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mercoledì 7 novembre 2012

Hypnotheticall - Dead World

#PER CHI AMA: Progressive (tanto), Power (pochissimo)
Gli italianissimi (e vicentini) Hypnotheticall si sono formati nel lontano (o vicino?) 1999, dall’incontro di tre elementi: Francesco Dal Barco (voce), Giuseppe Zaupa (chitarra) e Paolo Veronese (batteria). Dopo l’uscita del demo “In Need of a God?” nel 1999, a pochi anni di distanza ecco che vede la luce anche il primo lavoro (ufficioso, oserei chiamarlo) “Thorns”. Presisi una pausa di riflessione, nel 2005 tornano con dei nuovi membri: Mirko Marchesini (chitarra), che poi rimarrà fino ai giorni nostri. Uscito un altro lavoro nel 2006, e rimaneggiando le vecchie opere, si arriva all’anno in cui altri due elementi entrano nella band: Luca Capalbo (basso) e Francesco Tresca (batteria). Poco prima dell’uscita del vero e proprio album “Dead World”, Paolo Veronese esce dal gruppo. Rimarrà comunque citato nel booklet in quanto autore dei brani. La title track si apre con influenze industrial: suoni distorti, drum machine e aria inquietante. Dopo poco fanno breccia anche archi che aprono la strada alla chitarra forte e chiara. “The Eternal Nothingness of Sin” ha un ritmo incalzante ed aggressivo, mentre la batteria accompagna in modo scandito le parole, con qualche rullata qua e là. Tutta la canzone è un tripudio di batteria e chitarra, mentre la voce di Dal Barco rimane sempre grintosa. Nei ritornelli hanno inserito anche dei cori, che sollevano l’udito da un ritmo che rischierebbe di essere pesante. Verso l’ultima parte il ritmo diventa quasi acustico, rilassato: da li a poco si torna alla grinta iniziale, ma con una vena un po’ più melodica. Il loro primo singolo, “Fear of a Suffocated Wrath”, mostra una vena più melodica rispetto al brano precedente, ma comunque di forte impatto, avvicinandosi più ad un progressive metal condito da qualche scream, molto piacevole da ascoltare e cantare. “No Room to Imagination” cambia le regole in tavola: ritmo veloce, batteria pesante e la voce tornata al livello di “The Eternal […]”. Perfetta per essere cantata live, la song racchiude una perla di assolo di batteria+chitarra che si può trovare in altre band power-melodic: difficile tenere ferma la testa. “Heaven Close at Hand” sfiora leggermente l’industrial, con un intro di chitarra e batteria che ricorda (ma molto vagamente) le ambientazioni delle maggiori band americane. Tutto il brano è un vortice di diversa intensità: se all’inizio era incalzante, durante il cantato rallenta per accompagnarlo, tornando poi veloce e tosto. Degno di nota anche il massiccio uso della batteria in sottofondo. “Hi-tech Loneliness” mi ricorda un po’ gli Incubus, con la voce in primo piano e la chitarra appena pizzicata. Tutta la traccia si sviluppa su questo gioco, creando un ritmo sincopato. Molto interessante è anche l’assolo di chitarra, pieno di passione: un tributo al dio rock di stampo classico, dove la testa si reclina indietro e gli occhi si chiudono, assaporando nota dopo nota. “Lost Children” riprende il sound del singolo, con all’interno una piccola e breve occhiata alla musica mediorientale (a metà brano): si odono infatti note di sitar, e di un altro strumento a corde che viene suonato anche accompagnando la danza del ventre. Chiusa la parentesi arabeggiante, si torna al puro progressive dei Dream Theatre, i quali sicuramente avranno ispirato il nostrano ensemble. Questa è anche la prima canzone che si conclude sfumando, anziché chiudendo direttamente; probabilmente per accompagnare l’ultima traccia, la strumentale, “Bloody Afternoon”. Qui la chitarra torna nuovamente pizzicata ed acustica: mi immagino Zaupa seduto davanti ad un camino, in una giornata fredda e piovosa, mentre imbraccia la chitarra ed inizia a suonarla ispirato dal mood di quel momento; ne esce questa canzone calma e profonda, come racchiusa in un mondo tutto suo. Più che aver ascoltato un album, mi pare di aver fatto un viaggio, esplorando le diverse sfumature che il progressive può dare. Per essere il loro primo lavoro discografico, non è affatto male anche se ha bisogno di svariati ascolti per essere apprezzato pienamente. Ora non resta che aspettare il prossimo lavoro. (Samantha Pigozzo)


