma davvero risulta complicato dire che musica fanno gli austriaci Our Ceasing Voice. Per ora vi basti sapere che, se siete alla ricerca di un disco perfetto per le nottate autunnali che si stanno avvicinando, beh, questo “That Day Last November” è quello che fa al caso vostro. Non è cosa semplice capire da dove cominciare per descrivere esaustivamente la musica dei quattro. Potrei cominciare dalla seconda traccia, “Until Your Chest Explodes”, una ballata solenne che ricorda vagamente “Creep” dei Radiohead nella melodia, con alla voce il cantautore statunitense Matthew Ryan, e potrei dire che si tratta di una delle migliori canzoni che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi tempi, ma è anche vero che si tratta di un’eccezione rispetto al resto del disco, caratterizzato invece dalla voce bassa e cavernosa di Reinhard Obermeir, una sorta di Roger Waters esalante l’ultimo respiro. Ecco, i Pink Floyd sono uno dei nomi ai quali il suono degli OCV richiama più di una volta, quelli iperrealisti di "The Wall" o quelli Gilmouriani e pacati di "The Division Bell", come nella splendida “One of These Nights”, dove però ad un certo punto entra un muro di chitarre shoegaze, lo stesso su cui ci eravamo infranti dopo i primi due eterei minuti di archi e tastiere nell’iniziale “Afterglow”, prima di essere trascinati da un’onda lenta di voci sovrapposte, sussurri e grida. Lungo tutto il disco si respira un’aria allo stesso tempo pacata e minacciosa, come nella notevole “What Used to Be a Battle Song”, dove la voce si fa urlata e dolente, o nell’intensissima “The Anniversary”, forse il vertice emotivo dell’intero lavoro, dove un crescendo strumentale post metal fa da sfondo per il doloroso racconto, quasi sussurrato ancora da Ryan, di un attentato terroristico vissuto da una prospettiva molto personale. Ma non c’è modo di allentare la tensione, come dimostra “The City That Once Had a Name”, che sposa ancora un lento incedere floydiano a chitarre pesanti ed un cantato strozzato e straziante. Sul filo dell’inquietudine viaggiano anche “Jaded”, tra arpeggi acustici e organi chiesastici, e la conclusiva “Like Wildfire”, che parte piano per poi tramutarsi in una cavalcata epica sorretta da stratificazioni chitarristiche. Menzione d’obbligo per una produzione scintillante, dai suoni curatissimi ma non per questo freddi, ad opera dello stesso Obermeir. Album scurissimo, come la sua copertina, ma in grado di entrarti dentro con facilità disarmante e di toccare tasti nascosti di sentimenti (troppo) a lungo sopiti. Mesmerico. (Mauro Catena)

(Frontal Noize - 2013)
Voto: 80

http://music.our-ceasing-voice.com/

mercoledì 25 settembre 2013

RuinThrone - Urban Ubris

#PER CHI AMA: Power Metal
Dal cilindro del dio del power-progressive-epic-fantasy-cyberpunk-superspadaaduemaniefucilelaser e chi più ne ha più ne metta, sbucano questi italianissimi (romani) Ruinthrone, al loro debutto con il loro primo full-lenght intitolato "Urban Ubris". Velocità, giusto groove, generosi assoli e tante belle mitragliate di chitarra praticamente in ogni pezzo, batteria precisa, tappeto sonoro di tastiera equilibrato e mai stucchevole (a ritagliarsi giusti spazi nell’opening di alcuni pezzi, per esempio), con tanto di ballata finale in stile “bardi moderni”. Fin qui note positive insomma. Va però detto anche quello che, alle orecchie di chi ascolta, risulta meno gradevole ed in particolare è la voce a non rendere al meglio nell’insieme, dando prova di adattarsi adeguatamente e risultando più espressiva nelle parti pulite, ma con un netto calo di resa laddove emerge la voglia di sporcarsi: nelle influenze della band troviamo, tra i vari, Blind Guardian e Symphony X e, non me ne voglia il volenteroso cantante, ma c’è ancora un po’ di strada da percorrere prima di destreggiarsi con assoluta noncuranza tra clean e harsh vocals. Nel complesso il disco scorre via abbastanza velocemente, senza grossi cali di tensione, ma senza far gridare al miracolo e questo, a parere di di scrive, è da attribuirsi soltanto alla scelta del genere proposto, già da parecchio tempo densamente popolato e quindi saturo di soluzioni prese, girate e rigirate in tutte le salse. Tra i pezzi del platter segnalo solamente "Another Cry" e "Chiral Twin", i cui refrain risultano di facile presa già dal primo ascolto. Nel complesso il disco è più che sufficiente, anche se piacerebbe sentire in futuro un cambio di direzione da parte di una band senz’altro di talento, magari verso lidi più personali e abbandonando la terra trita e ritrita del power metal. (Filippo Zanotti)

