Cerca nel blog

domenica 8 aprile 2012

Mandrake - Calm the Seas

#PER CHI AMA: Death/Gothic, Theatre of Tragedy, Tristania
Sembra che i Mandrake abbiano sbagliato un po' i tempi. Il debutto discografico di questa giovane band ripropone infatti, in una collezione di undici brani, una sintesi di tutti quegli elementi del gothic metal già ampiamente sfruttati nell'intero corso degli anni '90, prima con i Paradise Lost e in seconda battuta con formazioni come Theatre of Tragedy e Crematory. Ed è proprio a questi ultimi che il gruppo tedesco sembra rifarsi, unendo in un solo platter tutti gli stilemi più scontati del metal romantico, a partire dall'alternanza tra una celestiale voce femminile e quella roca maschile, fino all'utilizzo massiccio di tastiere dal suono soffice e cristallino. Non che l'effetto complessivo risulti sgradevole, sia chiaro, ma dall'ascolto di “Calm the Seas” stento veramente a trovare dei punti di reale pregio che possano invogliare ad avvicinarsi alla musica dei Mandrake. Benché i musicisti si dimostrino padroni dei propri mezzi e siano supportati da una produzione che farebbe invidia a tante band emergenti, penso che anche il più imberbe e sprovveduto tra i fruitori di gothic-doom si accorgerebbe di quanto il disco suoni datato e non basti qualche partitura elettronica facile facile a rendere il tutto più attuale. In “Calm the Seas” non è la qualità delle composizioni a mancare e tra i brani più dinamici come “Shine” e “Essential Trifles” si intravedono incoraggianti spiragli verso un'evoluzione più personale ed ispirata, tuttavia, il pesante limite del "già sentito" aleggia sempre in maniera troppo insistente durante tutto l'ascolto, facendo provare giusto un po' di nostalgia per un suono che andava per la maggiore qualche anno fa, ma non riuscendo certo a sollevare l'album da un giudizio che supera di poco la sufficienza. Trascurabile. (Roberto Alba)

(Greyfall)
Voto: 55

venerdì 6 aprile 2012

Dead Summer Society - Visions from a Thousand Lives

#PER CHI AMA: Death Doom Gothic, My Dying Bride
Il Belpaese mi sorprende ogni giorno di più, regalandomi costantemente belle sorprese, almeno in campo musicale. E cosi quel che oggi mi appresto a recensire, è il debut cd della one man band molisana dei Dead Summer Society, band capitanata da Mist, chitarrista degli How Like a Winter. “Visions from a Thousand Lives”, che segue ad un paio di anni di distanza, il demo cd “Heart of the Autumnsphere”, è un bell’esempio di black gotico, che ha subito rievocato in me un altro debutto eccellente, “Thieves of Kisses” dei Drastic; era il 1998 e le atmosfere decadenti andavano alla grande, grazie soprattutto ad act quali Katatonia (forte l’alone della band scandinava a permeare anche il lavoro di Mist) e il death doom di My Dying Bride e Paradise Lost. E il buon Mist, non immune al fascino dei grandi act di ieri e di oggi, aiutato da Trismegisto (altra conoscenza del Pozzo, con i suoi Cult of Vampyrism) alle vocals, propone un sound che paga si un minimo dazio alle band succitate (ma quale band ormai non si ispira ai mostri sacri?), rilascia dodici interessanti pezzi di suoni evocativi, ispirati ed esoterici. La malinconia del pianoforte e delle tastiere è l’emozione dominante in “I Met You in Heaven and Hell”; i suoni a la Katatonia emergono forti in “Shadow I Bear”, dove le oscure vocals di Trismegisto, si alternano tra il growling e il pulito sussurrato e dove trovano posto anche le female vocals di Claudia M. Luisa Murella (la cui timbrica mi ha riportato alla mente la vocalist degli embrionali Ensoph). L’inizio di “The King’s Alone” è un bell’esempio di metal atmosferico, dove sono le linee di chitarra a non convincermi appieno, un po’ troppo elementari e con un sound non troppo incisivo; l’onirico break centrale contribuisce ad assicurare una bella dose di turbamento all’ascoltatore e creare un destabilizzante clima di suspense; bravi in questo, anche se questo li avvicina ai siciliani Lord Agheros. Un pianoforte apre “Down on You”, altra song dal forte flavour deprimente, che vede la comparsa dietro al microfono di un’altra (ahimè terribile) gentil donzella, Federica Fazio; non me ne voglia, ma la prova alla voce non è certo di quelle memorabili, di sicuro non in senso positivo. Decido pertanto di skippare in avanti, nonostante il bell’intermezzo acustico posto a metà brano. La nera “Her White Body, from the Coldest Winter” mette in evidenza le influenze più legate al sound estremo dei My Dying Bride, ma al contempo anche l’uso un po’ fastidioso (e qui molto udibile; prima non me ne ero accorto) della drum machine, a rendere il sound un po’ troppo artificioso. Me lo faccio scivolare addosso e mi lascio avvinghiare dall’eterea atmosfera creata nella parte centrale dalla performance della brava Claudia. Un paio di inframmezzi ambientali e riecco un’altra manciata di song, “Within Your Scars”, “Unreal” e “I Fade”, dove ad affiancare il bravo Trismegisto ritorna la poco convincente voce di Federica, mentre i brani si fanno notare per un’anima estremamente volubile, che miscela sapientemente (e con giuste dosi) malinconia, rabbia e dolcezza. Chiude la cibernetica bonus track, “Army of Winter (March of the Thousand Voices)” che racchiude in sé deliziosi spunti per il futuro; auspico solo che vengano limate quelle imperfezioni che avrebbero potuto fare di “Visions from a Thousand Lives” un maestoso debutto. Stimolanti! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70
 

