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lunedì 22 ottobre 2012

Spires - Spiral Of Ascension

#PER CHI AMA: Progressive Metal, Dream Theater, Pain Of Salvation, Symphony X
La prima cosa che mi è venuta in mente appena ho ascoltato questo disco è: "no, ti prego no, non un'altra band con quei maledetti suoni alla Dream Theater". Ma le mie preghiere non sono state esaudite. Gli Spires sono una band prog da Manchester e giungono nel 2010 al loro debutto con "Spiral Of Ascension". Anche se nel disco possiamo trovare varie parti in growl e pestate, non possiamo ricondurre le sonorità dell’act inglese verso un prog death, difatti non ho citato Opeth, Cynic e compagnia. Si denotano le influenze di questi, ma non si è riusciti a raggiungere una alchimia tale da fondere i due generi, anche perché l'attitudine di un prog metal più classico emerge in ogni singola composizione, nei suoni, nella struttura e nel songwriting. Mi dispiace ma il tentativo di mascherarlo per musica moderna è fallito. Poco originale e prolissa, questa pubblicazione sfida la mia pazienza, rallegrandomi solo all'udire qualche intermezzo o parte particolare. Il materiale di per sé non è pacchiano o di scarsa qualità, anzi il gruppo inglese ha una tecnica invidiabile soprattutto chitarristica e vocale, ma il problema è che ci sono troppi cliché del genere, che uniti al miscuglio death metal non fanno altro che peggiorare la situazione. Il loro sito dice che hanno pubblicato un album acustico, rimango in attesa di una loro pubblicazione dove regni una maggiore personalità e che non mi faccia continuamente ricondurre ad altre band. (Kent)

(Self) 
Voto: 65

Absynth Aura - Unbreakable

#PER CHI AMA: Gothic Rock, Lacuna Coil
Di questa band poco si conosce: si sa che sono modenesi, che questo è il loro primo LP, uscito nell’ottobre 2011, e che all’inizio di quest’anno sono stati in tour con gli Arthemis. Tutte le loro piattaforme si fermano tra la fine 2011 e gli inizi 2012: spero pertanto, aggiornino presto il tutto con qualche nuovo lavoro in cantiere. La prima cosa che risulta evidente è la loro forte somiglianza ai Lacuna Coil, soprattutto nella voce di Claudia Saliva: giusto un pizzico più acuta, ma incredibilmente simile a quella di Cristina Scabbia, il che lo rende il loro punto di forza. Il sound di “Believe Me” è incisivo, energico e ritmato: ti porta addirittura a ballarlo in certi momenti. La voce di Claudia, come già detto, è aggressiva e dolce al tempo stesso. “Desert Flower” tende ad essere più trattenuta: la voce si sposta di un gradino verso il basso, diventando più suadente, mentre il ritmo rimane comunque incalzante, sebbene più rallentato e spostato in sottofondo. Degno di nota è l’assolo di chitarra e la tastiera, fulcro di questa traccia: ne risulta una parentesi grintosa, che equilibra i due opposti. “That’s Why You Die” ha un inizio melodico, che accompagna silenziosamente la voce arrabbiata ed acuta, senza però mai sovrastarla: probabilmente un punto negativo, poiché le reali potenzialità non riescono a emergere in toto. “Smile” potrebbe essere definita la tipica “botta di zucchero”: qui emerge tutta la vena pop dei nostri, dove le immagini che mi si figurano nella mente sono fiori colorati, prati verdi, sole splendente e colori sgargianti (un po’ distante dai miei gusti, ecco), ideale per le feste di compleanno. Fortunatamente i toni cambiano in meglio con “Understand my Fight”: ritmo prepotente, voce portata all’estremo e chitarre al loro (quasi) apice. Una boccata d’ossigeno per gli amanti del rock. Da notare il finale, dove la batteria riesce a trovare un po’ di sfogo. Tutto si può dire di questo album, ma non che sia ripetitivo: “Looking for the One” è la tipica ballad romantica, dove la voce si fonde con il pianoforte quasi in stile unplugged. Il risultato è la seconda traccia calma e pacata di questo lavoro. Giriamo pagina con “Life”: chitarra, tastiera e basso si uniscono formando un flusso di note vigoroso che risveglia dal brano precedente. Addirittura questa traccia presenta alla voce, Fabio Dessi degli Arthemis, dando una nota più metallara alla song. “The Fire in My Eyes” cerca di proseguire sul sentiero battuto con la canzone precedente e vi riesce in parte: il loro punto di forza è anche il punto di debolezza, che non permette di poter esplorare anche i lati più oscuri dell’hard rock. Ci si avvicina alla fine dell’album con “Will is Power”: che appare il proseguimento di “Believe Me”. Probabilmente diventano i cavalli di battaglia nei live. Con “Unbreakable” si protrae la vena pop/rock concentrata più che altro sulla voce, lasciando completamente in secondo piano tutti gli strumenti. L’unica cosa ad emergere è il guitar solo, tutto il resto è sovrastato dalla voce capace ed energica della vocalist. A chiudere è una bella cover di “Zombie” dei Cranberries: il risultato, molto simile a quella di Dolores O’ Riordan e soci, è orecchiabile e piacevole, anche se manca di tutto il sentimento che questa canzone dovrebbe suscitare. Concludendo, questo è un lavoro che può piacere e non: abbastanza acerbo come sound, molto professionale a livello di cantato, visto che si gioca moltissimo con le diverse tonalità della cantante che dimostra sicuramente grandi doti canore. Aspetto news sulla band e su altri lavori in cantiere. (Samantha Pigozzo)