(Buil2kill Records - 2013)
Voto: 65

https://www.facebook.com/RuinThrone

Sleepers Awake – Transcension

#PER CHI AMA: Prog rock, Prog metal, Tool, Pain of Salvation, Bush
Secondo album autoprodotto datato 2013, per questa band americana proveniente da Cleveland. Gran bella prova, un sound senza dubbio debitore del grunge e con impasti metal progressivi melodici sulla scia di Queensryche, qualcosa dei Megadeth e ritmiche contorte in stile Tool, con un sound molto più caldo che va a ripescare trame neo prog a la Dream Theater. La timbrica del cantante e chitarrista Chris Thompson si snoda tra l'oscura intensità vocale di M. J. Keenan e la sensualità di Gavin Rossdale dei Bush e raramente si stacca da queste due icone, marchiando a fuoco lo stile della band che mostra ottime idee e talento, anche se forse manca ancora quel pizzico di originalità che li renderebbe unici. Un po' forzati risultano i growls ad affiancare il cantato, giusto per dare un tocco più metallico al tutto, comunque, nonostante questo, Mr. Thompson rimane una conferma sia come vocalist che come chitarrista. I dodici brani sono sofisticati e complessi, quasi tutti molto lunghi, frastagliati, con cambi continui di tempo e miriadi di riff che si rincorrono continuamente e che proiettano l'ascoltatore in un universo ambizioso e multidirezionale, carico di certosina perizia sonora ed altrettanta cura estetica del suono. L'album è impegnativo e molto lungo, ha il sapore di un vero e proprio concept e rincorre le vie di "Undertow" dei Tool prendendoperò nettamente le distanze dal suono freddo ed estatico della band di Keenan, ampliandone le influenze, caricando sulla componente progressiva ed il virtuosismo dei singoli musicisti. Il sound è brillante e di moderna generazione, nessuna traccia di vintage prog anni '70, anzi continuamente la band cerca di proiettarsi nel futuro sonoro di realtà esplosive come i Pain of Salvation di cui condividono l'attitudine molto rock trafitta da tanta calda e ricercata energica melodia. "Transcension" è un album ben fatto e pensato ad arte, un disco che nasconde in sé una composizione musicale nettamente al di sopra della media, un'ottima dimestichezza con gli strumenti, una grande passione, una visione introspettiva della musica e un'intensità cara ai pezzi migliori ed indimenticabili del grunge (ricordate la tensione di brani come "Machinehead" dei primi Bush?). (Bob Stoner)

martedì 24 settembre 2013

Who Dies In Siberian Slush - We Have Been Dead Since Long Ago...


#PER CHI AMA: Funeral Doom, Pantheist, Thergothon
Un nome, una garanzia. Una delle band più rappresentative della russa Solitude Productions, i Who Dies In Siberian Slush, tornano con "We Have Been Dead Since Long Ago..." un'altra opera di sofferenza e depressione, dopo il degno debut "Bitterness of the Years That Are Lost". Il suono si è evoluto, o per meglio dire, è morto nella fanghiglia siberiana dopo una quotidiana dose di vodka e droghe tagliate con il detersivo. La opener "The Day of Marvin Heemeyer" è la traccia più coinvolgente del disco, probabilmente grazie ai suoi tempi veloci e ai suoi riff oscuri, poco apprezzabile invece il flanger che incontro un paio di volte durante l'ascolto, perchè troppo invasivo, dato che non inficia solamente uno strumento, ma l'intera traccia. La parte centrale del disco rappresenta l'essenza del combo russo: troviamo tristi melodie, uptempi death metal, un diffuso minimalismo sonoro costantemente in chiave minore che esprime tutta la sofferenza del freddo boreale che ragginge il suo apice con "Funeral March N°14", composizione a dir poco estenuante che ci prepara per la chiusura di "Of Immortality", la traccia più completa del disco che equilibra tutti i particolari della band e che chiude perfettamente l'opera. In sostanza, un lavoro decisamente superiore alla media che grazie alle sue opprimenti sonorità trasmette tutto il male di vivere di questi giovani russi. Purtroppo c'è ancora qualche passo falso che compromette le potenzialità di questo lavoro per cui spero vivamente che la prossima volta i nostri riescano a confezionare un prodotto definitivo. (Kent)