Darkmoon - Wounds

#PER CHI AMA: Death/Black Melodico
L’attacco arrembante di “The Sword”, segna l’inizio di “Wounds”, terzo Lp di questa longeva band svizzera, la cui forma embrionale risale addirittura al 1995; potrete ben capire pertanto, che non si tratta degli ultimi arrivati che si sono accodati al carrozzone metal. E la proposta del quintetto di Basilea dimostra che i nostri non sono certo degli sprovveduti: death metal melodico (talvolta sospinto verso lidi black) dalle chiare influenze scandinave. Coinvolgenti. Incisivi. Prepotenti. Tre aggettivi che decretano la natura dei Darkmoon, che con il loro sound dirompente, hanno saputo conquistarmi e indurmi a contattarli. Gli ammiccanti chorus in stile metalcore americano, le orecchiabili melodie e il denso contenuto di groove, mischiato alle vorticose schitarrate, hanno avuto presa immediatamente sui miei timpani. E cosi, eccomi investito dalla travolgente e massiccia dose di death metal made in Switzerland. Che gli svizzeri non fossero solo orologi e cioccolato, lo avevamo già intuito con Samael o Celtic Frost, con Eluveitie e Darkmoon ne abbiamo un’ulteriore conferma. Nove agguerrite song in grado di coniugare robuste linee di chitarra con eccellenti trovate: “Conquistadors” si fa ricordare ad esempio per un inquietante break dalle tinte mediorientali; “Black Shell” per la sua cupa parte centrale, “Rise Up” e “Seki State” per i loro attacchi “in your face”, secchi, diretti, dritti al volto come il più classico uno - due pugilistico o il dritto e rovescio dei tennisti. L’idea del combo di Hölstein è davvero vincente, pur non proponendo nulla di nuovo; ma si sa che di Cassius Clay o di Björn Borg, non ce ne sono stati poi molti nella storia, ma che tuttavia ci sono stati altri validi protagonisti che si sono fatti notare per la loro bravura. Ebbene, i Darkmoon potrebbero essere tra questi, non dei precursori del genere, ma dei buoni esecutori, che hanno saputo prendere spunto dagli originali, per imbastire la propria proposta, che fa del death metal melodico, e anche un po’ (black) epico (splendida “Dead Cold World” a tal proposito), ricco di elementi atmosferici, suonato da musicisti dotati di ottima tecnica, il proprio punto di forza. Speriamo di non dover attendere ora, altri quattro anni per saggiare lo stato di forma dei nostri, che per il momento si conferma assai buono. Cavalchiamo l’onda ragazzi! (Francesco Scarci)

