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giovedì 13 dicembre 2012

Huldra - Monuments Monolith

#PER CHI AMA: Post Metal, Psichedelia, Isis
Gli Huldra sono ormai alla stregua di amici per il sottoscritto: li ho conosciuti ed imparati ad apprezzare un anno fa, con il loro EP “Signals from the Void”. Li ho incontrati nuovamente con lo split cd, condiviso con i Dustbloom, la scorsa estate ed ora, alla vigilia del loro debutto ufficiale, la band mi contatta, offrendomi la possibilità di recensire in anteprima il nuovo disco, in uscita a metà gennaio. Che dire, se non esserne onorato; ma so già che la band di Salt Lake City non mi deluderà, perché finora non l’ha mai fatto. E difatti, quando faccio partire “Monuments”, vengo investito dal suadente e possente post metal del quintetto proveniente dalla capitale dello Utah. Lento come il mare magmatico che si muove silenzioso dal cono vulcanico, la musica del five-piece statunitense mi prende immediatamente con il suo fare ipnotico e ben strutturato. Ma si tratta di un pezzo breve, sui quattro minuti, che scivola via veloce e mi lascia li per li dubbioso, se qualcosa sia nel frattempo cambiata in casa Huldra. Quando parte “Twisted Tongues and Gnarled Roots”, e i suoi oscuri otto minuti mi cullano deliziosamente, mi rendo conto che il combo statunitense ha solo affinato (e notevolmente) la propria proposta: la band ha sì preso le distanze dal sound granitico e dirompente dei maestri Neurosis, e ne ha acuito la componente onirica che già si andava delineando nell’ultimo split cd. Musicalmente mostruosi, e al contempo sontuosi, gli Huldra mostrano la loro originalità con un break psichedelico che avrebbe ben figurato in “Panopticon” degli Isis. Le vocals di Matt poi sono sempre molto pacate nella sua forma pulita, anche se qualche bel growl cavernoso non ce lo fa certo mancare. “Noctua” è un interludio ambient che apre a “Ursidae” e ai suoi dodici minuti di suoni caldi e magnetici. Lo spettro dei gods di Boston aleggia ancora nell’aere, ma d’altro canto era indispensabile trovare dei degni eredi di A. Turner e soci, e a mio avviso, gli Huldra si candidano fortemente a raccogliere lo scettro lasciato vacante. Con somma predilezione per suggestioni strumentali figlie del post rock, incantate parti d’atmosfera e fantastiche aperture ariose, i nostri relegano le parti vocali ad una minima parte nell’economia dei brani. Chiaro che la band del west non si è rincitrullita del tutto, ha mollato gli ormeggi e si è messa a suonare ninne nanne per bambini; quando “Thousands of Eyes” esplode nel mio stereo, godo che è un piacere. Il riffing robusto ed ondeggiante dell’act torna a sibilare tra la sabbia, in un vorticoso andirivieni ritmico, dall’incedere compassato ed ubriacante. Chiudo gli occhi e provo a vedere se sono in grado di rimanere in piedi senza barcollare, ma ahimè non posso far altro che crollare al tappeto, stordito dai colpi all’insegna di un trip delirante, a cui la band mi ha avviato. L’ensemble nord americano ha compiuto passi da gigante negli ultimi mesi, e quindi tutto appare estremamente elegante e degno di una big band. “As Above, So Below” o la conclusiva “The City in the Sky” rappresentano altri grandi pezzi che confermano le mie parole e che mostrano quanta classe, si propaghi armoniosamente dagli strumenti di questi cinque ragazzi. La verve, il sound carico di groove, il pathos che gli Huldra emanano, è cosa rara e preziosa, e questo “Monuments Monolith” alla fine, mi ha prodotto lo stesso impatto emotivo che grandi album del passato (e cito nuovamente e non a caso “Panopticon”) hanno avuto sulla mia crescita musicale. Non esagero troppo col voto, per non ritrovarmi magari fra un anno, a dover rivedere le mie scale valutative. Comunque sublimi. (Francesco Scarci)