(Logic(il)logic) 
Voto: 70

domenica 21 ottobre 2012

Arbor - The Plutonian Shore

#PER CHI AMA: Black, Death, Doom, Folk
Milwaukee, Wisconsin: una nuova scoperta per il sottoscritto, gli Arbor e il loro debut album, “The Plutonian Shore”. Apre le danze la tiepida strumentale title track, poi ecco “Trees” a spianarmi la visione del mondo di questa giovane band statunitense. Di primo acchito, ho pensato agli Agalloch e a tutto il movimento del Cascadian Black Metal, che si sta lentamente sviluppando negli U.S. e sta prendendo piano piano piede anche in Europa. Poi ho dovuto correggere il tiro e cercare di capire la reale proposta del quintetto, perché il sound di “The Plutonian Shores” ha qualcosa di innovativo, mischiando nel suo avanzare, sonorità death, doom, folkish e black, che mi hanno disorientato non poco, ed allo stesso tempo entusiasmato. Non so se sia colpa delle voci, che passano dal growl allo screaming, facendo sosta anche in territori clean o proponendo improbabili chorus puliti, fatto sta che gli Arbor stuzzicano, con il loro sound, la mia immaginazione. L’attacco di “A Great Leap In the Dark” è folle: sembra dapprima swedish death, corredato da voci black, ma in un battibaleno la traccia assume il tono di una ninna nanna, per poi lanciarsi nuovamente in un contesto black death con un sound violento, potente ed affilato, alternandosi con brillanti aperture acustiche dal sapore folk. Spero, non soffriate di vertigini, perché tra sali e scendi pericolosi, qui si rischia peggio che andare sulle montagne russe. “Grey Waters” conferma il trend dell’album, con lo sconquassamento di un sound robusto che subisce le incursioni notturne di parti atmosferiche, che interrompono la tenacità dei nostri. Arrivo al termine del brano e faccio fatica a contare i cambi di tempo che la song ha vissuto, soprattutto in termini vocali, con la performance del vocalist che arriva a sfiorare addirittura anche gli Skyclad. Non è semplice, ve lo assicuro, però si sa che i compiti arditi, sono quelli più interessanti. Proseguo nel mio ascolto. Il suono della pioggia, e le chitarre malinconiche mi fanno pensare quasi ad una semi-ballad, ma mai calare il livello di guardia con gli Arbor: una batteria al limite del tribale si impossessa come un demone, della ritmica e insieme alle sei corde di Joe e Zak, ci invitano a danze folkloristiche sotto le stelle. La cosa meravigliosa è che non sono ancora riuscito ad identificare una band a cui ricondurre il sound dei nostri, e questo è quasi un miracolo. Ci provo con “Begotten From Mother Earth” ma fallisco miseramente: forse è il suono etnico della batteria allora che mi rapisce i pensieri e mi impedisce confronti. Non saprei, perché anche le chitarre in effetti non seguono assolutamente schemi precisi come il black, il death o quel diavolo che preferite, impongono. Gli Arbor fanno quello che gli pare e piace e, per una volta mi trovo nella situazione, di non riuscire a prevedere che cosa venga dopo una ritmica, un arpeggio o una vomitata nel microfono. L’anarchia regna sovrana nel sound degli Arbor, anche nella strumentale “Pillars” e confermo che ciò non può essere che un bene. Non esagero col voto semplicemente per due semplici motivi: la registrazione non è troppo convincente cosi come pure la prova vocale, in stile pulito di Ted, che preferisco in formato estremo. Tuttavia, se siete degli amati di sonorità progressive, in chiave estrema, beh gli Arbor fanno decisamente al caso vostro. L’obbligo non è un consiglio… (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 75