Appollonia – Crimson Shades

#PER CHI AMA: Post metal Alternative, Kylesa, Neurosis, Iota
"Crimson Shades" è il terzo album autoprodotto dei francesi Apollonia. La band di Bordeaux ci porta con la sua musica in un universo pieno di costellazioni oscure da esplorare e scoprire poco a poco. Con ripetuti ascolti e massima concentrazione ci avviciniamo a questo lavoro così intrigante e tanto variegato. La prima costatazione è la preparazione tecnica della band transalpina che suona veramente bene, la seconda è che la composizione dei brani è fantasiosa ed equilibrata, frutto di numerosi ascolti che affondano nel metal alternativo e nella psichedelia pesante e non, una buona dose di Kylesa e tanto buon gusto. La parola metal restringe troppo il campo d'azione della band per poterla considerare tale; qui troviamo molto di più, dalle influenze progressive metal alla Mastodon, certa avanguardia black alla Ihsahn, l'alternative metal di Iota, una certa irriverenza alla Black Tusk e l'immancabile catastrofismo alla Neurosis. Le voci dei tre musicisti si muovono sinuose e riescono a svolgere un lavoro eccezionale nel sostenere i brani spostandosi da potenti cantati di memoria post-core ad intensi e delicati momenti di vellutato canto con richiami paisley underground di metà anni '80 che ricorda per certi aspetti i mitici Dream Syndicate rivisti e corretti seguendo sempre e comunque le coordinate della band. E così, brani come "Of Stillness and Space" o "Muninn" si vestono di caldo retro gusto psycho blues dividendo la scena con il rude approccio del post-core/metalcore in tinta progressiva. La voglia di stupire in questo album si sente, la fantasia e la passione per il rock psichedelico e il metal sperimentale si fondono alla perfezione e in "Sol" vediamo la band toccare vette di rock acustico immerso nel soul a dir poco eccelse, trafitte quando meno te lo aspetti da un'ondata lavica di metallo pesantissimo, un sound cupo e dall'aspetto atipico, un'atmosfera intellettuale, un lavoro complesso e di non immediata presa sull'ascoltatore. Nonostante ciò, l'album è un colosso sonoro di ottima fattura, dai suoni ben curati e ricercati , dall'impatto deciso e mastodontico. Così dopo i Sofy Major e i Taste the Void, dalla Francia arrivano gli Appollonia a confermare l'ottimo stato di salute dell'alternative metal transalpino. Da ascoltare attentamente. (Bob Stoner)

lunedì 23 settembre 2013

Mekigah - The Necessary Evil

#PER CHI AMA: Death Doom Atmosferico
È ancora l'enigmatico sottobosco australiano a regalarmi splendide gemme di metallo emozionale. Fucina di straordinari talenti (Ne Obliviscaris, Aquilus, Circle, tanto per citarne solo alcuni), il lontano paese oceanico mi regala la gioia dell'ascolto di questo “The Necessary Evil” degli eterei Mekigah. Splendido l'approccio darkeggiante del duo di Melbourne che con le melodie soffuse di “Burning My Wings on Your Radiance” mi conquista in una manciata di secondi. Atmosfere sinistre (vero trademark della band) mi seducono immediatamente per il loro languido avanzare, con la calda voce gotica dei due vocalist, Vis Ortis e Kryptus, nonché per il climax ascendente che fin da subito i due mastermind vanno a creare, con le vorticose chitarre che si dipanano in un affascinante crescendo di melodie e tensione. Un lungo assolo, un brivido che percorre la mia schiena, trepidanti sensazioni mi schiacciano sulla poltrona. Non so se si tratti di un intro o se realmente questa sia la musica proposta dai nostri. Chiudo gli occhi e mi immergo nell'ascolto della title track. Un urlo lontano, apparentemente malvagio, aleggia sul tappeto di tastiere, vera struttura portante del brano. I ritmi sono assopiti in un riverbero dilatato di suoni sognanti, una nenia ideale a cullarmi e farmi cadere tra le braccia di Morfeo. Ma fate attenzione perché il rischio è quello di ritrovarsi invece tra le braccia del diavolo. Ecco infatti sopraggiungere malefiche vocals che per un solo minuto mi ridestano dal sogno. Con “Bloodlust”, l'ensemble inizia a pestare sull'acceleratore spingendo la propria proposta verso lidi più black oriented anche se basta poco per ritornare sui binari, costruite però su tetre ambientazioni horror: addio alle visioni eteree dei miei sogni e spazio all'incubo, quello che attanaglia la gola, crea tensione e angoscia. Il sound dei Mekigah si rivela una macchina infernale: nebuloso (si ascolti “The Scythian Revolution”), litanico e teatrale nella sua esecuzione vocale (poco spazio viene lasciato anche allo screaming). “Galkadjama” è una lenta discesa agli inferi, mentre “Touching a Ghost” un pezzo di etereo gothic doom, un ibrido tra atmosfere alla Dead Can Dance miscelato alla disperazione dei My Dying Bride. Eccellente, non c'è che dire e i successivi pezzi ne sono la riprova: “Crossing Over...” è un pezzo black doom dall'aura mefitica, “In the City of the Blind” un intermezzo noise che ci porta all'ascolto de “Le Roi Est Mort” una vera e propria marcia funebre che richiama gli ultimi Ulver. A chiudere questo maestoso album, il cui feeling arriva a scomodare addirittura i Type'o Negative, ci pensa la strumentale “From the Grave to the Cradle”, le cui sinuose chitarre citano come influenza, i Paradise Lost. Insomma “The Necessary Evil” è un gran bel lavoro a cui siete pregati caldamente di dare una chance, una grossa chance. (Francesco Scarci)