(STF Records)
Voto: 80

martedì 3 aprile 2012

Foret d'Orient - Essedvm

#PER CHI AMA: Black Symph., Nihili Locus, Crown of Autumn
Che facile scrivere una recensione quando la musica, cosi suggestiva, mi guida la mano nel mio digitare incessante sulla tastiera e lo schermo si riempie, con mia somma soddisfazione, di parole. Merito decisamente va alla proposta dei veneziani Foret d’Orient (la traduzione francese di “Foresta d’Oriente”), che sciorinano sei pregevoli pezzi di un potentissimo quanto mai ispirato black atmosferico, che per certi versi mi ha ricondotto ad una quindicina di anni fa, quando ascoltai per la prima volta il magico Ep di debutto dei Nihili Locus, “...Ad Nihilum Recidunt Omnia” o il mitico “The Treasures Arcane” dei Crown of Autumn. La presa che i cinque ragazzi di Venezia hanno avuto sul sottoscritto è stata la medesima che le due band succitate ebbero all’epoca, il tutto fin dalla prima epica traccia, una sorta di intro dal forte sapore medievale, “Campo di Marte”, che ha il merito di introdurci nella corte dei Foret d’Orient. Poi il black dei nostri, ottimamente arrangiato (ma che pecca a mio avviso, ancora in fase di pulizia del suono), fa il suo esordio miracoloso con “Sagitta”, una song violenta che tuttavia ha il grande pregio di spezzare la sua irruenza, con gentili e raffinati tocchi di tastiera e arpa; si avete letto bene, l’eleganza di questo strumento antichissimo, suonato dalla dama Sonia Dainese, conferisce all’intero lavoro, una carica emotiva pazzesca. Meraviglioso il finale della seconda traccia, affidata appunto ai suoni di questo incantato strumento. È con la terza song che l’ensemble italico tocca l’apice compositivo: “Mantva 1328”, il cui anno richiama la data d'inizio del dominio dei Gonzaga sul Mantovano, è una canzone che ci mostra quanto la band sia già profondamente matura, sia in termini compositivi che di songwriting; potenza, dolcezza, misticismo e black metal si fondono alla perfezione nei due movimenti che compongono il brano. Merito anche del cantato in italiano (avanti cosi per favore! Inoltre un plauso al bravo Roberto Catto per il suo cavernoso growling) che dona una maggiore enfasi al risultato finale. Come se ce ne fosse ancora bisogno, il successivo intermezzo è nuovamente affidato alle corde suadenti di Sonia, che ci riconducono ancora per un momento nell’antro più oscuro del nostro tempo, il medioevo. I due pezzi conclusivi, “Diadema” e “Prudentia et Armi”, ci attaccano con tutta la loro veemenza, proponendo l’abbinata black atmosferico/suoni acustici/spruzzate folk, il tutto condito da ottime melodie. Bella, quanto mai inattesa, la proposta dei Foret d’Orient; spero proseguano su questa strada, cercando di smussare quegli angoli del proprio sound, ossia quegli sprazzi in cui una violenza un po’ fine a se stessa (con tanto di iper blast beat) prevarica su tutto il resto. Niente di grave però. “Essedvm” si presenta in modo assoluto come un ottimo biglietto da visita per l’act veneto, che da oggi in poi dovrà essere tenuto sotto controllo da parte nostra… (Francesco Scarci)