The Vision Ablaze - Reach for the Stars

#PER CHI AMA: Swedish Death/Metalcore, Mercenary, Soilwork
Non è mai facile recensire un disco di tre pezzi, c’è sempre il rischio di sottovalutare o, peggio, di sopravvalutare una band. Questo per dire che la recensione di questi The Vision Ablaze, non è proprio tra le più semplici da fare, soprattutto a fronte dell’esigua durata del disco, che si aggira sui 14 minuti. Tuttavia, quando ho fatto partire il cd del combo di Copenaghen, non posso nascondere di non essermi divertito nel farmi trasportare dalla proposta di questi ragazzoni: un bel metal possente, sporcato da influenze metalcore, con delle schitarrate veramente potenti e le vocals di Peter Kelkelund, che si alternano tra un bel growling cavernoso ed un cantato in clean davvero espressivo, che riesce a dare un surplus alla musica del quartetto danese. “Smell of Guilt” alla fine risulta essere il brano migliore del cd, vario, selvaggio, assai melodico, che risente un po’ dell’influenza dei primi Mercenary, ma questo verosimilmente è da attribuirsi alla presenza di Jacob Hansen, produttore e anche bassista in “The Hours that Remain” dei Mercenary appunto. “Born Blind” è invece un pezzo più legato al sound arrembante dei Pantera, con una ritmica sincopata, che si spezza nel break centrale, prima di lasciarsi andare ad un finale davvero variegato, che lascia intravedere le enormi potenzialità dell’act scandinavo, in cui vorrei sottolineare la brillante performance dei due axemen alla sei corde. Consigliato un po’ a tutti, in particolar modo a coloro che amano suoni estremi, contaminati ma anche assai melodici. (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 65

venerdì 19 ottobre 2012

Dyskinesia - Dalla Nascita

#PER CHI AMA: Post Rock/Drone/Noise
Pensavo di averle viste tutte, ma di trovare all’interno di un cd una sorta di centrino da tavola proprio no. “Dalla Nascita” è un digipack nato in realtà come album digitale in download gratuito, poi evidentemente, a forza di trovare consensi, gente che ha rotto le scatole per una copia (come il sottoscritto) e qualche donazione, i ragazzi di Piacenza hanno avuto anche modo di farlo uscire in formato fisico. E allora addentriamoci nell’ascolto di questo sorprendente album, che pur non offrendo un genere cosi digeribile dal sottoscritto, ha saputo inaspettatamente conquistarmi sin dal suo primo ascolto. Sette tracce, tutte rigorosamente senza titolo, a parte la quarta, la title track, che si aprono con una desolante visione di un mondo senza colore, una fotografia in bianco e nero, fredda, glaciale, con suoni deprimenti e quasi del tutto strumentali. Quando parte la seconda pista, percepisco un forte senso di vuoto, di solitudine infinita; i suoni post rock viaggiano in un anarchico incedere controllato, coraggioso e senza tempo. L’impronta degli *Shels è avvertibile nel sound dell’act emiliano, anche se la band anglo-americana è decisamente più solare negli arrangiamenti, mentre i Dyskinesia ne potrebbero rappresentare il lato più cupo e decadente; qui non c’è spazio per la luce od uno sprazzo di positività, e si evidenzia anche attraverso vocalizzi impercettibili frammisti ad urla lancinanti, su una straziante base ritmica, che in alcune linee di chitarra mi ha addirittura evocato gli inglesi Archive. Notevole, ricco di pathos non c’è che dire, ma pregno di terrificanti atmosfere pestilenziali, come accade proprio per l’ambientale ed ipnotica title track. Facendo un piccolo salto indietro, alla terza song, essa rappresenta un altro affresco di decadentismo moderno, cosi ammorbante e pauroso, in cui la vena post, esplode dirompente tra onde d’urto cadenzate. Nel quinto episodio la band abbandona il lato più ruvido della propria proposta, ritornando in più delicati ed accessibili territori post rock/shoegaze. Chiudo gli occhi e l’unica cosa che riesco ad immaginare, è un manto di neve che ricopre una landa desolata, con una sola spoglia pianta all’orizzonte e con un cielo candido. Le emozioni a questo punto divengono contrastanti: una falsa serenità si mischia con la forte paura della solitudine. Questo senso incolmabile di vuoto lo si ritrova anche nella successiva traccia, che evidenzia un bellissimo giro di chitarra, che scuote ulteriormente il mio ormai fragile animo, suggellando la classe dei Dyskinesia, e indicandola come una delle realtà più interessanti della scena post rock/drone/ambient italica. L’eccellenza di questa release si esplica anche attraverso la lunga ultima canzone, costituita da suoni oscuri e riverberi, in quella che potrebbe essere una versione post dei primissimi The Cure. Band obbligatoriamente da supportare alla grande. Caliginosi. (Francesco Scarci)

