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sabato 17 dicembre 2011

Laetitia in Holocaust - Rotten Light

#PER CHI AMA: Black/Avantgarde, Blut Aus Nord
Molto più facile recensire una band dopo che l’hai intervistata e ne hai capito le intenzioni malvagie o misantropiche, tuttavia per i Laetitia in Holocaust non è stato decisamente il caso. La band di Modena che ho avuto modo di conoscere e con cui ho avuto modo di approfondire le tematiche contenute in questo disco, “Rotten Light”, mi ha immediatamente colpito per il suo essere fuori dal comune, anticonformisti al massimo e la cosa si riflette anche nella loro musica, che ha l’immenso pregio di non essere accostabile a nessun’altra band in circolazione. E come ben sapete, quando mi ritrovo al cospetto di tale originalità, la mia attenzione ne è catalizzata al massimo. Ma partiamo con la recensione e lo facciamo da un fermo caposaldo: “Rotten Light” non è un album semplice, anzi: bisogna avere una grande apertura mentale per affrontarlo anche a livello di liriche, costantemente relegate nel filosofico, ma il fatto di essere scritte in italiano all’interno del booklet, agevola non poco la possibilità di entrare nelle menti deviate di questi ragazzi. Il cd si apre con la cerebrale “Dialogue with the Sun”, canzone assai ipnotica, che nei testi riprende il tema della cover cd, ossia delle locuste che divorano il sole, ma non voglio entrare in maggior dettaglio nei testi, in quanto rischierei di dare una errata interpretazione del significato che l’act di S. e soci vuole trasmettere. Ciò che conta è la musica, ma per una volta nella vita, mi trovo veramente in difficoltà nel dovere affibbiare un’etichetta ad una band; mi limiterò col dire che sperimentale o d’avanguardia, sia la soluzione più semplice per definire il sound dei nostri. Abbandonati infatti gli estremismi sonori del precedente lavoro, “The Tortoise Boat”, “Rotten Light” si presenta come un viaggio angosciante nei meandri più reconditi della psiche umana e lo fa attraverso dei brani che sembrano collegati fra loro, partendo dalla già menzionata “Dialogue with the Sun”, passando attraverso la furente (solo per il drumming incessante che si interseca a delle splendide chitarre acustiche) “Black Ashen Aurora” (dove non riesco a capire se i colpi dati sulle pelli siano umani – ma in tal caso sarebbero disumani - o creati da una drum machine); la straniante, allucinante e malinconica “Le Perdu de Novembre”, dove il cervello va completamente in pappa per dei suoni allucinanti che si incuneano nelle nostre reti neuronali, disorientandoci completamente. Non c’è uno schema ben preciso nelle note dei nostri, è improvvisazione allo stato puro; la band si diletta a mettere in musica ciò che più gli piace senza rispettare un ordine naturale delle cose. Ancora suoni inquietanti aprono “Ascension to Cursed Waters” e se volete nei nostri si può ritrovare un’attitudine disarmonica/avanguardistica simile a quella dei francesi Blut Aus Nord, anche se poi ben poco la musica ha a che fare con quella dei blacksters francesi. La cosa incredibile che contraddistingue il trademark dei nostri è creare il chaos con delle semplici parti arpeggiate, bellissime vocals (la cui fonte di ispirazione potrebbe essere Attila Csihar) e ambientazioni orrorifiche, come nel caso di “Sulla Soglia dell’Eternità”, una sorta di mini suite per un film dell’horror, con spettrali giri di chitarra e vocals sussurrate… mortale e affascinante. Questi signori, sono i tormentati Laetitia in Holocaust, una delle realtà più interessanti che mi sia capitato di ascoltare in questo noioso e tormentato 2011. Creatività e morbosità allo stato puro! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 90

