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lunedì 25 aprile 2011

Dynabyte - 2KX

#PER CHI AMA: Electro Death, Cyber, Industrial
Sono sempre stato un grande fan di Cadaveria e quando lasciò gli Opera IX, produsse un vuoto incolmabile nella band di Vercelli, nonché nella mia. Fortunatamente in seguito, la nostra carismatica e brava singer è tornata con il suo progetto omonimo e questi Dynabyte, dove poter dar sfogo alle proprie attitudini più sperimentali, tra l’altro con grandi risultati fin dall’esordio, “Extreme Mental Piercing”, di cui custodisco preziosamente la mia copia. Con questo nuovo “2KX”, il cui significato sarebbe 2010, il trio Cadaveria; L.J. Dusk e l’inossidabile John, non si pongono limiti e si spingono verso lidi probabilmente mai esplorati fino ad ora. Gelidi suoni cibernetici si fondono con break di chiaro rimando techno, con appendici industrial che poggiano su un solido background di musica estrema, ma in questa nuova schizoide release, tutto alla fine si rivelerà estremo. “Equilibrium” apre le danze con la litania pulita di Cadaveria alle vocals che si alterna con il suo growling feroce, sopra un tappeto ritmico contraddistinto da ritmiche assassine create da un riffing dinamico e un pesante intervento di di drum machine e synths. Il marchio di fabbrica si ripete anche nella successiva “F.T.L.” caratterizzata da suoni disturbanti posti ad aprire la traccia, soavi e melodici vocalizzi della nostra lei e un impianto elettronico che fa dell’ossessività il suo punto di forza, non temendo mai di spingere cosi forte sull’acceleratore. I Fear Factory più industriali si fondono con i The Kovenant più elettronici in un arrembante miscela di suoni coinvolgenti, talvolta danzerecci (sempre di pogo stiamo parlando sia chiaro), frenetiche percussioni tribali che penetrano le nostre menti già per conto loro disturbate da una società al limite dello sfacelo. E in questo contesto si pone il tema delle lyrics della release, ossia sul rapporto uomo-macchina, tema già affrontato da diverse altre band nell’ultimo periodo. Intanto il cd scorre via senza un attimo di esitazione, con la voce di Cadaveria (e tonnellate di sintetizzatori) a far la differenza con qualsiasi altra proposta di questo tipo, ad alternare suadenti clean vocals, growling periodo Opera IX e striduli vocalizzi degni del miglior King Diamond. “Cold Wind of Fear”, la psicotica “Speed”, l’inquietante “I’m not Scared” fino alla conclusiva enigmatica “Blinded by my Light” sono solo alcuni degli ottimi esempi di cyber music inclusi in questa nuova release targata Dynabyte, che ha il suo tocco conclusivo di difformità nella scelta di produrre il tutto su una chiavetta USB assai ricca di contenuti multimediali. Nel 2011, i Dynabyte sono decisamente al passo con i tempi, anzi ho come l’impressione che li stiano anticipando in un qualche modo… (Francesco Scarci)