martedì 11 dicembre 2012

Subterranean Disposition - Subterranean Disposition

#PER CHI AMA: Death/Doom, My Dying Bride
Se non fosse uscito un mese fa il nuovo album dei My Dying Bride, avrei potuto confondere l’omonimo debut dei Subterranean Disposition, come la nuova release dei gods inglesi. E invece, eccola arrivare la nuova, ennesima, one man band dall’Australia, (e quest’anno abbiamo superato ogni record), a rilasciare questo five-tracks di quasi 55 minuti. Terry Vainoras, l’architetto dietro a tutto ciò, non è di certo uno sprovveduto, avendo militato tra gli altri in Cryptal Darkness, The Eternal ed Insomnius Dei, tutte formazioni che nell’underground death doom, hanno avuto un più che discreto eco. Dopo essersi accasato all’Hypnotic Dirge Records, ecco giungere il primo lavoro che si apre con i versi di scimmie impazzite. Non a caso la prima lugubre traccia, si intitola “Between Apes and Angel” e i suoi quasi dieci minuti confermano la pesantezza di un suono all’insegna del death doom britannico, che segna come punto di interesse la metà della traccia, dove alla voce compare il clone del vocalist dei My Dying Bride che immediatamente mi spinge a verificare nel booklet, che non ci sia proprio Aaron Stainthorpe, in qualità di guest vocalist. Niente da fare, gli ospiti si limitano alla presenza alla voce di Phoebe Pinnock (una sorta di Bjork) in “Prolong this Agony” e “Wailing my Keen” e D’arcy Molan, sassofonista in “The Most Subtle of Storms”, ma di Aaron nessuna traccia. E allora deve essere per forza il bravo Terry a modulare la voce come lo straziante vocalist inglese. Per ciò che concerne la musica invece, siamo ancora in una fase piuttosto embrionale a livello di ritmiche, ancora evidentemente troppo legate agli stilemi classici di un genere, che pecca di un immobilismo e rigore assoluto. Ci sono tuttavia vari tentativi di donare un pizzico di originalità al prodotto, con l’inserto femminile di Phoebe alla voce nelle due song sopra menzionate, che acquisiscono un che di stravagante, quasi avanguardistico, anche se poi non mancano le consuete aperture acustiche, su cui si andranno ovviamente a stagliare le voci growl ed una ritmica bella tosta. Non è certo facile trovare delle nuove soluzioni ad un genere che non ha la benché minima voglia di evolversi. Eppure il buon Terry, talvolta mi dà l’idea di volerci provare, lanciando, accanto ad incursioni chitarristiche non del tutto originali, ma palesemente influenzate dai suoni della terra d’Albione, altre trovate che invece parrebbero proprio il desiderio di prendere le distanze dal genere, come l’incedere asfissiante simil industriale/marziale di “Seven Sisters of Sleep”. Superati i minuti di angoscia e quel forte senso di claustrofobia della precedente traccia, mi accingo ad ascoltare quella song per cui nutrivo un certo interesse per la presenza del sax. A parte l’ennesimo avanzare inquietante, tra vocals che passano con estrema disinvoltura, dal growl allo scream ed infine al tetro clean, e con i suoni costantemente pregni di un feeling degni del teatro dell’horror, arrivo finalmente a gustarmi lo squarcio malvagio del sax in una notte di luna piena. Brividi. Brividi che percorrono le mie braccia per uno dei break più belli che abbia mai sentito. Dicevo io che il buon Terry voleva provarci a differenziarsi dalla massa abnorme di band che affollano il marasma doom/funeral, peccato solo che la divagazione non sia stata certo tra le più lunghe. Quel che è positivo è senza dubbio che le premesse per un miglioramento, per trovare e tracciare nuovi sentieri ci siano, per non rimanere bloccati in quell’immobilismo di cui parlavo poc’anzi. Sicuramente si poteva fare a meno degli ultimi quattro minuti della song, fatta di suoni marini. A chiudere l’album ci pensa la sorprendente e quasi “tooliana” “Wailing my Keen”, in cui ricompare la brava Phoebe accanto all’eccelsa voce di Terry, che qui supera se stesso… Insomma, questo primo capitolo dei Subterranean Disposition, non è cosi facile da digerire, ma quando anche voi, avrete metabolizzato i suoni qui contenuti, non potrete che rimanerne più che soddisfatti. Da tenere sotto traccia oculatamente… (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records)
Voto: 70