venerdì 16 dicembre 2011

Rust Requiem - Migrationis Obscura Aetas

#PER CHI AMA: Black rituale, Burzum, primi Bathory
Beh, la prima cosa che di sicuro balzerà all’occhio, anzi all’orecchio di chi si avvicinerà a questo cd, è la scelta di aver cantato l’intero album tutto in latino, questo con l’intenzione di voler mantenere intatto il passato a noi familiare, quello portatore del nostro bagaglio culturale che trae origine dagli antenati romani che furono padre dell’antico splendore delle civiltà europee. Fatta chiarezza su questo aspetto, passiamo alla musica, esempio di funereo depressive black metal, portatore di angosce e orripilanti paure. L’idea di Ianvs, mente e unico membro dei Rust Requiem, è quella di presentare un’opera concettuale sulla spiritualità umana, sulla sua forza e sulla sua fragilità. Progetto ambizioso, estremamente interessante, ma dall’esito non del tutto sofddisfacente. La musica stenta infatti a decollare, catalizzando l’attenzione dell’ascoltatore, per il primo quarto d’ora (e nella quarta traccia soprattutto), su cerimoniali liturgici decisamente noiosi. Poi si scatena la furia black, con i suoni che risultano sempre troppo gelidi, colpa probabilmente di una produzione non proprio all’altezza e le soffuse vocals di Ianvs che fanno fatica a risollevare un cd che ha ben poco di vincente da offrire. Il genere proposto, quello del filone depressive black, trova anche qui i suoi momenti strazianti, oscuri, opprimenti in cui l’unico pensiero a prevalere è quello dell’autodistruzione, però ormai è diventato troppo “commerciale” e di aria fresca in queste scarne note ce n’è ben poca. Laceranti esplosioni elettriche interrompono poi i catatonici momenti di ansia, creati dalle oscure sinfonie di organi sinistri: cavalcate black sullo stile dei primi Burzum e primi Bathory, contraddistinguono infatti le rare parti più movimentate di questo cupo lavoro, portatore di morte e disperazione! Inquietante. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 55

Dark End - Damned Woman and a Carcass

#PER CHI AMA: Black/Death/Gothic, Cradle of Filth
Gli emiliani Dark End a tre anni dalla loro fondazione, giungono al traguardo della prima release ufficiale. “Damned Woman and a Carcass”, fin dalla sua intro, rievoca i vampireschi intermezzi dei Cradle of Filth; poi, via si parte con la musica, un mix di black death melodico arricchito da aperture sinfoniche, che comunque mantengono come punto di riferimento la band di Dani “Filth” e soci. Sicuramente le vocals (ad opera di Pierangelo Oliva, voce dei Confusion Gods) non sono urlate come quelle del buon vecchio Dani, assestandosi infatti in gorgheggi squisitamente death; la musica apre ad atmosfere gotico-decadenti, probabilmente influenzate dalle poesie di Baudelaire estrapolate dallo “Spleen” e da “Les Fleurs du Mal” che costituiscono le liriche di questo lavoro, disegnando poi articolati giri chitarristici non propri del genere. Il risultato, pur non evidenziando nulla di originale, si lascia piacevolmente ascoltare grazie a quel suo alternarsi di momenti di furia selvaggia, tipica del black, con le parti più orchestrali dovute al sapiente utilizzo delle keys, ad opera di Simone Giorgini, eccellente pianista e compositore; sicuramente l’inserimento di ritmiche più orientate verso stilemi tipici del death progressive, frequenti cambi di tempo e parti acustiche, contribuiscono a migliorare la qualità di “Damned Woman and a Carcass”. Da segnalare infine, la chiusura affidata a “Love Will Tears us Apart”, interessante cover dei Joy Division. Siamo comunque di fronte ad una band dalle idee ancora non del tutto chiare ma sono certo che con un pizzico di esperienza in più, qualche buon suggerimento e brillante idea, l’act italico, avrà tutte le potenzialità per sfondare! (Francesco Scarci)

(Necrotorture)
Voto: 65

Infinity - The Arcane Wisdom of Shadows

#PER CHI AMA: Black svedese, Dissection
Una mistica intro apre le danze di questo capitolo, il quarto, per gli olandesi Infinity. “The Arcane Wisdom of Shadows” ci regala più di 50 minuti di black metal che fin dalle sue prime battute non può che rievocare nella nostra memoria le note di “Storm of the Light’s Bane” dei compianti Dissection. Rispetto alla band di John Nodtveidt e soci, al combo olandese manca però quella malvagia melodia che ha invece caratterizzato il sound dell’act svedese; per il resto direi, che gli Infinity potrebbero (ma ne dubito perché manca la classe dei Dissection) diventare gli eredi della grande band scandinava, in attesa tuttavia di capire se i riformati Unanimated hanno le palle per prendere in mano il testimone dei Dissection. Il feeling maligno emanato dal suono del duo olandese, è quello tipico di marca svedese: ritmiche veloci, riff taglienti come rasoi, qualche mid tempos a rallentare qua e là la furia black, un paio di frangenti acustici, qualche leggero sprazzo melodico e l’ugola vetriolica di Baldragon Xul a decretare la fine dei giochi. I nostri, con un leggero ritardo di 13 anni, cercano di ripetere quanto fu proposto nel 1995 dai miei idoli, con risultati non del tutto soddisfacenti. Questo, se volete, può essere il limite di “The Arcane Wisdom of Shadows”, che comunque potrà piacere a chi soffre ancora di nostalgia per quei tempi: la nuova release degli Infinity potrà dunque fare al caso vostro. Da segnalare che le prime mille copie sono state rilasciate in un lussuoso formato digipack. Che altro dire: disco onesto ma non fondamentale. (Francesco Scarci)