(WormHoleDeath)
Voto: 80

Ritual of Rebirth - Of Tides and Desert

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Testament, The Haunted
Inizio la recensione di questo disco dei Ritual of Rebirth partendo dal fondo questa volta, ossia cari amici metallari, sappiate che il disco è uscito con licenza CreativeCommons ed è quindi già in download gratuito e, soprattutto legale, sul seguente sito: www.jamendo.com/it/artist/ritual_of_rebirth. Detto questo, vi invito proprio a scaricare la musica autoprodotta dall’act italico e a dargli una chance, una grossa chance. Sebbene l’album sia autoprodotto, il contenuto è sicuramente di ottima fattura, fin dal suo aspetto esteriore, andandosi a collocare musicalmente in un ambito non proprio thrash, ma neppure propriamente death metal. La musica dei nostri si piazza infatti a metà strada tra i due generi andandoli tuttavia a centrifugare con aperture che sanno più di heavy metal classico nel senso del termine, piuttosto che di musica estrema, anche se fa dell’aggressività e della violenza il suo credo principale. Si parte forti con la title track, ma è già la sorprendente seconda traccia, “Skep.Tic” a dimostrarci quanto la band sia in piena forma: un treno in fase di deragliamento ci investe subito con il suo locomotore impazzito, pregno di potenza, fornito dal tandem di macchinisti, Tommy Talamanca (mastering) e Fabio Palombi (produzione), senza dimenticarci ovviamente del resto della band che ci prende a martellate furenti con feroci frustrate nel costato. Frustrate che proseguono anche con la successiva, “All is Blank”, song nervosa e stizzosa, caratterizzata da percussioni tribali a metà pezzo, mentre il drumming ossessivo affonda con estremo piacere, insieme ai fendenti (un po’ brevi a dire il vero) offerti dai solos. Questo sicuramente non è un lavoro che fa dei virtuosismi il suo punto di forza, ma è la violenza che gronda dagli strumenti dei nostri a fare la differenza, spingendoci senza ombra di dubbio in un vortice di headbanging impazzito, anche se la maggior parte dei pezzi, alterna sfuriate death/thrash con mid tempos ragionati e dove la voce del buon Alessandro Gorla, impreziosisce con il suo cantato sporco e cattivo la proposta dei cinque ragazzi genovesi. Un bel basso slappato apre “Sick Shylock” prima di concedersi ad una variazione al tema con un bridge che profuma un po’ di techno death, per poi riprendere il tema portante di sonorità thrasheggianti, contaminate da sane dosi di groove e una strizzatina di occhi a sonorità un po’ più post (fighissima la parte conclusiva del pezzo, che elevo a mia traccia preferita). Un mosh frenetico apre “Zebra Stripes” con la voce di Gorla costantemente corrosiva e le ritmiche frenetiche che richiamano ad un che degli Arch Enemy. Ancora mazzate sulla faccia con la settima “Hell to Pay” e con la lunga conclusiva “The Blind Watchmaker”, decisamente la traccia più elaborata (e un po’ più progressive), forse il primo passo alla ricerca di un sound molto più definito e personale, che deve essere in grado di elevare la band ligure sulle altre. Le potenzialità ci sono tutte e "Of Tides and Desert" ne è la palese dimostrazione: sound al passo con i tempi, furia in abbondanza, melodia un po’ col contagocce ma tanta energia da vendere… al miglior offerente! Si attendono ora le migliori offerte… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75

domenica 24 aprile 2011

Lingua - The Smell Of A Life That Could Have Been

#PER CHI AMA: Post Metal, Tool, A Perfect Circle
“La musica è un’energia, una vibrazione che costringe la mente ad una reazione emozionale di qualsiasi tipo, una fonte d’ispirazione, uno strumento terapeutico, una rivelazione di suoni che filtrano la realtà, la musica è una droga, una via di fuga...”. Ecco in poche righe il concetto di musica per questa straordinaria new sensation svedese, che uscita dal nulla, ha sfoderato una prova d’altissima classe e spessore, garantendosi un posto nella mia personale top 10 del 2006. Non starò qui a parlarvi della loro biografia, perchè poche sono le informazioni in mio possesso sulla band; ma partiamo subito con la musica. Il trittico di brani iniziali mi fa capire immediatamente che quello che ho fra le mani è un piccolo gioiello di musica post rock sulla scia di quanto fatto dai Tool: il riff di “May Crayons Guide the Sheep” è sì, preso in prestito dalla band statunitense, ma impreziosito poi dalla voce calda e ammaliante di Thomas, in grado di regalarci emozioni da brivido. Con la successiva “You Wonder Why...”, il vocalist scandinavo dà il meglio di sé gridando a pieni polmoni tutta la sua rabbia, grazie ad uno stupendo ritornello. “Out of Faces” è un brano più intimista, soffuso (con un’atmosfera in pieno stile Deftones) che parte piano, su un leggero riff di chitarra, per poi acquisire lentamente potenza ed esplodere nella quarta traccia, in cui la voce di Thomas si fa più corrosiva e incazzata che mai. Le restanti tracce viaggiano più o meno lungo gli stessi binari, con ottimi arrangiamenti, scariche elettriche, melodie accattivanti, momenti malinconici, il tutto accompagnato poi da un’eccellente perizia tecnica e come sempre dalla suadente voce del buon Thomas in grado di dare, quel qualcosa in più, per fare di “The Smell Of A Life That Could Have Been” un grande album di debutto. Forse la pecca principale della band sta nell’essere un po’ troppo debitrice nei confronti di band quali Tool o A Perfect Circle, e quindi di non avere ancora una personalità del tutto definita. Sinceramente però me ne frego, perchè questo lavoro ha saputo farmi rivalutare un genere che, esclusi i Tool stessi e pochi altri, aveva ben pochi protagonisti sulla scene e ben poco da dire. Per me “The Smell Of A Life That Could Have Been” rappresenta quindi un ottimo album e un ottimo acquisto da fare assolutamente in attesa della recensione dell'ultimo brillante cd per la nostrana Aural... (Francesco Scarci)