https://www.facebook.com/SubterraneanDisposition

Amber Tears - Revelation Renounced

PER CHI AMA: Death/Doom Folk, My Dying Bride, Amorphis
In casa Solitude e co. pare sia venuta di moda la ristampa dei vecchi album delle band sotto contratto, cosi dopo gli Inborn Suffering, è il turno degli Amber Tears, vedere il proprio debut ristampato. Questo sestetto russo lo avevamo già incontrato lo scorso anno in occasione dell’uscita di ”Key to December”, indicato dal sottoscritto come un surrogato, di certo non spiacevole, dei vecchi classici Anathema e My Dying Bride, riletti in chiave folk. Questo nuovo vecchio lavoro si apre ancora una volta in modo folkish, con tanto di epiche cornamuse che predispongono il campo a “Through Autumnal Rain”, e proprio come suggerisce il titolo, ci troviamo al cospetto di un sound che affonda le proprie radici nell’autunnale poesia del death doom, ma che vede tuttavia affiorare anche stralci di musica folk scandinava (chissà perché nelle orecchie mi sovviene il nome Amorphis) ed un assolo che pare preso in prestito da “A Deeper Kind of Slumber” dei Tiamat. Un po’ onirici, un po’ pagani, assai melodici e di certo atmosferici, gli Amber Tears degli esordi, appaiono in una versione decisamente più edulcorata e quasi più originale, rispetto a quelli che mi avevano comunque divertito lo scorso anno. Vorrei nuovamente sottolineare che fra le mani non abbiamo chissà quale disco geniale, certo è che il death gothic doom, intriso di folk degli Amber Tears, è tremendamente palpabile anche in “Leaving the Tears” e alla fine dei conti, risulterà anche assolutamente efficace. Il vocalist si conferma bravo nel districarsi tra il classico cantato growl e delicati passaggi narrati (scuola Saturnus); e non posso poi non menzionare la sezione strumentale, che si mette in luce per azzeccatissimi assoli ed una ritmica, che per una volta, non potrò accusare di essere pesante o furibonda, spesso responsabile nel soggiogare la nostra attenzione con tutta la propria dirompente noia. Sulla base di quanto ascoltato sin qui e dei successivi passaggi acustici, che alla fine ho incontrato nel corso dei 56 minuti di questo album, per gli eccessi folk (forse in questo disco addirittura straripanti), non posso che suggerire l’ascolto di “Revelation Renounced”, come base di partenza per la scoperta degli amici russi degli Amber Tears. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 75