(Self - 2012)
Voto: 80

https://www.facebook.com/Mekigah

Galaktik Cancer Squad - Ghost Light

#PER CHI AMA: Black atmosferico
La Hypnotic Dirge Records è un fiume in piena che prosegue la sua opera di reclutamento di semi-sconosciute band di talento per farle conoscere ad un pubblico più ampio. È il caso dei teutonici Galaktik Cancer Squad, one man band che sinceramente ignoravo fosse già giunta alla loro quarta release e che ho appunto scoperto grazie all'etichetta canadese. L'act germanico è dedito a un black ferale dalle vaghe tinte progressive, che già dalla prima track, mette in mostra un potenziale di fuoco pauroso. “Ethanol Nebula” è una song contraddistinta da lunghe tempestose sfuriate di colante metallo nero su cui gravano le mortifere vocals del factotum Argwohn. I brani sono tutti molto lunghi e i nove minuti di “When the Void Whispers my Name” si articolano in un’intro affidata a una spettrale e ipnotica chitarra, che poi deflagra in una minacciosa cavalcata oscura. La selvaggia irruenza del black rappresenta il vero marchio di fabbrica del combo tedesco, anche se ovviamente il tutto è agghindato da partiture più ragionate, sprazzi melodici e break acustici che riescono a spezzare quello che rischierebbe di essere il vero limite dell'album, l'eccessiva velocità. Splendido a tal proposito il finale della seconda traccia, un notturno intermezzo acustico che ristabilisce quella quiete che era stata spazzata via dalla furia belluina iniziale. Le chitarre ronzanti in stile Burzum, aprono “In Lichterlosen Weiten”, lunga suite di dodici minuti, in cui accanto alla rabbia incessante, a tratti alienante, del mastermind teutonico, si affiancano momenti di rilassatezza che mi consentono di tirare il fiato, rilassarmi sulle note più suadenti della band e poterne apprezzare al meglio suoni e sfumature, altrimenti sbaragliate dall'arroganza strumentale dell'album. E cosi non posso far altro che lasciarmi trasportare dal mid-tempo del terzo brano che offre richiami dei primi Katatonia e di altre realtà dedite a sonorità più doom oriented; decisamente la mia song preferita, forse quella più matura e varia, in cui comunque dopo la quiete, a irrompere è nuovamente la tempesta. La title track sembra più sperimentale nelle sue ritmiche e suoni: maggior spazio viene lasciato alla componente strumentale e ad un approccio meno black e più death; altrettanto lo screaming, che si fa più oscuro. Bell'esperimento. “Hypnose” è un altro quarto d'ora di pura violenza primordiale (peccato per l'uso della drum machine), per di più interamente strumentale, che viene interrotta solo al minuto 8 da un break acustico. Insomma un po' dura da digerire. Messo al muro, non ho modo di parare i colpi inferti dai Galaktik Cancer Squad. Ko tecnico. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2013)
Voto: 70

https://www.facebook.com/GalaktikCancerSquad