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martedì 1 maggio 2012

Mondstille - Seelenwund

#PER CHI AMA: Black Avantgarde, Post Black
Non amo assolutamente il tedesco come lingua, per quella sua mancanza di musicalità, e non me ne vogliano i Mondstille per questo; alla luce però di quanto prodotto dall’act viennese, sinceramente me ne frego e ci passo sopra, in quanto la band austriaca ha rilasciato un signor album, che impreziosisce di molto il panorama black avantgarde, con una gemma da incastonare nell’ormai poco inflazionato mondo del black melodico. Detto fra noi, non conoscevo il quartetto di Vienna e di sicuro andrò a pescare il loro album d’esordio “Am Ende…”, per capire se erano già dei fenomeni all’esordio (datato 2008) o se c’è stata chissà quale evoluzione nel corso di questi anni che li ha fatti diventare cosi evocativi ma soprattutto bravi. Fatto sta, come avrete capito, che “Seelenfreund” è un album che a me piace moltissimo: un lavoro sicuramente estremo da un punto di vista musicale, impreziosito tuttavia da sublimi melodie di violino (grandissimo Ludwig), che si stagliano e susseguono su un tappeto ritmico estremamente serrato, con delle harsh vocals mefistofeliche. “Mein Inner Sturm”, “Im Trauerhain” e “Zeitenwandrer”, una dopo l’altra si esaltano per la furia propulsiva emanata, ma anche per le loro splendide atmosfere, che sembrano trarre ispirazione da una versione estrema dei primi ispiratissimi Skyclad. Sia chiaro però che non siamo al cospetto di una band folk; qui c’è tanta cattiveria, ferocia e brutalità, ma semplicemente è convogliata nel mondo più intelligente possibile, alla ricerca di una magica spiritualità, che si esplica nel corso dell’ascolto del cd. Qualcuno potrà affiancare il nome dei nostri a quello degli Eluveitie, niente di più sbagliato. I Mondstille sono i Mondstille, difficile trovare altre band che possano accostarsi al misticismo della proposta del combo, che tra l’altro in line-up non vede la presenza del batterista bensì l’uso di un drumming sintetico, peccato. Selvaggia anche “Die Seele Frei”, la quinta song, cosi come pure tutte le successive, sebbene in taluni casi, abbiano degli incipit assai romantici che sfociano comunque nella furia nera del black; ci pensa l’incantato suono del violino che si mischia a quello poetico del violoncello a mitigare il sound abrasivo delle chitarre, portandoci ad un’estasi spirituale. “Ich der Pan” ha un inizio da band post rock/folk, prima di abbandonarsi al corrosivo fragore delle chitarre. Il feeling che l’ensemble emana è quello tipico delle band post black e mi vengono in mente, a tal proposito, Deafheaven, Altar of Plagues, Lunar Aurora o la new sensation australiana dei Ne Obliviscaris; a differenza di questi altrettanto validi act, i Mondstille, al pari dei Ne Obliviscaris, hanno una marcia in più, che li vede posizionarsi immediatamente in cima alle mie preferenze in questo genere, con un lavoro del tutto inaspettato e che mi auguro, possa suscitare un certo clamore nella scena estrema. Eccezionali, vanno premiati con la vostra attenzione! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 90
 