(Bloodred Horizon Records)
Voto: 60

sabato 10 dicembre 2011

Smohalla - Resilience

#PER CHI AMA: Black Avantgarde, Ved Buens Ende, Arcturus, Ulver, Limbonic Art
Gli Smohalla sono una band francese che avevo già avuto modo di ascoltare e apprezzare ai tempi dell’EP di debutto “Nova Persei”. Era il 2007 e ora finalmente è uscito il full lenght e non posso che rilevare che nel corso degli ultimi quattro anni, la qualità del terzetto transalpino si è elevato, in termini qualitativi, di molto. Partendo da una copertina di indubbio riferimento esoterico-massonico, i nostri sfoderano otto brani, che non fanno altro che confermare l’assoluto valore della scena francese. Non siamo di fronte a mostri sacri come Deathspell Omega o Blut Aus Nord, ma se mi è concesso, poco ci manca, proprio perché gli Smohalla ci offrono su un piatto d’argento una musica che, pescando dal sound enigmatico di Ved Buens Ende, a cui aggiungono le orchestrazioni degli Arcturus più ispirati, e con un tocco della schizofrenia dei già citati Blut Aus Nord, il risultato ha davvero del sorprendente. Difficile identificare una song piuttosto di un’altra, in quanto tutte le canzoni qui contenute hanno un che di originale e inebriante da proporre: non esiste infatti un canovaccio ben preciso che i nostri seguono nella costruzione, totalmente disarticolata, dei loro pezzi e questo è per le mie orecchie assai buono. La musica dei nostri, partendo da lontanissimi richiami in stile Limbonic Art, innesta nel suo interno suggestioni oniriche (“Marche Silencieuse” tanto per capire), inserti elettronici, frangenti ambient, arrangiamenti da brivido, passaggi d’avanguardia che esulano in modo inequivocabile dal metal e per non farci mancare nulla, anche feroci sfuriate black metal (“L’Homme et la Brume”); il tutto è impreziosito ulteriormente dalle vocals di Slo (le liriche sono tutte in francese) che si dilettano in un doppio ruolo, screaming (stile Solefald) e cleaning (stile Ulver). Ecco, forse proprio dai Solefald, i nostri risultano più influenzati, ma non da un punto di vista stilistico, ma in termini di improvvisazione e ciò è quello che renderà gli Smohalla la vera sorpresa di questo 2011 (in coabitazione con i Solstafir), che sta per concludersi. Se il buongiorno si vede dal mattino, i nostri sono destinati ad un futuro glorioso, in compagnia dei più grandi nomi di sempre. Eccellente debutto, da avere ad ogni costo! (Francesco Scarci)

(Arx Productions)
Voto: 85

Carthasy - Apertures

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive/Alternative, Tool, Porcupine Tree, Lingua
Australia: vera fucina di talenti, terra lontana da cui arriva sempre ed inevitabilmente una ventata d’aria fresca, innovativa, una brezza che accarezza il nostro viso, in grado di scuotere i nostri sensi. Ho atteso un paio di mesi per ascoltare il nuovo EP della band di Perth, dopo che ero stato conquistato dal loro demo cd di inizio anno e direi che ne è valsa la pena: 25 minuti aperti dall’aspra “Crawl”, che ci aggredisce nei suoi soli due minuti e poco più, con un rock rabbioso e diretto allo stomaco, prima di lasciare la palla alla più atmosferica “Key to Knowhere”, una song più melliflua, che mischia sonorità shoegaze, ad una ritmica più di scuola Tooliana e dove la voce di Lindsay si fa calda, cosi come il sound, cadenzato sin dall’inizio, dalla timbrica suadente del basso e da una chitarra psicotica. Si prosegue con “Inhale” e la song è decisamente da brivido con un’apertura ariosa che presto si incupisce e in cui è sempre il basso, questa volta aiutato da un drumming ipnotico, a dettare i tempi; la voce si dipana tra il cleaning e l’effettato, mentre la musica è decisamente intrigante ed elegante, pur suonando sempre in modo semplice e lineare, una sorta di mix tra il progressive dei Porcupine Tree e l’alternative dei Tool, in un crescendo di suggestioni oniriche che elettrizza il mio cervello nella cavalcata finale. Si arriva alla tribale/schizoide/fluida “Drift” e ci troviamo di fronte al lato più sperimentale dei nostri, ma anche a quello più introspettivo e malinconico. “Drift” è una song di quattro minuti pregna di malinconia, tipicamente post rock, in cui anche la voce di Lindsay si carica emotivamente di passione e trasuda un forte senso di inquietudine. Giungiamo sfortunatamente all’ultima traccia, la title track e la band ritorna alle sonorità di matrice americana, mostrando tuttavia una semplicità nei suoni disarmante, il che conferisce una maggiore accessibilità alla proposta del combo australiano. Vorrei spendere un’ultima parola per il bel digipack di “Apertures”, che mostra una bellissima foto in copertina e meravigliose fotografie nel booklet interno, una serie di scatti che possono rappresentare un inno alla solitudine. Il viaggio è ahimè finito, attendo con ansia il full lenght della band ora, non ci sono più scuse. Magnetici! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80