(Frohike Records) 
Voto: 85

giovedì 18 ottobre 2012

Cowards - Shooting Blanks and Pills

#PER CHI AMA: Crust, Hardcore, Black
Prosegue il mio giro per il globo alla ricerca di nuovi talenti da scoprire, gustare e diffondere per mezzo della voce del Pozzo dei Dannati ed infine, eventualmente lanciare attraverso label di amici o conoscenti. La mia fermata oggi è la Francia, paese parecchio gettonato nell’ultimo periodo e non solo per uscite shoegaze, ma anche per la sempre maggior voglia di sperimentare e combinare sonorità differenti, spesso antitetiche, ma questa è la strada giusta, a mio avviso, per evitare di imputridirsi in una stagnante melma, da cui oggi, sarebbe dura venirne fuori. I Cowards ci provano, mettendoci la loro faccia, combinando le sonorità sporche e rozze per eccellenza (anche in chiave produttiva), quali crust e hardcore, il tutto spolverato da un tocco di nefandezza black inserito in un melmoso contesto sludge. Cosa ne è venuto fuori? Sei tracce corrosive e marcescenti, un invito a nozze per gli amanti delle sonorità succitate, per chi non ama trovar traccia di melodia nei brani, ma solo per chi desidera vedere polverizzati i propri timpani dalla furia distruttiva di musica spavalda, irriverente ed incazzata col mondo. In realtà in “Shooting Blanks & Pills” riesce a trovar posto anche qualcosa di più abbordabile, se non altro “Scarce” propone qualcosa di vicino agli Entombed di “Wolverine Blues” e questo non può che farmi piacere, in quanto contribuisce a rendere più appetibile una proposta che altrimenti rischierebbe di essere di fruizioni di pochi. L’album non è di certo di facile ascolto ed assimilazione, nonostante i pezzi siano diretti come un bel cazzotto assestato dal bravo olimpionico Cammarelle. “Shooting Blanks & Pills” necessita sicuramente di diversi ascolti prima di poter essere metabolizzato del tutto. Chiaro che c’è ancora da lavorare, ma ampi sono i margini di miglioramento; per ora va bene cosi. (Francesco Scarci)

(Throatruiner Records/Hellbound Records) 
Voto: 65

Shoulder of Orion - Winterstar

#PER CHI AMA: Black Progressive, In the Woods, Oranssi Pazuzu
La band in questione arriva da Cambridge e ci propone uno dei due lavori realizzati entrambi nel 2012 dal titolo “Winterstar” (“Lunaborn” è già stato recensito su queste stesse pagine). La band si presenta in trio con voce/chitarra/tastiere suonate da David White, al basso Justin Tophan e dietro le pelli Jonathan Hoey. Attivi dal 2007, hanno dato alla luce un demo e tre full lenght sino ad ora. “Winterstar” si presenta con una copertina spoglia, fredda, con un'immagine parziale di un albero in pieno inverno in scala di grigi e tutto questo ci fa già pensare a qualcosa di molto malinconico. In realtà la musica di questa band, per quanto cupa e introspettiva, gode di numerosi e rigogliosi spunti di eccentricità, una commistione tra Oranssi Pazuzu e la sperimentazione in ambito prog metal di band quali In the Woods, arricchita da un pathos molto raffinato e caldo, che rende il tutto squisitamente appetibile. Le composizioni sono tutte lunghe e scomposte, complicate, volutamente pilotate da una voce monotona e decisamente troppo maligna per il sound della band, ma che stranamente li rende unici e fastidiosamente interessanti; forse con una voce più consona, risulterebbero cloni di band più famose e quindi premiamo il coraggio di questa scelta. La cosa che più colpisce nelle loro composizioni contorte è il gusto per la melodia e la timbrica, resa ancora più efficace da un basso suonato molto ma molto bene e quelle tastiere, sempre in evidenza, rendono l'insieme così pulito anche se non propriamente accessibile, direi quasi ipnotico. I continui stacchi e le atmosfere a volte super coinvolgenti, insieme a veloci cavalcate e maestose aperture non lasciano spazio all'ascoltatore, proiettandolo in un continuo altalenarsi tra tristezza e decadenza, ma con stile ed orgoglio. Oserei dire che dopo tanti ascolti, reputo questo lavoro un piccolo gioiellino per la sua potenzialità espressiva, un insieme di brani che portano alla riflessione sul genere umano, e che stilisticamente, fondano lo spirito oscuro e rituale di Oranssi Pazuzu con il gusto melodico molto inglese dei Marillion e la visione avanguardistica del neo progressive dei mitici Anekdoten. La cosa che mi lascia più attonito, è che gruppi del genere non abbiano il giusto spazio nel panorama musicale mondiale; credo che se musiche di questo carattere fossero più incoraggiate, il metal, o più propriamente il prog metal, avrebbero un futuro assicurato! Per gli amanti del neo black progressive senza preconcetti e liberi a 360 gradi. (Bob Stoner)