(Archaic North Entertainment)
Voto: 80

Grim Monolith - Intempesta Nox

#PER CHI AMA: Black Old School, Satyricon, Emperor
“Canzoni semplici e lineari, suoni cupi e riverberati,  atmosfere sempre a cavallo tra furia e malinconia ed una costante sensazione di spleen ed alienazione. A quest’ultimo aspetto si collegano perfettamente i nostri testi. Inizialmente avevano una piega più fantasy, ma a partire da “Mooncrowned” (il loro secondo album) essi trattano principalmente di fatti personali sempre ben nascosti tra metafore e personificazioni, il tutto dominato da un forte sapore intimista”.Questo è come si raccontano i siciliani Grim Monolith, in un'intervista trovata in rete a riguardo del nuovo album. Niente di più vero! “Intempesta nox” trascina l'ascoltatore in un vortice magnetico e riflessivo continuo, dovuto alla semplicità e profondità dei brani che in sequenza progressiva, cercano di migliorare continuamente l'ottimo risultato di quello che lo precede. Tutto gode di un equilibrio perfetto: uno screaming straziante e carico di tensione, riff chitarristici che volano alti nel cielo dell'epicità e una sezione ritmica omogenea e trascinante senza fronzoli o inutili pacchiane escursioni stilistiche, ne tastieroni alla moda. Sono poche le varianti sul tema e una propensione alla old school of black metal contraddistinta da una vena intimista e malinconica, unita a velocità e alla linearità di tutti i brani ci impedisce di spegnere il cd. Questa linearità più volte menzionata (ma ovviamente, più che positiva) crea un filo conduttore tra i brani e consente l'ascolto tutto d'un fiato e senza lacune dell'intero album. Addentrandoci tra i brani, sono numerosi i rimandi a band come Gestapo 666, Satyricon ed Emperor nella loro forma più diretta e brutale, mentre la voce merita una medaglia d'onore per la qualità di espressione. Si arriva all'ultima traccia per sentire qualcosa di veramente diverso, ovvero, una song di solo organo, che sembra uscire da una cattedrale gotica immersa nella nebbia. L'intero lavoro impazza di violenta emotività. Un sano viaggio nell'ignoto dei nostri momenti più bui e intimisti, qualcosa che lascia il segno e attenti a non rimanerci imprigionati per sempre. Grande, grandissimo lavoro! (Bob Stoner)

lunedì 2 aprile 2012

Naglfar - Pariah

#PER CHI AMA: Swedish Black, Unanimated
“Le porte dell’inferno si sono schiuse ancora una volta...” Così apre lo sheet informativo del nuovo disco della band svedese. Dopo due anni dal precedente e discreto “Sheol”, il quartetto scandinavo approda nel porto della Century Media con un disco che potrebbe tranquillamente rappresentare l’ideale sequel di “Storm of the light’s bane”, dei leggendari Dissection. “Pariah”, quarto full lenght dei Naglfar, ci mostra subito una novità e cioè la dipartita di Jens Rydén, cantante e leader storico della band, sostituito degnamente da Kristoffer W. Olivius, già bassista del gruppo e anche membro dei Setherial e Bewitched. La direzione musicale della band rimane in ogni modo sempre la stessa: “Pariah” è un album di death/black metal in pieno stile svedese, carico di rabbia ma anche di ottime melodie, ben suonato e ottimamente registrato presso i Ballerina Studios. Rispetto al precedente lavoro si può notare un deciso passo in avanti; la nota più significativa è la ripresa dello spirito che caratterizzò lo spettacolare “Vittra” con quel suo sound pervaso da un’aura maligna, inoltre è da registrare un miglioramento delle vocals, con la prestazione davvero notevole di Kristoffer, più malvagio ed inquietante rispetto al suo predecessore. Per il resto, lo stile del “vascello infernale” Naglfar è sempre lo stesso: sezione ritmica senza tregua con l’inconfondibile riff “made in Sweden”, atmosfere sinistre e tecnica ineccepibile. L’unico neo del disco è forse quello di essere abbastanza ripetitivo e incapace di tirare fuori quella personalità in grado di levare i Naglfar a leader indiscussi del genere. Segnalandovi “The perpetual horrors”, “Revelations Carved In Flesh” e “None Shall Be Spread” quali migliori estratti di “Pariah”, vorrei inoltre ricordare che l’album uscirà anche in limited edition con materiale bonus. Ora, lasciatevi pure sedurre dalla fiamma nera dei Naglfar... (Francesco Scarci)