(Insanity Records) 
Voto: 75

Absinthium - One for the Road

#PER CHI AMA: Thrash, Heavy, Megadeth, Testament
Sono lì, controllo alcune cose del mio disordinato tavolo, e mi cade l’occhio sull’artwork di questo “One for the Road”. Penso: una taverna abbastanza oscura, una figura fatata dalla ragguardevole sensualità, un uomo disteso su un tavolo per colpa di un bicchiere di assenzio... mmm mi sa che qui andiamo sull’etereo, sull’impalpabile. Va bene, un po’ cauto metto il CD nel lettore, mi armo di cuffie e parto all’ascolto. Qui mi rendo conto che quella copertina è fuorviante: mi ritrovo infatti con otto canzoni thrash/heavy molto consistenti. Primo LP per i campani Absinthium, alle loro spalle hanno una storia iniziata nel 2003 e due demo (rispettivamente nel 2006 e nel 2009). Vari cambi nella formazione, e la scomparsa del singer Luca Cargiulo, hanno portato alle line-up attuale: Alessandro Granato alla voce, Franco Buonocore alle chitarre, Dario Nuzzolo al basso e Tommaso Ruberti alla batteria. Il primo ascolto mi lascia freddino, invece i seguenti mi convincono a) della bontà del loro operato b) del fatto di essere ubriaco al primo ascolto. Sopra dicevo della struttura delle tracks, ecco sono piuttosto influenzate dal metal degli anni ottanta e primi novanta. Attenzione non siamo alla clonazione dei classici gruppi del periodo (Megadeth e Metallica in primis), però l’ispirazione si è quella lì. La band fa un buon lavoro, si possono scorgere contaminazioni di altri generi con risultati spesso gradevoli e interessanti. Le tracce sono potenti e solide, si appoggiano su dei riffoni tiratissimi, ben eseguiti e nel complesso non troppo banali. Il cantato vi si amalgama bene: è pulito, evocativo e piuttosto orecchiabile. Decisamente quadrata la parte ritmica, regge adeguatamente il tutto. Ne esce una miscela heavy-thrash niente male, naturalmente ci sono momenti esaltanti e altri più aridi, l’insieme mi colpisce positivamente. Si sente la volontà di non appiattirsi dal punto di vista compositivo: i cambi di atmosfera, gli stacchi, gli assoli (classici, semplici, ma ben eseguiti) ne sono la prova. Cito, tra i pezzi, “H.A.I.L.” e “Mr. Nothing” con i loro buoni fraseggi. Ritengo però “Skull” la migliore del mazzo, la cui introduzione melodica, fa da contraltare alla sua susseguente esplosione, i cori e l’assolo morbido poi ne fanno il punto più alto del disco. Pollice verso per “Circular Saw” e l’inutilmente lunga “Black Gown”. Una prima prova che mi convince, piuttosto semplice nella parte della scrittura delle canzoni, ma ben suonata, ben prodotta, direi priva di grandissimi cali, ma che pecca di un qualcosa che possa colpire. Il titolo dell’album dovrebbe riferirsi all’ultimo bicchiere (no, fermi con gli oggetti contundenti, Nikki e Max Pezzali non c’entrano) da bersi prima di un lungo viaggio: ora mi auguro che il lungo viaggio sia una loro tournée, e non una loro assenza dalle sale di incisione. Mi aspetto un nuovo lavoro più deciso e personale. (Alberto Merlotti)

(Punishment 18 Records)
Voto 70

martedì 6 novembre 2012

Yayla - Fear Through Eternity

#PER CHI AMA: Soundtrack Ambient, Burzum, Dead Can Dance, Popul Vhu
Yayla è il progetto con sede in Turchia del musicista Emir Togrul che abbiamo conosciuto qualche tempo fa con un lavoro di grande fascino ma che affrontava tutt'altra sonorità rispetto al presente “Fear Through Eternity”, dal titolo “Sathimasal” da noi allora ben recensito. Il valore di questo musicista ermetico consiste nel creare musiche estremamente profonde e coinvolgenti, oscure e molto criptiche. Yayla stavolta elimina ogni tipo di suono distorto, al contrario del precedente lavoro, e misura la sua capacità compositiva con una colonna sonora preparata ad arte per un suo film, dal titolo ovviamente uguale all'album “Fear Through Eternity”, di cui si può vedere il trailer sul sito www.merdumgiriz.org, sito che ospita tutti i lavori del suddetto artista (purtroppo non siamo riusciti a risalire alla tematica del film, ne a vederlo, non conosciamo il suo scopo commerciale o la sua distribuzione, ma sembra sia autoprodotto dall'autore, e quindi ci siamo accontentati del trailer). Il nostro cavaliere nero si arma di soli synths e qualche sparuta percussione e spolvera otto brani molto legati tra loro, tutti molto bui e riflessivi, nebbiosi e umidi. La colonna sonora così concepita e staccata dal collante immagine, risulta molto ostica e monolitica al primo ascolto per poi divenire famigliare, interessante e piacevole ai successivi ascolti. Siamo di fronte a qualche cosa di ferale ma molto melodico che ricorda a tratti la colonna sonora del film “Nosferatu” con K. Kinski, capolavoro dei mitici Popul Vhu, luminari del krautrock ma con uno spirito oscuro, più vicino alle cose sinfoniche, ambient e melodiche di Burzum (vedi la parte iniziale del brano “Der Tod Wuotans” dall'album “Hlidskjalf”), una spruzzatina del sound mistico dei Dead Can Dance senza cantato, ed i prestigiosi giochi percussivi del duo anglo/australiano, e il gioco è fatto. Questo album non è per tutti e la sua musica è cosa che più distante si possa udire dal mondo del metal o del rock! Ma chi avrà la volontà e il piacere di affrontarlo a orecchie ben aperte, non ne rimarrà certo deluso, anzi ne assaporerà la profonda nuova catarsi di un musicista molto molto motivato. Ascolto da provare! (Bob Stoner)