http://www.myspace.com/ambertearsband

Tesa - IV

#PER CHI AMA: Post Metal, Neurosis
La storia di questo cd è piuttosto particolare: mi sono recato in Lettonia per lavoro, ho fatto il mio consueto salto in un negozietto di dischi, ho trovato la nuova release dei lettoni Tesa e l’ho acquistata. Come da mio rito personale, non ho aperto il cd fino al mio arrivo a casa, per potermi gustare in tutta intimità il lavoro dei nostri, ma quando ho tolto il cellophane dal digipack, ecco la tremenda scoperta: il cd era spezzato in due. Che giramento di palle, non avete idea. Ho immediatamente contattato l’etichetta discografica, non tanto per farmi rimborsare il disco (che c’entrano loro?), ma per farmi inviare una copia promozionale, da poter recensire. Ed ecco fatto: cd ricevuto qualche giorno fa, già gira nel mio lettore, e sfruttando la mia fastidiosissima influenza stagionale, mi ritrovo quasi immediatamente a scrivere di questa release. Al solito, i Tesa saranno sconosciuti alla stragrande maggioranza dei lettori, quindi partiamo immediatamente dal genere proposto: post metal. Quindi tutti gli amanti di simili sonorità, alzino le orecchie, lascino perdere per un po’ i vari Neurosis, Isis e compagnia bella e si concentrino su questi sconosciutissimi ragazzi, che meritano assolutamente la vostra attenzione. Aboliti i titoli (che servono d’altro canto?), la prima traccia mette in mostra immediatamente i muscoli, la classe e la vena creativa di questo combo baltico. Se proprio devo trovare dei punti di contatto con realtà più famose, solo per darvi qualche riferimento, citerei i sempre presenti Neurosis, per la rarefazione delle atmosfere, l’incedere pachidermico, e quella capacità che solo la band di Oakland, ha nel creare attimi di trepidante sospensione… solo fino ad oggi però, perché gli amici della piccola repubblica baltica, stupiscono che è un piacere, con il loro sound intellettualoide e raffinato, in cui l’unica cosa a mancare di raffinatezza è la voce, difficilmente intellegibile e posta in sottofondo. La seconda traccia è più ambientale rispetto alla opening track, ma possiede un feeling mortifero, complice anche un sound piuttosto impastato. Tuttavia è splendida. E ora la montagna più alta da scalare, visti i 18 minuti abbondanti della terza song. Prendo la mia bombola d’ossigeno e mi appresto a raggiungere vette elevate ed inesplorate, in cui sono certo, di elementi vitali ce ne saranno gran pochi. E infatti non mi sbagliavo. Dopo soli tre minuti ho bisogno di rifiatare, quasi mi trovassi a sei mila metri d’altitudine, dove mancano le forze e la testa gira che è un piacere. Dopo sei minuti ne sento già i benefici, ma probabilmente perché il sound dei Tesa è mutato dal claustrofobico ad una forma un po’ più solare di oscurità (è un semplice eufemismo, tranquilli). L’avanzare della band è al solito ipnotico, psichedelico, lisergico, tutti vocaboli spesi centinaia di volte per descrivere il lento marciare minaccioso, di un esercito che muove a guerra in un campo di battaglia. L’effetto è sontuoso, da brividi, sicuramente merito anche di una tecnica individuale sopraffina e di un sound ricco di pathos e verve, che mi fa gridare al miracolo. Se tutti stavano aspettando la nuova release dei Neurosis e tanti ne sono rimasti delusi, forse virare il tiro ai Tesa, potrebbe essere la giusta soluzione, per placare gli animi e addolcire la frustrazione. Monolitici e dirompenti. (Francesco Scarci)

(Old Skool Kids Records)
Voto: 80

http://www.myspace.com/tesaband

Spylown - Depth

#PER CHI AMA: Industrial Grind, Breech, Helmet, Treponem Pal, Godflesh
Gli Spylown vengono dalla Svizzera e portano una sana ventata di concentrata rabbia, con questo cd davvero ben fatto, dal titolo "Depht". La copertina è ben curata e si sgretola tra frammenti di foto di ingranaggi e tubi, per cogliere la fine di una nave da guerra colpita ed in procinto di affondare. Essa ben rappresenta la musica robotica, granitica e molto industrial/hypnotic oriented del combo elvetico. Il sound è sicuramente da categorizzare come una via di mezzo tra post hardcore, Isis style e hardcore di matrice Architects/Confide, con un po’ meno cantati puliti, ma dalle infinite colorazioni e derivazioni dai generi metal e grind. Un’impostazione hardcore alla Botch, una passione per l'esecuzione fredda dei brani in stile Meshuggah, ma senza gli iper tecnicismi dei gods svedesi, un solido background noise/grind/industriale, cadenze ipnotiche date da un mid-tempo di metallo pesantissimo e psichedelico, nessun un attimo di respiro, ma con un sound compatto e con varianti centellinate a misura e ben calibrate. Ho notato che sulla rete qualche critica gli Spylown con questo album l'hanno dovuta affrontare, ma noi ci schieriamo con la band, perché non condividiamo l'idea che questa band sia un clone mal riuscito dei Dillinger Escape Plan (e dire che noi siamo anche grandi fan dei Dillinger!), anzi siamo convinti che le radici della loro musica si debbano cercare dentro il sound di altre grandi act, ora dimenticati, degli anni novanta, come Helmet, Breech, Godflesh, Treponem Pal, a cui i nostri devono tantissimo e che con grande tenacia, dimostrano di esserne degni prosecutori. Forse oggi gli Spylown non sono una novità per chi ha amato quell’ondata alternativa, che cercava di contrastare l'avanzata del grunge, in un momento in cui il metal era decaduto nel dimenticatoio totale e nemmeno risulteranno all'ultimo grido per chi ama band giovani e ruspanti come i Bring Me the Horizon, ma ciò non toglie che "Depth" sia un ottimo lavoro potentissimo, coinvolgente, aspro e urticante, sicuramente con uno sguardo al retrò di quegli anni ma anche con la voglia di fare, di chi non ha limiti temporali e guarda al futuro e con un piglio di malessere esistenziale notevole, incarnato nella possente prestazione vocale. Un modo di intendere il metal estremo diverso dagli altri, con l'ira dei Clinging to the Trees of a Forest Fire, contaminato da diversi sottogeneri della musica dura di diverse annate e provenienze, un velo industriale, un amore per i Napalm Death e tanta forza d'urto. Sicuramente un album da amare. (Bob Stoner)