domenica 29 aprile 2012

The Black Dahlia Murder - Miasma

#PER CHI AMA: Deathcore/Swedish Death, As I Lay Dying, At the Gates
Torna la Metal Blade, ormai identificabile negli ultimi anni, con album di death-metalcore. Ancora una volta lo swedish death metal si fonde con l’hardcore americano e “Miasma” fu l’ennesima dimostrazione di questo trend imperante. La band statunitense formatasi nel 2001 dopo “Unhallowed” registra ai Planet Red Studio di Richmond, “Miasma”, il cui stile riprende quello del suo predecessore: il songwriting è infatti influenzato dalle solite band scandinave, At The Gates e Carnal Forge su tutte, e dalle altre band statunitensi che suonano questo genere. Ormai lo ripeto da mesi/anni, mi trovo spesso in imbarazzo a recensire questo genere di gruppi perchè oramai, i miei commenti finiscono un po’ tutti per assomigliarsi. Quindi anche per i TBDM non è che posso scrivere chissà che: l’approccio è molto familiare ad altri gruppi recensiti in passato, The Red Chord ed As I Lay Dying ad esempio, in altre parole, un sound ben bilanciato fra l’incazzatura del metalcore americano e la melodia del death metal svedese, canzoni brevi e dirette, riffoni di chitarra, una doppia voce schizofrenica, blast beat devastanti e melodici solos. C’è da aggiungere che, nella band proveniente da Detroit, è riscontrabile anche una leggera componente blackish con le vocals di Trevor Strnad più demoniache e caustiche rispetto ai suoi colleghi. Comunque, per concludere, si tratta sempre di deathcore a stelle e strisce, quindi se il genere è di vostro gradimento, direi di non farvi scappare questo ennesimo prodotto. Se poi anche voi siete saturi come me di questo tipo di musica, beh il panorama metallico ha da offrivi un mucchio di alternative... (Francesco Scarci)

(Metal Blade)
Voto: 65

Colosseum - Chapter 2: Numquam

#PER CHI AMA: Death, Funeral Doom, Skepticism
Secondo album di questa potentissima band nordica, il terzo se teniamo conto della demo registrata nel 2006, che a me non è affatto piaciuta per i troppi riff ripetitivi, di quelli noiosi, che ti fanno conoscere una canzone dopo i primi quaranta secondi di distorsione. Ma qui, anche se sono passati solo tre anni dall’esordio in sordina, stiamo affrontando qualcosa di differente qualità. “Numquam” è un’opera unica di funeral doom, epica, non eccessivamente lenta e con riff (questa volta si) in evoluzione persino all’interno delle singole tracce. La mia più profonda ammirazione è andata verso la consapevolezza di questa band originalissima, che non teme di affrontare assoli melodici e inoculare atmosfere di speranza all’interno di un’opera doom totalmente nera. Molto sinfonica, a voler essere sinceri, con la presenza ad effetto di flauti e violoncelli che risaltano in un sottofondo di pura oppressione. È una registrazione che abbraccia con la sua tristezza, la sua oscurità, il suo senso di tocco infinito. Mancano quei passaggi depression-style che colpiscono il cuore, ma forse, in questo caso, è meglio così. “Numquam” si apre timidamente con una title track dai forti assoli cosmici, le prime due corde delle chitarre collidono con le ultime due accompagnate dal tormento inquieto di una tastiera che trasmette un forte timore di vana attesa. Epica. “Towards the Infinite” ricorda i padri del genere, Skepticism e Until Death Overtakes Me, amalgamando la lentezza tipica del funeral ad atmosfere maestose di mondi in rovina. Terribilmente desolante. “Demons Swarm by my Side” e “The River” rappresentano le due tracce che più mi hanno fatto apprezzare questa band: riff avvolgenti, poderosi nel loro andamento, assoli dai toni alti che lanciano l’immaginazione verso stati più elevati dell’essere e quell’abbraccio di tristezza che manca nelle altre tracce (“Awaiting the Darkness to Come / Drifting Away… Away…”); di sicuro un momento topico. “Narcosis” funge da collante perfetto tra il doom ‘comune’ delle tracce precedenti a quello più propriamente ‘personale’ dei Colosseum. “Prosperity” è la chiusura perfetta di questo secondo capitolo. Regale. Tenebrosa. Pervasa da un’antica magnificenza di bellezze perdute. Vengono condensate qui tutte le influenze di un gruppo fondamentale per il panorama underground del metal: dall’utilizzo in contrasto di accordi bassi e assoli alti, all’utilizzo di tastiere come mezzo per creare singolarissime atmosfere, agli iperborei momenti evocativi di marce epiche verso il nulla. Ogni strumento risponde perfettamente a sé stesso e comunica solidale con tutti gli altri. Non c’è da aspettarsi nulla da questa band, se non altre sperimentazioni, poiché hanno già scritto quello che dovevano scrivere all’interno della storia del funeral doom. Decisamente poco conosciuti. Nota: “Numquam” è l’ultimo album con Juhani Palomäki alla voce. Nel 2010 il suo spirito ha lasciato questo mondo. (Damiano Benato)