(Self) 
Voto: 80

Synarchy - Tear Up the World

#PER CHI AMA: Modern Death, Mercenary, Soilwork
Dopo aver esplorato tutto il mondo, mi sembrava giusto che la nostra attenzione si focalizzasse anche alle piccole isole Fær Øer, arcipelago localizzato a nord della Scozia, ma in realtà regione autonoma di Danimarca. E questa piccolissima regione, la cui squadra nazionale di calcio abbiamo anche recentemente visto impegnata con gli azzurri, dà i natali a questi Synarchy, band dedita ad un modern death metal. Dieci rocciose tracce che si aprono con la melodica title track, che evidenzia subito le influenze a cui i nostri si rifanno: si tratta infatti di un certo death thrash melodico che prende spunto dalla tradizione swedish che vede in Soilwork, Darkane o Mercenary, i principali punti di riferimento. Dico subito che il sound del quintetto danese trasuda groove da tutti i pori e questo permette ai Synarchy di essere facilmente avvicinabili dagli amanti di sonorità “estreme” ma comunque melodiche, melodia che si esplica anche in brillanti assoli come nella seconda “Sært Tù Meg”, con la voce di Leon (tipico nome nordico) ad alternarsi tra un roccioso, ma assai comprensibile, e piacevole growl, e delle ruffiane clean vocals. La proposta dei Synarchy mi piace parecchio, anche se non propone nulla di nuovo, ma la carica che emana è energica, trascina, induce inevitabilmente ad un headbanging sfrenato. Il ruggito delle chitarre è assimilabile a quello dei leoni in cattività nella savana. Rabbiose, ritmate, mai veloci, spesso accompagnate da un piano in sottofondo, come accade in “Plague of Time”, piano che consente di diversificare leggermente la proposta dei nostri, che pur schiacciando l’occhiolino a destra e manca verso sonorità ruffiane, si presenta di certo come musica non indicata alle mammolette. Eccellente anche il lavoro dietro le pelli di Kim Joensen, preciso e dirompente, mentre i due axemen, si divertono non poco con la loro sei corde, disegnando ariose melodie. Il lavoro scivola via attraverso altri begli esempi di death melodico (da segnalare “Out of Breath”), ma all’altezza dell’ottava traccia, mi accorgo di essere un po’ saturo, anche perché in un genere come questo, non si possono avere tracce che superano i cinque minuti e “A Reason to Live”, che ne dura addirittura nove, pur essendo un po’ avulsa dal resto delle song, un po’ malinconia e romantica, finisce per stancare. E cosi i 62 minuti di “Tear Up the World” rischiano di fiaccare la proposta dei Synarchy che con questo lavoro, toppano solo a livello di lunghezza totale dell’album. Fosse durato infatti una ventina di minuti in meno, avrebbe meritato mezzo punto in più. Aiutati poi da una produzione cristallina, i Synarchy convincono appieno con il loro sound, ricco di chorus, groove e partiture che sfociano anche nel metalcore. Limiamo un attimo il punto nevralgico insito nell’eccessiva durata dei brani e probabilmente avremo trovato un’altra grande band… (Francesco Scarci)

(Tutl Records)
Voto: 70