(Century Media)
Voto: 70

Klimt 1918 - Dopoguerra

#PER CHI AMA: Gothic Dark, Novembre
Il talento non lo puoi comprare. Puoi affinare la tecnica o infarcire il tuo stile di elementi che rendano la proposta musicale sempre fresca e al passo con le attuali tendenze, ma il talento no, non lo puoi acquisire con il tempo, né spendendo ore e ore in sala prove e nemmeno cercando di rincorrere un filone particolarmente fortunato. Quel che è certo è che i Klimt 1918 di talento ne hanno da vendere. Già in “Undressed Momento” ne diedero una prova, confezionando un lavoro che sarebbe alquanto banale e riduttivo apostrofare semplicemente come stupendo. Oggi, con il loro secondo album in studio i quattro musicisti romani rinconfermano tutta la loro classe, consegnandoci tra le mani un altro gioiello di musica nostalgica, intensa, profondamente ispirata. E se “Undressed Momento” non aveva tenuto nascosta la fascinazione dei Klimt 1918 per il suono di Tears For Fears e The Police, “Dopoguerra” rende ancor più manifeste tali influenze, rafforzando quel legame con la wave anni '80 attraverso retaggi pop già ampiamente percepibili nel debutto e altri più rock, posti quasi a rievocare il fantasma dei primi U2 (soprattutto nelle linee melodiche di chitarra). Ma, sia ben chiaro, “Dopoguerra” non è un album costruito sulle citazioni e l'attaccamento che il gruppo continua ad esternare per certe sonorità non ha precluso l'evolversi di uno stile personale e riconoscibile. Ciò che mi colpì dei Klimt 1918 all'epoca dell'esordio fu la loro maturità compositiva, ma oggi il gruppo si dimostra ancor più disinvolto e smaliziato nella stesura dei brani, riuscendo a gestire con perfetta maestria ogni componente del proprio suono, a partire dalla voce garbata e passionale di Marco Soellner, fino ad arrivare alla sezione ritmica, che merita una menzione particolare per la scelta più che fantasiosa di ogni singolo passaggio di batteria. Difficile, all'interno dell'album, individuare un brano che spicchi sui restanti, anche perché se “Nightdriver” e “Lomo” possono sembrare i brani più riusciti ed emozionanti, altri episodi come “Snow of '85”, “Rachel” e la conclusiva “Sleepwalk in Rome” rivelano la loro bellezza solo dopo un ascolto ripetuto. “Dopoguerra” si presenta, dunque, come un lavoro durevole e non immediatamente assimilabile, perciò sono quelli che io amo definire climax sonori ad entrare subito in testa e solleticare l'attenzione durante i primi ascolti, mentre le sfumature più nascoste si riescono a cogliere solamente con il tempo e le si apprezza con crescente trasporto man mano che l'album diventa "nostro". Sortire quest'effetto è una prerogativa di pochi o, meglio ancora, è la prerogativa dei Grandi. (Roberto Alba)

(Prophecy Productions)
Voto: 90

Landforge - Servitude to Earth

#PER CHI AMA: Sludge, Post Rock, Doom
Landforge è il progetto solista di una mente alquanto malsana (musicalmente parlando) che risponde al nome di Stephan Carter. “Servitude to Earth” è il secondo lavoro, prodotto dalla Arx Productions ed è composto da sei tracce dalla consueta lunga durata, visto il genere. E di genere parliamone, perché Landforge parte da una background post rock con influenze doom e sfumature metal, con totale assenza di cantato. Per quanto riguarda questo genere e l'album in questione, la chitarra sostituisce la linea melodica generalmente gestita alla voce, lavorando molto sui riff, sui cambi di ritmica e sui suoni. Diciamo che la parte compositiva rientra nella media, la struttura dei pezzi varia costantemente per dare una certa emotività, ma non eccelle, come spesso accade, per fantasia e innovazione. Nota dolente sono i suoni legati alla chitarra. Non voglio certo penalizzare un prodotto totalmente a carico del musicista, ma le distorsione sembrano sempre un po’ povere e fredde. Questo problema si può ovviare con accorgimenti che non impattano sul budget, quindi lascio un punto interrogativo. Giusto per partire dal fondo, cito subito "Phalanx", traccia che chiude il cd, ma che mi ha emozionato maggiormente. Infatti i riff sono più pesanti e la rimica lenta (dio salvi il doom), questo crea un "mood" drammatico a momenti, epico in altri. Ottimo pezzo, ben bilanciato e arrangiato. Risaliamo nella track list e arriviamo a "God-figure", ottima intro graffiante e visionaria, sempre con una ritmica doom e seconde chitarre che tessono una trama evocativa e visionaria. Ci sono i soliti stacchi lenti e puliti, come non prevederli? Bravo Mr. Landforge, ma prova a cogliere una provocazione: se in un contesto "post qualcosa" la chitarra solista venisse supportata da dei synth e affini, avremo forse un'evoluzione del genere? Ai posteri l'ardua sentenza. (Michele Montanari)

(Arx Productions)
Voto: 70