Sacratus - ...Paradise for Two

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Paradise Lost, My Dying Bride
Li avevamo lasciati poco più di due mesi fa con il loro debut “The Doomed to Loneliness” e torniamo oggi a recensire i russi Sacratus, con un nuovo lavoro, decisamente più maturo del suo predecessore. “…Paradise for Two” presenta otto tracce di cui tre ri-registrate provenienti dal precedente album. Diciamo subito che la formula non è cambiata granché, in quanto l’act di Cherkessk continua a proporre un death doom dalle forti tinte autunnali. Ciò che è migliorato sensibilmente è il songwriting, la struttura dei brani si è snellita, con pezzi più brevi, digeribili e intellegibili, le vocals continuano a rappresentare il pezzo forte dei Sacratus, muovendosi tra growlings mai estremi e cleaning vocals assai piacevoli. Ciò che di fatto fa fare un salto di qualità al quartetto è la vivacità della proposta, che richiama per certi versi i Paradise Lost di “Shades of God” o i My Dying Bride di “Turn Loose the Swans”, mostrando però più sprazzi di solarità nel loro sound, anche se comunque a parte la opening track, tutte le altre songs sono finiscono per l’essere imbrigliate in un senso di velata cupezza. Ma d’altro canto se cosi non fosse, non sarebbe di sicuro doom quello che i quattro propongono. “Shadow”, “The Hard Thinking”, “Tristeza Mia”, ma soprattutto l’arabeggiante “Revelation” (la mia preferita e forse anche la migliore del lotto), fluiscono senza intoppi e il loro ascolto non scade di sicuro nella noia, come mi era capitato invece nella precedente release. Quel che è appare chiaro è che tra le mani non abbiamo nulla di nuovo, è sempre un sound abbastanza derivativo che non apporta grosse novità al genere. Però mi sembra che l’ensemble russo stia lavorando egregiamente, anche grazie al supporto dell’attenta etichetta Darknagar Records e che quindi meriti la vostra attenzione. Per ciò che riguarda le tre tracce ri-registrate, “Madness”, “Fallen Angel” e “The Last Hope”, i nostri tornano ad ammorbarci con pezzi stralunghi in grado di rubarci una mezz’ora della nostra vita, con visioni cupe e catastrofiche. Depressi! (Francesco Scarci)

(Darknagar Records)
Voto: 75

Meadows End - Ode to Quietus

#PER CHI AMA: Swedish Death, Dark Tranquillity, In Flames
Con notevole ritardo, giunge finalmente sulla mia scrivania, il lavoro degli svedesi Meadows End. Un pianoforte, accompagnato da una chitarra, in chiaro stile “Göteborg”, apre questo “Ode to Quietus”, un lavoro godibile, che fa delle facili melodie, quelle che si imprimono nella testa immediatamente, il proprio marchio di fabbrica. La musica del quintetto svedese infatti è un tipico melodic death metal di matrice svedese, la cui melodia pesca a piene mani dai grandi maestri di sempre, In Flames e Dark Tranquillity su tutti, mentre a livello di pesantezza o velocità, qui ci posizioniamo su un mid-tempo mai eccessivamente pesante o serrato. Già la prima “Beyond the Dead Cold Surface” ci dimostra la relativa tranquillità con la quale la band di Örnsköldsvik ci assale, mentre la successiva “Resurrection of Madness”, song un po’ più tirata ma intrisa di cupa malinconia, ci mostra il lato più oscuro dei nostri: belle linee di chitarra, un ottimo growling e delle tastiere a rendere più accessibile il sound dei nostri. La terza “The Gloom that is his World” vede ancora la band scimmiottare i conterranei In Flames, ma d’altro canto chi può biasimarli, l’act guidato da Anders Friden rappresenta ancora la summa dello swedish death e lo dimostra il fatto che ancora decine e decine di band cerchino di imitarli, con risultati niente male, appunto come nel caso degli stessi Meadows End, che cercano di aggiungere a quelle tipiche melodie svedesi, anche quel “folclore” nordico riscontrabile nella musica degli Amorphis (“Homeland” ne è un esempio). Non manca tuttavia qualche traccia più tirata (“Coven of Blood” ad esempio), sempre però colma di un certo groove e melodie catchy, ma anche qui poi emerge forte l’eco della band finlandese, nella sua parte centrale. “My Demon”, “Starvation 23” e “Falling Asleep” chiudono infine un album che sembra non avere grosse pretese, se non allietare il pubblico con una proposta “easy listening”, che sicuramente sarà apprezzata dagli estimatori del genere melo death ma anche dalle frange meno estreme e più votate al metal atmosferico. Interessanti, ma non del tutto al passo con i tempi. (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