The Horn - Volume Ten

#PER CHI AMA: Black/Industrial
The Horn's A D MacHine è la mente che si cela dietro questo ambizioso progetto, la classica one man band, che ancora volta giunge dall’Australia; non stiamo certo parlando di un tizio di “primo pelo”, che la mattina si è svegliato e ha pensato di mettere in musica le sue deliranti visioni sull’antico Egitto. The Horn infatti giunge con questa release al traguardo dell’undicesimo lavoro (deve essersi un po’ incasinato, avendo fatto uscire nel 2011 il “Vol. 11” e nel 2012 il “Vol.10”). Lo Stargate si apre e io vengo proiettato, come nell’omonimo film, su un altro pianeta, altamente civilizzato, ma dove il popolo adora ancora le divinità nelle piramidi, intese qui come luogo di culto, distribuite su tutto il globo. I suoni che sento sono strani, ovviamente di origine aliena e a cui il mio orecchio non è decisamente abituato, anche se tra le linee delle feroci ritmiche extraterrestri, si insinuano melodie che sembrano derivare dalla antica tradizione araba, tanto da indurre il nostro eroe a definire il proprio sound come “Pure Ancient Occult Egyptian Space Metal”. “Spell 124” è una traccia di black industriale, ipnotica e malata, che si inocula nel mio sangue in modo pericoloso, con il vocalist che sembra aver assunto le sembianze vocali di un Predator. Una danza tribale esordisce in “Spell 47”, poi solo delirio sonoro, con suoni che non avevo mai udito sul mio pianeta, ma magari in questo nuovo mondo che sto esplorando, ne rappresentano la consuetudine. Il black noise che qui si scatena, ha un effetto intimorente. Un coro ritualistico alieno domina “Spell 146”; sinceramente non riesco a decodificare la nuova lingua antica, ma il ritmo ha un che di esoterico. Con “Spell 26” ci addentriamo in territori ambient/drone mentre con la successiva magia, torniamo ad esplorare nuove terre, nuovi paesi, che assumono sempre di più i connotati medio orientali, per suoni, colori e profumi; e ancora una volta ho la sensazione di essermi perso in un qualche suk di una qualsiasi città araba e ne approfitto per assaporarne ogni sfaccettatura. Ma una nuova tempesta magnetica è già pronta a scatenarsi sopra la mia testa, con un fragore ed una violenza inaudite, accompagnate da belluine vocals inumane. Sono terrorizzato e scappo, passando attraverso il Portale, pronto a chiudersi, per poter finalmente ritornare sul mio amato pianeta. Ma quando passo al di là di esso, mi ritrovo catapultato nel passato, con un sound che sembra un mix tra rock’n roll, black metal e funeral doom. Sono confuso, non capisco dove sia finito e se riuscirò a far mai ritorno a casa. Nel frattempo mi lascio conquistare dalla mitologia, dalla storia e dalle forze occulte che guidano quest’opera, e dal desiderio del factotum The Horn, di mettere in musica, l’intero “Ancient Egyptian Book of The Dead” di R.O. Faulkner. Appare come un progetto ambizioso, ma al momento i The Horn sembrano essere sulla strada giusta con questa delirante composizione di black industriale, ambient, noise e drone, di non facile accessibilità, ma assai affascinante. Provate anche voi a lanciarvi nello Stargate e vedere in quale dei mille universi paralleli andrete a finire… (Francesco Scarci)

(Shaytan Productions)
Voto: 70

http://www.myspace.com/thehornproject

domenica 9 dicembre 2012

Nargis - Was Lange Lag Im Dunkeln...