(Rebel Monster Records)
Voto: 85

Demonaz - March of the Norse

#PER CHI AMA: Bathory, Immortal
Rimasto nell’ombra per quasi quindici anni, Harald Nævdal, meglio conosciuto con il nome di Demonaz Doom Occulta, torna ad esprimere il suo talento attraverso la chitarra e ad alimentare una vena creativa ormai sopita da lungo tempo, perché relegata unicamente all’attività di paroliere in casa Immortal. Il musicista norvegese imbraccia nuovamente la sei corde e torna dunque a dar sfoggio delle sue abilità di songwriter, ma in una veste mutata rispetto al passato. Il territorio sul quale ama avventurarsi Demonaz è sempre circoscritto ai confini stilistici del metal estremo, ma l’era di “Battles in the North” e “Blizzard Beasts” è indubbiamente lontana e le sonorità aspre degli esordi con gli Immortal concedono il passo ad un’interpretazione musicale più libera, scevra dai rigidi schemi imposti dal black. “March of the Norse” ha radici ancor più profonde e attinge a piene mani da un metal di stampo classico, pregno di momenti epici che non tardano a rivelare una fortissima influenza Bathory, forse più nelle atmosfere che negli accordi. Degni di nota sono brani come “All Blackened Sky” e “Under the Great Fires”, caratterizzati da chitarre granitiche e incalzanti, che fungono da vigoroso sostegno ad un incedere vocale ruvido, talvolta magniloquente. Sono comunque “A Son of the Sword” e “Over the Mountains” le protagoniste indiscusse dell’album, due composizioni dal taglio fortemente “nordico” in cui l’avvincente melodia e i solo ben articolati di chitarra rimandano a paesaggi innevati di monumentale bellezza. Certamente la ripetitività di alcune soluzioni stilistiche potrebbe ascrivere “March of the Norse” alla categoria degli album derivativi, ma va riconosciuto che in quaranta minuti di musica non si avverte alcun attimo di cedimento e già questo è un pregio non indifferente. (Roberto Alba)