giovedì 8 dicembre 2011

Drastique - Pleasureligion

#PER CHI AMA: Death/Gothic/Electro, Devil Doll
Chris Buchman, dopo il debutto "Thieves of Kisses" uscito nel 1998, si ripropone accompagnato dalla cantante Fay e dall'ex-Ensoph Mahavira. Il cambio di monicker da Drastic a Drastique sembrava suggerire una radicale svolta stilistica del progetto e invece "Pleasureligion" si presenta come la naturale evoluzione del suo predecessore, mantenendosi sui binari di un gothic metal avanguardista, coadiuvato da orchestrazioni sinfoniche e vocals estreme. Rispetto a "Thieves of Kisses", il nuovo album è comunque nettamente più violento e questo appare chiaro immediatamente dall'ascolto dell'opener "5enses", dove il muro di chitarre e la velocità sostenuta non lasciano dubbi su quale sia l'intento della band: aggredire e farci vivere emozioni forti! Va detto che, nonostante l'estremizzazione del suono, il buon lavoro di Chris ai synth non è stato per nulla oscurato e nemmeno la dolcezza del cantato femminile ne ha risentito, conservando quella poesia che si era potuta apprezzare anche nell'album precedente e che ora trova in Fay l'interprete ideale. Anche lo screaming di Mahavira sa essere convincente, mentre le parti di voce pulita risultano talvolta eccessivamente pompose, rischiando di appesantire l'ascolto. Nonostante questa pecca non sia sempre trascurabile e alcuni aspetti del songwriting vadano affinati, ciò non va comunque ad intaccare il valore di alcuni episodi realmente riusciti come "The Succubus", "Voyage Dans la Femme", la romantica "Immortal Beloved" e la già menzionata "5enses", un brano che si mantiene in bilico tra la follia espressiva di Devil Doll e le ritmiche martellanti dei Samael (era "Ceremony of Opposites"). Il giudizio complessivo rimane quindi positivo e il mio consiglio è quello di avvicinarvi a "Pleasureligion" lasciando da parte certi paragoni poco calzanti con Limbonic Art e Tristania che la casa discografica decise di affibbiare ai nostri. Vi invito, anzi, a rivolgere un ascolto molto attento all'album, cercando di non soffermarvi ad una prima superficiale impressione, ma di cogliere invece ogni sfumatura della musica dei Drastique, per farvi avvolgere dalla sensuale brezza di piacere che essa è in grado di sprigionare. (Roberto Alba)