(Firebox)
Voto: 85
 

sabato 28 aprile 2012

The Sect - Initiation

#PER CHI AMA: Black Symph., Emperor, Solefald
Il gruppo francese ci propone questo ambizioso lavoro carico di pathos gothico e oscurità. Figlio del sound nero di Emperor e primi Solefald, si snoda sinfonicamente in un percorso complicato. L'uso delle voci è molto ricercato e le tastiere sono maestose e rendono il suono magico, malinconico e pieno. Le parti più melodiche, con l'uso del piano in uno stile drammatico e classico, aumentano la componente nostalgica della musica, in contraltare troviamo una sezione ritmica volutamente tenuta in sordina per meglio rendere il sound più accessibile, meno impastato e più cristallino, pur mantenendo una buona forza d'urto. Il cd è molto ben fatto e non risulta avere momenti di caduta, infatti sin dall'inizio, si ha l'idea di un lavoro ben studiato e di una band chiaramente al di sopra della media. Tutti i brani permettono all'ascoltatore di entrare in una sorta di “inner circle”, un calderone magico e ancestrale con cori molto evocativi e d'effetto. L'intro, “Invitation”, dura poco più di 1 minuto ma mostra subito il lato romantico e oscuro dell’ensemble, aprendo la strada alla seconda e bellissima traccia, “Altar of the Golden Depravation” e la terza (la mia preferita) “Mitre and Crosier”, evocativa e tesissima, con quei cori pazzeschi che ricordano nientemeno che i “Carmina Burana”! La quarta traccia, “Acceptation” (altro brano da collocare tra i miei preferiti), è estremamente carica d'atmosfera, ha un'aria di pianoforte spaventosamente classica in stile “Satie”, con quel sottofondo di fiati, che ricordano vagamente i lavori di Malher! Questo classicismo crea un perfetto contrasto con la successiva prorompente song dal titolo “Noctum Phantasmatha”, che alterna stati di luce e ombra, con il suo incedere alternato lento/veloce, sottolineato da un cantato pulito e i soliti splendidi cori ispirati, (ricordano tanto i Falkenbach) uniti ad uno screaming veramente diabolico e degno di nota. “Requien of the Unborn” parte con chitarre velenose e tirate, un bridge finale rallentato e molto gothic metal e chiude le danze con l'epicità giusta per rendere il tutto indimenticabile. Alla fine non ci resta che decretare un'unanime sentenza favorevole ai The Sect visto che il loro album “Initiation” risulta ancora oggi dopo quattro anni (il cd è del 2008) portatore di nuove vesti e idee sane per un genere che a volte rischia di cadere nel baratro del ripetitivo o del clone. La nuova canzone “Cosmic Keys to my Creation and Time” del 2009, sul loro myspace, ci fa ben sperare per un loro imminente ritorno in grande stile. Grande album! (Bob Stoner)