#PER CHI AMA: Black, Altar of Plagues, Nachtmystium, Saattue
Dalla Germania ci arriva questo album uscito per la Lycaner Records, in una produzione limitata di 500 copie cariche di odio e ortodossa fede anticristiana, come lascia ben travisare la croce rovesciata impressa nel logo con cui la band si presenta. Questo full lenght è il primo per i Nargis e segue un precedente demo dal titolo “Triumph des Zons”, del 2009. La band è attiva dal 2008 e propone un black metal dalle tinte oltranziste e in mille sfumature di nero. Dei Nargis ci sono poche informazioni sul web e dalla traduzione del titolo che più o meno è “Ciò che a lungo giaceva nel buio...” e dei titoli dei singoli brani, subito ci si rende conto che abbiamo a che fare con una band volta a riportare in musica una forma poetico-teatrale di temi legati alla solitudine e all'oscurità, alla visione nordica, pagana e nichilista della vita. La musica ha mille sfaccettature, tutte intente a mostrare i tanti volti dell'oscurità, pertanto si passa da momenti ferali e violentissimi, a strutture doom che sfiorano l'ambient, ma sempre deprivate dell'uso di suoni esterni o tastiere (nessuna tendenza symphonic metal, non temete), quindi il tutto risulta musicalmente molto interessante ed alternativo, un modo diverso, moderno ed in evoluzione di intendere questa forma di disciplina metallifera. I Nargis ricordano, pur mantenendo una propria originalità, gruppi come Altar of Plagues, Nachtmystium, Saattue, estendendo ampiamente la durata delle loro composizioni, tanto che alcuni brani superano la soglia dei 12 minuti. Si tratta di suite sonore molto interessanti con una verve doom/psichedelica che si presta bene ad un certo alternative metal e un attacco diretto e cerebrale nelle parti più dure. Di questo album però bisogna capirne anche la componente psichica, per poterlo meglio apprezzare e questa componente risulta alla fine determinante per il suo ascolto. Il non cogliere questo fattore emotivo potrebbe infatti condizionare l'ascoltatore ad un giudizio troppo affrettato, inducendolo a cestinare prematuramente questa release. I brani infatti sono resi taglienti e poco socievoli da un uso molto violento dello screaming, che a volte può risultare leggermente oppressivo e monotono, un soffio in più di fantasia nella performance vocale e tutto sarebbe stato da incorniciare. Il risultato comunque c'è ed è buono, musicalmente si mostra attraente, anche se stiamo parlando di un viaggio molto duro ed aspro nei meandri di una spiritualità oscura, un disco da ascoltare in solitudine ed in particolari condizioni mentali... preparatevi ad aprire le porte dell'inferno! (Bob Stoner)