(Beyond Prod)
Voto: 70

Древо - Величие

#PER CHI AMA: Pagan Black, Summoning
Non potete immaginare quanta fatica abbia fatto per decifrare il nome del gruppo, il titolo dell’album e riuscire, invano, a cercare informazioni a proposito di questa band russa. Il nome dell’ensemble, costituito dal solo Jaromir, significa “Albero”, ma il fatto di essere scritto in cirillico non aiuta di certo, cosi come pure il suo sito internet, completamente scevro di qualsiasi tipo di notizia biografica. Quindi mi appresto a recensire questa release, come se fossi bendato e affidandomi al mio solo senso uditivo. L’apertura, affidata alla title track, ci dice immediatamente che ci troviamo all’interno del panorama ambient-medieval, con suoni di un’epoca passata che echeggiano nelle casse del mio stereo e ci riconducono indietro nel tempo di un migliaio di anni. L’act di Nizhny Novgorod ci prende per mano e conduce a corte di castelli di principi o re del passato, con menestrelli e giullari ad allietare i nostri momenti. E cosi, ecco arrivare “Созидание”, che con il suo suono ipnotico ma allegro incedere, mi rilassa e rende l’ascolto di questo strano cd estremamente piacevole. Mai abbassare la guardia però, perché “Ледяная Явь” ci catapulta invece in uno scenario più black metal oriented, anche se completamente strumentale, con il grosso difetto di affidare la ritmica all’utilizzo di una fredda e sterile drum machine. Il risultato non è certo dei migliori anche se la melodia di fondo sarebbe assai gradevole, con un finale in completo stile Burzum (periodo ambient). Uno screaming disumano apre “Воля-Вольница”, risvegliando nella mia intorpidita memoria, gruppi che non sentivo da una vita, come gli austriaci Summoning o gli spagnoli Elffor. Il sound risulta alquanto caotico, con un black metal come elemento portante, accompagnato da una serie di orpelli folk che dovrebbero mitigarne l’estro selvaggio. Una registrazione ovattata e un po’ grezza, non certo ideale per questo genere di sonorità, ne rovina ahimè l’esito finale. Poco male perché invece la successiva “Рассвет” presenta una registrazione del tutto differente, il che mi lascia pensare che forse questo lavora possa rappresentare una sorta di compilation. Di qualunque cosa si tratti, e questo non mi è dato di saperlo, la musica dei Drevo (la trasposizione inglese del nome della band) è un coacervo di black pagano, ambient e folk che potrà solleticare i palati di chi ama questo genere di sonorità; per gli altri credo si tratti di una proposta abbastanza ostica, soprattutto perché cantata in russo con una registrazione altalenante e con delle composizioni altrettanto altalenanti che potrebbero si interessare gli amanti del black e far sorvolare chi ama l’ambient e viceversa. Decisamente una release non facile, anche se per il sottoscritto, dotato di una certa (ampia direi) apertura mentale, questo “Величие” non è affatto malaccio. La cosa su cui sicuramente lavorerei è la sezione ritmica, sostituendo la componente glaciale della drum machine con un batterista in carne ed ossa; in secondo luogo darei una maggiore omogeneità nella produzione e cosi pure perfezionerei la cura nei particolari e la pulizia dei suoni. Per finire, adopererei qualche miglioria a livello vocale; letto cosi sembrerebbe che l’album sia da buttare, invece devo essere sincero e dirvi che dopo tutto mi piace, soprattutto se impegnato in letture a sfondo fantasy. Ultima nota: a chiudere il cd c’è una cover dei Carpathian Forest della magnifica “The Northern Hemisphere” che sancisce la bontà e la genuinità di un lavoro, senza ombra di dubbio, destinato a rimanere nel mondo dell’underground più recondito. Misteriosi! (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 70

domenica 4 dicembre 2011

Veratrum - Sangue

#PER CHI AMA: Brutal Death/Black/Grind, Infernal Poetry
Mi mancava proprio farmi maciullare le ossa in questo periodo pre-natalizio e i bergamaschi Veratrum rappresentano la giusta cura a questa mia necessità. “Sangue” è il demo cd di quello che sembra essere più un side project di Voland e Fosch, che una band a tutti gli effetti (sicuramente sarò presto smentito con l’uscita del loro full lenght), un lavoro che infervorerà di certo gli amanti del brutal death di stampo americano, ma non solo. Esso racchiude cinque pezzi cantati in italiano che sicuramente vi strapazzeranno le orecchie cosi come successo al sottoscritto, che è rimasto comunque piacevolmente colpito dal song frenetico del combo lombardo. Un po’ influenzati dagli Infernal Poetry, i Veratrum ne possono incarnare il lato più brutale e forse un po’ meno sperimentale, però nel corso dell’ascolto di questo EP, in più occasioni mi è venuto di accostare il sound dei nostri a quello dei marchigiani, già fin dall’iniziale title track, song che viaggia bella serrata, ma che ci lascia rifiatare, concedendo spazio a qualche stop’n go. È la successiva “Davanti alla Libertà” che ci strapazza ben bene con un riffing acuminato e una batteria che suona su ritmi vertiginosi, e con un break centrale che si rifà invece alla tradizione scandinava, accompagnato da un growling mortifero. “L’ora è Giunta” ha un mood quasi grind, con un uso esagerato di blast beat, ma quei rallentamenti al termine di ogni strofa, possono ricondurci ai primi Carcass, mentre gli accenni grooveggianti posti a metà brano o quelle aperture chitarristiche, oserei dire, melodiche, elevano sicuramente la qualità della song, che rischierebbe invece di soffrire di un certo piattume di fondo (su questo punto lavorerei molto per poter dare un maggior tocco di originalità alla proposta). Altro attacco furioso con la quarta “Io Sono il Tempo”, con le vocals di Andrea che si alternano, a seconda della ritmica (furente o mid-tempo), tra uno screaming schizoide e il growling oscuro, fino al finale dove un assolo in stile classic metal (!?) chiude il brano. “L’Odio” segna la conclusione di un lavoro brutale, tecnicamente ben suonato ma a cui manca ancora quel quid per potere essere competitivo con le grandi realtà internazionali; tuttavia sono convinto che i nostri siano sulla strada giusta per poter puntare a qualcosa di veramente importante. Comunque validi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 70