(Nuclear Blast)
Voto: 80

lunedì 18 aprile 2011

Nemost - The Shadow's Trail

#PER CHI AMA: Death Progressive, Amorphis, Insomnium, Opeth
Francia… ultimamente sinonimo di qualità e i qui presenti Nemost ne sono l’ennesima dimostrazione, dopo aver ascoltato da poco anche i loro connazionali Folge Dem Wind e recensito gli strabilianti Carcariass. Arpeggio da brividi iniziale e poi linee di chitarra di chiaro rimando Amorphis ad invitarmi a rilassarmi in poltrona e gustarmi questa nuova scoperta nella vicina terra d’oltralpe. L’inizio affidato a “Sardanapale” mi rilassa immediatamente: ritmi assolutamente mai forzati, melodia cristallina, vocals roche (mai completamente growl) e tanta semplicità in quei giri di chitarra che si incuneano immediatamente nella testa. Con la successiva “Skin for Skin”, il quintetto parigino perde un po’ di quell’immediatezza del brano iniziale, con un mid-tempo che ha comunque come forte richiamo un riffing di chiara matrice nordica, finlandese per l’esattezza. “Whisper” è un vero e proprio sussurro nell’oscurità, con i suoi sette minuti e passa di musica che aprono in modo onirico per lanciarsi ben presto, in una scorribanda brutale, ma è solo un fuoco di paglia non temete, perché la band si rimette sul binario giusto del death melodico, che trova anche nelle note degli Insomnium la propria fonte di ispirazione. Si, probabilmente l’album potrà apparirvi un po’ derivativo, ma non importa; l’interlocutoria “Unexpected”, una sorta di semi-ballad, ci mostra l’aspetto più intimistico dei nostri, anche se la parte centrale abbastanza infuocata, rallegra gli animi con quelle sue ritmiche veloci, prima di incupirsi in un finale decadente. “Fading Ember” è un altro attacco acustico che ci introduce a “Orcus”, song forse un po’ anonima ma che comunque si incastra bene nel contesto di questo “The Shadow’s Trail”, se non altro per il rockeggiante assolo conclusivo. “Ritual” è una song oscura, psichedelica e malinconica, forse quella che si discosta maggiormente dalle altre (e che ho preferito maggiormente), peccato solo che talvolta la voce di Thibaud non si dimostri propriamente all’altezza, forse per “l’indecisione“ di fondo se essere completamente growl o pulita. Comunque song davvero apprezzabile, prima della conclusiva “Through Life”, che chiude degnamente un album che farà la gioia di chi ama sonorità death doom progressive nord europee. Nemost, mi raccomando, teniamoli d’occhio… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

domenica 17 aprile 2011

Symbol Of Obscurity - n.N.i.M.m

#PER CHI AMA: Melo Death
Appena me lo passo tra le mani, rimango colpito da due cose di questo disco: l’artwork e l’ostico titolo. Sul primo tornerò più sotto. Per il secondo, l’arcano è spiegato all’interno del CD: “n.N.i.M.m” sta per “new Name in Metal mithology”. Alla faccia della modestia! Sono riusciti nell’intento? Sono davvero un nuovo nome da riportare nella mitologia metal? Vediamo... I nostri sono 4 moscoviti (ah, l’est quanto è particolarmente attivo) e la loro fatica si colloca nel genere melodic death metal. Ne seguono gli stilemi classici, ma qualche assolo, forse più melodico di quanto atteso, se lo lasciano scappare. Dalle sei tracce, dai ritmi martellanti e serratissimi, i ragazzi evocano nella mia testa atmosfere oscure, asfissianti ma energetiche. Secondo me il punto di forza risiede nella compattezza delle singole canzoni. In ognuna di loro, tutto si fonde abbastanza bene: dagli assoli ora melodici, ora più cupi, all'instancabile batteria. Mi lascia un po’ perplesso la monotonia della voce del cantante, forse bloccata dal volersi attenere rigidamente al genere. Le songs non eccedono in lunghezza. È un bene, si fossero lasciati andare sarebbero risultati stucchevoli e avrebbero perso forza subito. Ad essere sincero, qualche rifinitura qua e là avrebbe reso il tutto più godibile. Come promesso torno sul design del package e sull’artwork, molto intriganti. La cover è particolarmente bella e anche le immagini interne sono evocative delle arie del platter. Bravi. Torniamo alla domanda iniziale: “Sono davvero un nuovo nome da riportare nella mitologia metal?”. Per ora no. Quest’album piacerà certamente ai fans più legati al genere, ma i nostri dovrebbero puntare a qualcosa di più personale sia nella parte musicale (in particolare non mi spiacerebbe se riuscissero a portare in primo piano le linee di basso) che nel cantato (davvero la voce è un po’ troppo ripetitiva). Atmosfera e tecnica ci sono, la presenza di un nota caratteristica e di qualche variazione non potrebbero che fare bene ai lavori futuri. (Alberto Merlotti)