(Lycaner Records)
Voto: 70

https://www.facebook.com/nargis666

venerdì 7 dicembre 2012

Asidefromaday - Chasing Shadows

#PER CHI AMA: Post Metal, Neurosis, Cult of Luna
Continua l’ondata violenta di band post ad abbattersi inesorabile come un distruttivo tsunami che si schianta contro le coste del Giappone. Lo so, è una brutta immagine che noi tutti non vorremo più vedere alla televisione, però questo è per giustificare l’avanzata e il successo inatteso che questo genere sta riscuotendo nell’ultimo periodo. Non so se sia realmente solo merito della popolarità e dei riconoscimenti che hanno visto bands affermarsi quali Neurosis e Isis negli States, ed in Europa, The Ocean o Cult of Luna ed andando più nel dettaglio, General Lee e Dirge in Francia. E ora anche questi Asidefromaday, che come il più banale dei fulmini a ciel sereno, mi ha scosso le membra, con il nuovo “Chasing Shadows”, già terzo album all’attivo per la band transalpina, ma dove diavolo ho tenuto gli occhi fino ad oggi? Ma che lavoro signori miei… Sette tenebrose tracce di metal post apocalittico che si aprono con la fitta nebbia di “Process of Static Movement”, quella foschia che sembra attanagliare i porti in pieno autunno. Quindi atmosfera è la parola d’ordine, quella che questi cinque bravi ragazzi costruiscono sin dall’opening track. C’è poca voglia di scherzare in questa traccia dal crescere minaccioso, con la voce di Fred ad incanalare l’irruenza del combo, senza nulla togliere a Julien, Nicolas e David, rispettivamente batteria, chitarra e basso dei nostri. Non mi sono dimenticato di Sébastien, il tastierista, ma ho conservato una menzione alla fine per lui, in quanto con i suoni angoscianti delle keys, tiene sulle spine l’ascoltatore, in uno stato di ansia continua. Poco importa poi se le tracce si chiamano “Death, Ruins and Corpses”, “Black Sun” o quant’altro, ciò che convince appieno in questa release è la capacità dei nostri di tenerci col fiato sospeso, senza mai cadere nel banale, offrendo una prova davvero superlativa. Ottime le melodie, i giri sulfurei di chitarra e ancora una volta, mi preme sottolineare il fattore “K”, ossia quel lavoro egregio, tenuto costantemente in secondo piano, che il buon Séb, effettua per tutta la durata del cd, anche nel modo più banale, quando ad esempio apre “Wolf Tears are Falling Stars”, song peraltro da brividi, in cui la chitarra ha un effetto raramente sentito, che ben si amalgama con il tocco suadente delle tastiere, a creare una circonvoluzione spazio-temporale, che inevitabilmente induce il mal di testa. Prezioso il contributo vocale del buon Fred, che cercando un po’ di emulare i suoi idoli (Neurosis e Cult of Luna) e mettendo poi ampiamente del suo, con vocalizzi che dall’acido (con una impostazione talvolta post-hardcore) arrivano anche in una forma pulita/parlata, contribuisce ad accrescere ulteriormente il livello di un lavoro che mai mi sarei immaginato di ascoltare. Cosi come mai avrei immaginato di provare simili emozioni, grazie ad un lavoro di squadra cosi genuino che ci prende e sbatte a destra e manca, con un sound che poco ha da invidiare ai gods mondiali: suoni glaciali, ma al contempo caldi, melmosi e affabili, che un po’ come sulle montagne russe, mi inducono pesanti sbalzi pressori. Insomma, avrete intuito che “Chasing Shadows” mi ha proprio colpito (ed affondato), intrappolando i meandri della mia mente nella paurosa matrice creata da questi indomiti musicisti. Ottimo comeback discografico! (Francesco Scarci)

mercoledì 5 dicembre 2012

Narrow House - A Key To Panngrieb

PER CHI AMA: Funeral Doom, Thergothon, Unholy
“Una chiave per Panngrieb”. Un occhio, una serratura e delle mine sono inserite, in uno stile surreale in una gamma di colorazione opaca e infelice. Si scaglia subito contro gli organi visivi, il curioso artwork in stile krautrock, utilizzato per presentare questo debut album dei Narrow House, band ucraina proveniente da Kiev. Quattro tracce di puro funeral doom, ci cullano dolcemente per tre quarti d'ora facendoci riprendere speranza nella immensa ma stagnante situazione del doom estremo dell'est Europa. La prima cosa che mi fa alterare immediatamente è però la completa impostazione del booklet in cirillico, come faccio a leggermi i testi e tutte le altre cose inutili, se non riesco neppure a decodificare la scrittura? Io voglio bene alla Solitude Production ma non può giocarmi questi scherzi. Il fatto è che non ho ancora capito cosa sia codesta Panngrieb, non so voi ma io la notte non dormo. Oltre a ciò, un'altra cosa che non mi sta proprio a genio è la cover degli Esoteric nel finale; apprezzo l'aria di gioventù del gruppo che vuole rinnovare l'ambiente con una cover, ma nel funeral doom non ho un buon occhio per questa cosa, soprattutto se occupa quasi un terzo dell'opera. Biricchini questi “Casa Stretta”, perché non disdegno tanto la cover ma identifico ciò, come voglia di non creare una traccia propria e quindi di disimpegno. Ad ogni modo, ascolto dopo ascolto sono sempre più soddisfatto di questo full length perché denota un notevole sviluppo dal genere classico, un po' come stanno facendo gli Ea, e difatti alcuni studiosi del generi stanno identificando (ed etichettando) questi nuovi lavori come atmospheric funeral doom. Il suono è calibrato in modo da risultare ampio per far respirare completamente ogni momento dell'opera, con i volumi non eccessivi per permettere di godere della dinamica nei vari cambiamenti d'atmosfera. I Narrow House potrebbero essere dei validi capofila di un nuovo movimento doom. (Kent)

(Solitude Productions)
Voto: 70

http://narrowhouse.bandcamp.com/