sabato 3 dicembre 2011

Krokmitën - Alpha-Beta

#PER CHI AMA: Techno Death Sperimentale
Essere tra i primi a recensire un lavoro nel proprio paese è sempre una soddisfazione per il sottoscritto: trovarmi quindi oggi ad avere fiondato nel mio stereo, a tutto volume, il dinamitardo lavoro di esordio di questi pazzoidi canadesi, che rispondono al nome di Krokmitën, mi rende assolutamente fiero, anche e soprattutto per l’interessantissima proposta di questo losco e feroce trio di Montreal, che esiste addirittura dal 1991! Si apre con l’esplosivo attacco di “The Reverse Speech”, un assalto all’insegna dell’artiglieria pesante, con un riffing serratissimo, un lancio di granate a grappolo che non farà altro che fare piazza pulita di tutti i mali del mondo, grazie ad un riffing all’insegna del più tagliente delle lame e a degli assoli da urlo. Fortunatamente c’è il tempo di riprendersi un attimo dalla battaglia iniziale con “Surrender” che fa da ponte ideale alla successiva “Gesteszustand”, che farebbe la sua bella figura anche in un album dei Massive Attack. Eh si perché sembra più una song di trip hop anziché di techno death, questo a dimostrare la vena sperimentale (e apprezzatissima) dei nostri, con un basso lunatico accompagnato da un growling disperato e da una chitarra straziante che grida vendetta e ci regala un’estasiante assolo conclusivo. Wow, li adoro già. Sono dei pazzi furiosi, quanto di meglio quindi per passare una serata in allegria. “Panic Attack” torna a far del male con una potenza di fuoco detonante, che pur non andando mai a delle velocità esasperate o con una pesantezza esagerata, riesce comunque a radere al suolo, con grande efficacia qualsiasi cosa. “La Transformation” è un treno impazzito che ha deragliato pericolosamente capace di investirci con la sua efferatezza grind in 49 secondi di totale brutalità. Ancora un rallentamento pericoloso, ma dovrete farci la mano perché questo album ne è zeppo, e con “Cocktail of Blood”, i nostri tirano il freno a mano e in stile “Carcassiano” si reinventano in una nuova dimensione death progressive, lenta, ossessiva e angosciante. Sono stordito, estasiato dalla genialità di questo combo canadese, di cui vi obbligo l’ascolto, anche perché sul loro sito, troverete addirittura il download gratuito. Se siete alla ricerca di una nuova intrigante esperienza all’interno dei confini della musica estrema, “Alpha-Beta” è di gran lunga ciò che fa per voi: musica violenta ma carica di groove, sperimentale, intelligente e assai tecnica, per aggiungere anche che racchiude in sé una vena avanguardistica, psichedelica e assolutamente schizofrenica. Che state aspettando, ancora qui a perdervi in chiacchiere, fate assolutamente vostro questo lavoro!! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85