(Self)
Voto: 80
 

domenica 22 aprile 2012

Sunpocrisy - Samaroid Dioramas

#PER CHI AMA: Post Metal, Tool, The Ocean, Isis
Grazie. Grazie per il meraviglioso album che i Sunpocrisy hanno saputo concepire, che va ben oltre le più rosee aspettative che mi ero creato con il precedente Ep. Un grazie a questa band perché, con “Samaroid Dioramas”, ha dimostrato che in Italia abbiamo delle realtà che possono tranquillamente competere con le band americane, svedesi o tedesche che siano. E infine un grazie perché ero stato buon profeta nella recensione del primo Ep, dicendo che la band era da tenere sotto stretto controllo e l’eco che questa uscita ha avuto nel web, è un’ulteriore riprova di quanto scrivevo e della ottima qualità del cui presente lavoro. Ma, andiamo pure con ordine. Avevo lasciato i nostri nel 2010 con “Atman”, un EP di quattro pezzi che mischiava riff death metal ad ambientazioni di “toolliana” memoria, il tutto cosparso di una diffusa psichedelica malinconia. Il nuovo album, oltre ad aprirsi con un atmosfera che sa molto di suoni tribali degli aborigeni australiani, esplode ben presto la propria furia con “Apophenia”, che mette subito in chiaro la direzione musicale intrapresa dal sestetto bresciano. Mi spiace ma ora davvero non ce n’è più per nessuno: non guardo più verso Berlino con invidia per i The Ocean, verso la Western coast degli US per i Tool o la Eastern per gli Isis, o ancora verso nord a Umea, pensando che là ci sono band del calibro di Meshuggah o Cult of Luna; a casa nostra ora abbiamo i Sunpocrisy, che partendo, senza ombra di dubbio dagli insegnamenti dei gods appena citati, sfoderano una prova a dir poco magistrale. I Sunpocrisy hanno fatto il botto e lo dimostrano le mazzate inferte già in “Apophenia”, che miscela suoni rabbiosi, tribali, psichedelici, infarciti da meravigliose, suadenti melodie, che mi mettono subito a mio agio, mi fanno rilassare, anche se il growling poderoso di Jonathan, sbraita come un ossesso e le chitarre “grattano” minacciose con sommo piacere. Ci pensano poi quelle ipnotiche melodie di synth ad insinuarsi nei miei neuroni, scorrere lungo gli assoni fino al terminale nervoso responsabile del rilascio di quei neurotrasmettitori, che mi inducono al piacere sublime. Non so cosa sia successo ai nostri, se siano stati folgorati sulla via di Damasco o cosa, so solo che nelle sette tracce (più intro) qui contenute, se ne sentono di tutti i colori. Tempi dispari di scuola “meshugghiana”, che dimostrano l’ineccepibile qualità tecnica del combo lombardo (arricchitosi tra l’altro di un terzo chitarrista e di un uomo dietro ai sintetizzatori), atmosfere ariose che surclassano di molto la performance del nuovo Ep dei The Ocean; una prova eccezionale del vocalist, abile a passare da un growling efferato a splendide clean vocals. “Φ – Phi” è un ulteriore esempio di quanto il combo sia maturato enormemente nel corso di questi ultimi due anni, dell’abilità in chiave esecutiva raggiunta (da saggiare a breve anche in sede live) e di quanto i nostri si sentano comunque a proprio agio nella gestione di pezzi di lunga durata, con quattro tracce della durata media di 10 minuti e quanto siano eccellenti anche in quelle song che fungono da collante nel cd (“Vertex” o “Trismegistus”). I Sunpocrisy sembrano una band di veterani, che calca la scena da qualche lustro. La maturità della band si saggia anche con lo strepitoso trittico finale di brani, che partendo dalla corrosiva e schizoide “Samaroid”, si spinge verso lidi di raffinatezza esagerata, con la successiva “Samaroid/Dioramas”, in cui l’eco dei Tool è sicuramente forte, ma lo è pure la personalità dei nostri, che emerge prepotente nel corso della traccia, che fa dell’espediente emozionale iniziale, l’elemento catalizzatore, con le vocals sofferte di Jonathan, accompagnate da una ritmica dapprima malinconica, poi furente, ma sempre nostalgica. A chiudere questo capolavoro, che mette in sella i nostri nell’essere indicati come vera e propria sorpresa dell’anno (e a mio avviso anche disco del 2012), ci pensa “Dioramas” che decreta il livello eccelso raggiunto dall’ensemble nostrano, incredibili musicisti in grado di spaziare tra il post metal, un residuo quasi impercettibile di death, la psichedelia onirica dei Pink Floyd, il djent dei Meshuggah, con quelle sue chitarre polifoniche e la componente depressive stile primi Katatonia, che avevo già sottolineato nella prima recensione. Che altro dire, se non che questo “Samaroid Dioramas” è forse l’album perfetto (anche in chiave grafica con un booklet avveneristico) che attendevo da tempo immemore… Guai a voi ora se non vi avvicinerete ai Sunpocrisy. Uomo avvisato… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 95
 