(Ghost Sentry Records)
Voto: 65

Deformachine - Promo 2009

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Fear Factory Machine Head
Un’altra band emerge dall’underground italico dopo una militanza di ben 10 anni. È infatti ascrivibile al 2000 la data di nascita di questi deathster di Alessandria, che ci divertono qui con un promo cd di 4 pezzi di inossidabile death thrash metal. Ancora una volta però c’è da dire che, per quanto onesta possa essere la proposta del combo piemontese, che nel corso di questa decade ha condiviso il palco con Necrodeath, Sadist, Node e Dark Lunacy (tanto per citarne alcuni), poco per non dire quasi nulla, c’è di originale in quarto d’ora di musica. Musica che propone un bel thrash death tirato, con le classiche chitarre violente e corrosive lanciate a tutta velocità contro l’ignaro ascoltatore. A differenza del precedente lavoro, “Over G”, dove magari era più la violenza a farla da padrone, in questo caso, il suono si è più modernizzato, complice l’influsso di band quali Fear Factory o Machine Head, ma il risultato che salta fuori è qualcosa che puzza già di stantio perché sentito e risentito. Per carità, di sicuro c’è da divertirsi per una serata in compagnia, all’insegna del pogo violento e dell’alto tasso adrenalinico, ma poi niente più. La longevità di questo promo cd non può superare la settimana di vita, perché nulla è in grado di stamparsi nelle nostre menti, perché non c’è uno spunto vincente, un qualcosa di inedito o una qualsiasi cosa che possa catturare la nostra attenzione. La sufficienza è dovuta solo alla buona tecnica (all’ottima performance del vocalist) e alla voglia di spaccare da parte del quintetto, per il resto meglio passare oltre perché dopo dieci anni era lecito aspettarsi qual cosina in più. Forse un barlume di speranza può essere rappresentata da “To Present God”, la song più diversa delle 4 proposte, per quel suo maggior eclettismo sonoro, ma coraggio ragazzi, fuori le palle e iniziamo a sperimentare, altrimenti assisteremo alla morte del metal! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 60

Hall of Hate - Into the Unreal World

#PER CHI AMA: Metalcore/Swedish Death, Unearth, Lamb of God
Suoni disturbanti, campionamenti vari e una voce quasi rubata dai Moonspell, aprono questo democd degli umbri Hall of Hate, band di giovane formazione, nata nel 2008 con l’intento di suonare metal con influenze swedish. Dell’intro abbiamo già parlato, segue “Unreal” e più che swedish metal mi viene da pensare a suoni più tipicamente “core” americani, con la voce di Aster che sembra strozzata nella sua espressione, mentre la musica, complice sicuramente una produzione non all’altezza, vive in un’alternanza di cambi di tempo senza mordente. Segue una schizofrenica “Beware of the Living”, song veloce nella sua parte iniziale, che presenta un mid-tempo un po’ sconclusionato nella parte centrale, con le vocals isteriche a infastidire non poco l’ascolto e la chiusura affidata alla classica cavalcata finale con tanto di banale assolo. Skippo in avanti perché Aster è alla lunga insopportabile nella sua performance vocale (anche se intuisco che voglia fare il verso a Tompa degli At the Gates, ma in questo caso ci troviamo su un altro pianeta) e un arpeggio apre “I’ve Lost”, brano più tranquillo e meditativo, melodico, una sorta di ballad acustica sostenuta da quell’arpeggio iniziale e dai suoni campionati; ah finalmente qualcosa di originale per le mie orecchie. Manco a dirlo e con le successive “Headshot” e “B.F.G.” si torna a suoni che fanno della banalità il proprio credo, nel tentativo remoto di imitare act quali Unearth o Walls of Jerico. C’è da lavorare e ancora molto, altrimenti il rischio di fare un clamoroso buco nell’acqua con le prossime uscite è davvero concreto. Si cerchi intanto di capire che genere voler suonare, swedish, black, metalcore o industrial e poi da li studiarsi la lezione impartita dai grandi e con un pizzico di personalità cercare di partire con calma, senza fretta… (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 50