Delirium X Tremens - Belo Dunum - Echoes From the Past

#PER CHI AMA: Brutal Techno Death, Folk
E adesso come la mettiamo con la definizione da dare al genere proposto da questi quattro folli musicisti delle Dolomiti bellunesi? Partiamo allora da un po’ più lontano: avevo già avuto modo di apprezzare il precedente lavoro di techno death, datato 2007, della band veneta e quello che oggi devo recensire parte esattamente da quel “CreHated From No_Thing”, che si configurava come un concentrato di death metal ultra tecnico e brutale, scevro da alcun tipo di contaminazione; nel frattempo le cose sono un po’ mutate, a partire dal look della band (di stampo montanaro), per proseguire con una vena assai sperimentale dei nostri mai palesata prima d’ora. La spina dorsale del sound dei Delirium X Tremens continua certo a rimanere il techno death degli esordi, sempre potente (complice una produzione spettacolare), preciso e tagliente, inserendo però nel contesto brutale delle songs, alcuni elementi addizionali di stampo patriottico - folcloristico, capaci di rendere la proposta del combo bellunese assai intrigante e mi verrebbe da dire unica. Se il feeling che ho percepito nell’ascolto dei primi tre brani è lo stesso che infuse in me l’ascolto 20 anni fa di “The Key” dei Nocturnus, con la quarta “Artiglieria Alpina” non si può che rimanere stupefatti di fronte alla proposta dei nostri: “Al comando dei nostri ufficiali, combatteremo fucile alla mano. Difenderemo il suolo italiano, onore alpino nella storia vivrà”. L’eco del coro alpino echeggia nell’aria e mi sembra di essere tornato indietro di 15 anni, quando mi misi a disposizione dell’arma sulle montagne friulane. E cosi sparandoci in faccia dei killer riffs di puro death metal, ecco i nostri parlare della Prima Guerra Mondiale o del Vajont, con il cantato in growling (comprensibilissimo) italiano a ricordarmi la performance degli Spite Extreme Wing. Sono conquistato dalla proposta coraggiosa dell’act di Belluno, mai avrei pensato in vita mia di trovarmi di fronte ad una sorta di death metal alpino. Giusto un pezzo strumentale “The Guardian” a tramortirci e poi un coro gregoriano apre la dinamitarda “33 Days of Pontificate” a ricordarci invece che i nostri “montanari” continuano a suonare musica estrema e di non lasciarci fuorviare dalla vena troppo sperimentale di questo lavoro. I Delirium X Tremens continuano a fare male, con ritmiche violente, veloci, massicce; non importa poi se nel bel mezzo di un brano compare improvvisamente una parte atmosferica, un coro alpino o un canto gregoriano, un inserto di tastiera aliena, o un assolo da urlo, echi bucolici o una fisarmonica schizoide: i nostri baldi giovani si rivelano ispiratissimi e costantemente carichi di rabbia, in grado di incanalare brillantemente tutta la sperimentazione che è mancata nei precedenti lavori, in questa nuova geniale opera, la cui importanza (sicuramente legata alle tematiche) è avvallata anche dal patrocinio della Provincia di Belluno – Dolomiti. Che dire, se non che l’ascolto di questo cd è consigliatissimo per tutti coloro che seguono la scena estrema e anche e soprattutto per tutti gli impavidi amanti della sperimentazione. In onore alla memoria. Valorosi! (Francesco Scarci)

(Punishment 18 Records)
Voto: 80

venerdì 2 dicembre 2011

Sadael - Diary of Loss

#PER CHI AMA: Funeral Doom, My Dying Bride, primi Anathema
Rare volte mi è capitato di trovare un album perfetto per un sottofondo da notti solitarie in riflessione senza dire: “Beh, questa canzone si… Questa no… Questa forse…”. Sono impressioni personali, senza ombra di dubbio, ma quel senso di nera filosofia astrale che mi hanno trasmesso i Sadael (anzi, Sadael e basta, visto che si tratta nuovamente di una one-man band) è qualcosa di cui solo un altro gruppo, i Moonspell di Ribeiro, sono riusciti a instillare nel mio inconscio. Lo consiglio vivamente, questo “Diary of Loss”, ennesima fatica di una terra leggendaria, affascinante e piena di mistica come è l’Armenia. Trovano rifugio in questo calderone di sensazioni sette tracce di saggia poesia, una più evocativa dell’altra. Grande interprete di questo album è l’organo-pianoforte, accompagnato da elementi ambient che aumentano l’atmosfera sulfurea di ogni passaggio di tempo o mutamento di melodia (l’ho chiamato ‘piano-riff’, che sia un neologismo?). Il nichilismo, la solitudine e la chimera di una costante perdita dell’essere abbracciano nenie adombranti amori perduti, odiati o mai trovati, testimoniando in questo caso un avvicinamento alle liriche più gothic che doom. Contaminazione. La adoro. Apprezzerete anche gli assoli di chitarra, puliti e perfetti come solo gli Anathema di “Eternity” o “Alternative 4” sono riusciti a fare. Riguardo la lunghezza (questi viaggi non dovrebbero mai terminare) si spazia dai tre minuti dell’intro ai dieci dell’ultima traccia; azzarderei che tutto è stato calcolato per non pesare eccessivamente sull’ascoltatore. Ve lo consiglio vivamente questo album, anche per gli appassionati di dark-ambient. Prendetevi un’ora libera prima di andare a letto, versatevi un bicchiere di vino (“My Wine in Silence”: My Dying Bride docet) e lasciatevi trasportare da questa vera e concreta opera d’arte musicale. Se poi siete studiosi di occulto non lasciatevi mancare un ascolto attento della terza tappa, “Loss”, una metafora dell’eterno ritorno. (Damiano Benato)

(Silent Time Noise Records)
Voto: 80

www.myspace.com/sadael