Dumper - Rise of the Mammoth

#PER CHI AMA: Heavy Metal, Motorhead, Megadeth
Ommadonnasanta... Nel 2012 è ancora possibile trovare in Italia un gruppo che suona in stile Motorhead, probabilmente vive e porta avanti il mito delle belle donne sedute in braccio mentre bevi una birra ghiacciata e racconti l'ultima tua fuga dagli sbirri a bordo della fedele Harley? Fino a ieri avrei detto di no, ma quando ho messo su questo "Rise of the Mammoth", giuro pensavo di essere tornato indietro nel tempo! I tre ragazzotti dal lungo passato musicale che si legge nella punta consunta dei loro stivali, si riversa totalmente nel sound e ha il suo bell' impatto. Le chitarre lente e grosse, la voce di uno che ha qualche sigaretta e whisky alle spalle, insieme ad una ritmica basso-batteria che lavorano come fratelli, faranno godere le vostre fredde orecchie. "The Melting Eye" parte con un bel riff di basso, chitarra e percussioni che lascia spazio alla psichedelia ancestrale, poi il verso di una belva dà il segnale di inizio alle danze. Grande influenza Megadeth per i nostri Dumber, comunque con una discreta dose di personalità. Anche "Drag Me to Hell" inizia con il basso e poi l'entrata dei riff di chitarra vi fanno venir voglia di aprire il gas a manetta e correre per le desertiche highways americane. E' vero che il cliché di un gruppo come i Dumper sarebbe quello di vederli ad un moto raduno di quelli mastodontici, ma l'elevata tecnica strumentale e compositiva li potrebbe scaraventare su qualsiasi palco, magari buttando giù i soliti sovrani dell' ovvio. Degna di nota la cover di “Ticket to Ride” che trasuda stile in ogni corda e forse prende un po’ per il naso i benemeriti scarafaggi. Grandi. Bravi. Vi voglio su un palco mentre la birra scorre giù e toglie la polvere in fondo alla gola, dopo ore passate in sella a bruciare chilometri. (Michele Montanari)

(Buil2kill Records)
Voto: 80
 

Mephisto Waltz - Insidious

#PER CHI AMA: Gothic, Death Rock, Christian Death
Era uno dei lavori più attesi del 2004 in ambito gothic, senza ombra di dubbio. E ammettiamolo, nessuno avrebbe mai scommesso un centesimo sulla rinascita del deathrock. In una realtà discografica che negli ultimi anni ha cercato di seguire le inclinazioni di un pubblico oscuro, sempre più infatuato da contaminazioni elettroniche, nessuno si sarebbe mai aspettato un ritorno di fiamma per le polverose sonorità portate in auge da Christian Death & Co. Eppure anche le realtà musicali di nicchia sono soggette ai soliti corsi e ricorsi storici, con tanto di riesumazioni e reunion sospette che diventano immancabilmente l'argomento preferito dei fan, i quali amano farsi trascinare nelle inevitabili diatribe circa la credibilità o meno di certi veterani del "sacro verbo gotico". Nel caso dei Mephisto Walz le chiacchiere sono messe a tacere dalla qualità della musica e “Insidious” non può far altro che rassicurare anche i più scettici sull'onestà e la sincerità con le quali il gruppo ha saputo rimettersi in gioco negli ultimi trascorsi della propria carriera. “Insidious”, che segue di un paio d'anni l'uscita dell'ep “Nightingale” e di ben sei il full-length “Immersion”, non è affatto una bieca operazione di riciclaggio e nemmeno l'affannoso tentativo di rimanere a galla in mezzo a tante uscite discografiche. Al contrario, è un lavoro ben suonato e molto ben prodotto. È la dimostrazione che i Mephisto Walz hanno ancora qualcosa da dire nonostante la loro veneranda età. “A Magic Bag” è un preludio da brividi, lento e ossessivo. Tra una chitarra in tensione continua e un basso dai rintocchi funebri, la voce di Christianna si insinua sonnolenta e spettrale, accarezzando come un soffio gelido l'epidermide. Più movimentata è invece “Our Flesh”, con i suoi feedback contorti di chitarra, mentre “Watching from the Darkest Places” e “Before these Crimes” decelerano su ritmiche di nuovo plumbee e distese, palesando il volto più etereo del gruppo. Così anche “One Less Day”, adagiata su di un manto sonoro dalle increspature tenui, cede il passo alle spigolose reminiscenze deathrock di “I Want” e l'album cambia ancora una volta registro, per confluire nella danza vorticosa e dissennata di “Witches Gold”. Forse un po' anonime le ultime “Memories Kill” e “Nightingale”, ma il finale serba comunque una sorpresa con “Ombra Mai Fu”, rivisitazione cantata della celebre aria di Georg Friedrich Händel, interpretata dalla cantante Diana Briscoe. Chiudo segnalandovi la confezione digipack della versione americana dell'album, impreziosita da una realizzazione grafica molto più elaborata ed elegante dell'edizione europea. Se ne avete la possibilità, fatela vostra. (Roberto Alba)

(The Fossil Dungeon)
Voto: 85
 

Ov Hollowness - Drawn to Descend

#PER CHI AMA: Black/Epic, primi Katatonia, Windir
Ultimamente, sto constatando che la terra canadese rappresenta un altro territorio con un costante brulicare di band assai interessanti. Oggi ci avviciniamo ad un’altra di queste, messa ovviamente sotto contratto dalla sempre più presente (nei nostri archivi, intendo), Hypnotic Dirge Records e noi non possiamo che esserne felici. Altra one man band quella degli Ov Hollowness, quasi fosse una costante per l’etichetta nord americana; e sempre di suoni assai strazianti si parla. Il factotum di turno, ossia l’enigmatico Mark R., ci presenta sei lunghe tracce, contraddistinte da un riffing malinconico, poco pulito, ma sicuramente di forte impatto emotivo. Fin dalla opening track, “Old and Colder”, ci lasciamo condurre nel grigio e desolato ambiente creato da Mark, dove, palesemente influenzato dagli albori sonori di Katatonia, da lunghe cavalcate “burzumiane” e dall’epicità dei Windir, ha il solo rischio di peccare in termini di ripetitività. La song è infatti piacevole nei primi minuti, poi il ripetere dello stesso riff (per 9 minuti!) espone il tutto ad una certa noia di fondo, anche se tuttavia l’inserimento di alcune parti atmosferiche e di epiche partiture chitarristiche, che si sovrappongono alla ritmica di base, vivacizzano la proposta. Pensavo con la seconda traccia, la title track, di trovarmi di fronte ad un altro brano dal tocco ambient e nostalgico, invece ecco esplodere un sano black a corrodere il tutto con la sua furia, tuttavia sempre pregna di una certo flavour di cupa disperazione. “Desolate” ritorna a indurre desideri autolesionisti a chi si appresta ad ascoltarlo, con quell’alone del “Conte”, costantemente ad aleggiare sulla testa, grazie alle classiche chitarre ronzanti di accompagnamento, un efferato, quanto valido screaming e qualche sporadica comparsa di clean vocals, per un risultato finale a tratti assai valido, e che trova il suo apice nella successiva “Winds of Forlorn”, un mid tempo che, mostrando anche qualche reminiscenza di scuola Amon Amarth, riesce a dare un maggior spazio, all’evocativa prova pulita del vocalist. Lentamente ci avviamo verso la conclusione dell’album: all’appello mancano ancora “Drone”, claustrofobica song come il suo titolo può lasciar presupporre e dalla dinamica quasi suicidal. A chiudere ci pensa “The Darkness”, canzone ruvida, in linea con alcun produzioni black thrash old school e che decisamente si distacca da tutte le altre song del lotto; strana ma efficace, soprattutto alla luce di un assolo decisamente rock’n roll che si staglia su una ritmica che sembra presa in prestito da “Kill’em All” dei Metallica. In conclusione, “Drawn to Descend” è un disco valido, ma che evidenzia ancora qualche lacuna da un punto di vista compositivo. Da tenere comunque sotto stretta osservazione! (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records)
Voto: 70