(Self) 
Voto: 70

Limerick - Bectibù

#PER CHI AMA: Rock/Stoner/Grunge
Burn Vicenza Burn. Giusto per citare un altro grande gruppo della zona, i Limerick danno fuoco alla miccia che corre attraverso la miseria musicale e fanno saltare in aria il ventre molle del sistema. Conoscere i Limerick, vedendoli suonare su un grande palco, mi ha rimescolato le budella come non mai ed una domanda mi è balenata subito nel cervello: e questi, dove sono stati rinchiusi fino ad ora? In sala prove ovvio, lavorando ore ed ore, per scrivere i pezzi, curare il suono e trovando pure il tempo di registrare questo grande “Bectibù”, nato proprio tra quattro mura insonorizzate alla bell'e meglio. La definizione Rock/Stoner/Grunge non dice tutto dei Limerick, varie influenze serpeggiano infatti tra le otto tracce, ma mi piace pensare che non sia stata la musica di altri ad inspirarli. Loro si definiscono un lungo viaggio che parte da Seattle, scende per la costa pacifica e passa attraverso le distese sabbiose della California e qualcosa si percepisce, sonorità stoner come un macigno, per quanto riguarda la parte strumentale e la voce, che evoca uno stile grunge, ma con un timbro personale. La giostra inizia con la prima traccia "Y", bella tosta sin dal primissimo riff di chitarra che, sostenuta dal basso, può permettersi delle belle digressioni e dalla batteria che mostra subito un grande potenziale, che non vede l'ora di esprimersi. Diciamo che i 2' 38'' passano velocissimi e si ha l'impressione di un coitus interructus, personalmente l'avrei portata avanti cercando un buono stacco ed un nuovo sviluppo. "How Many People are Looking for Sun" utilizza questa tecnica a metà pezzo, per introdurre un bel giro polveroso di chitarra, senza stare molto a preoccuparsi della sindrome "adesso come facciamo ad unire le due parti”. L'apertura di basso differenzia l'inizio del pezzo, ma non esalta per creatività. Arriviamo alla terza canzone "Leech" che ritengo il main theme di questo "Bectibù" (quando l'ho sentita dal vivo con discreti volumi, le viscere mi si sono rianimate e volevo uscire per pogare...). A parte il riff di chitarra dal vago sapore "kashmiriano" che comunque denota stile, si apprezza l'assolo e la struttura ritmica in toto che fa intuire l'affiatamento musicale del trio vicentino. Chiudo con "Kulba Khan" dove la voce del cantante/chitarrista gioca su tonalità diverse rispetto alle precedenti tracce, e la parte strumentale si inventa riff diversi e più personali per un finale in crescendo che sgomita e spinge per trovare la quiete definitiva. Ho differenziato i voti tra cd e live non per cinismo, ma per rimarcare che "Bectibù" è registrato egregiamente, ma avrei lasciato le chitarre più libere e meno compresse. Il suono grezzo e cremoso del live (che ho sentito io) lo ritengo più adatto al genere. Per il resto consigliatissimo, album da acquistare ovviamente in abbinata ad un loro concerto. Al più presto. (Michele Montanari)

(Self) 
Voto: 75 (85 Live)

Blut Aus Nord - What Once Was... Liber II

#PER CHI AMA: Black/Dark/Avantgarde, Deathspell Omega
È risaputo ormai, non mi nascondo più, sono un grande fan dei Blut Aus Nord, ed ogni qualvolta c’è una qualche release della band francese, sento un impulso partire dal mio corrotto animo oscuro, che spinge le mie dita a scrivere qualcosa. Non mi sottraggo pertanto neppure questa volta che vedo apparire un vinile dei miei eroi, il secondo capitolo di “What Once Was…” dopo il “Liber I”, uscito nel 2010. I due pezzi, uno per lato, della ugual durata di minuti 14:24, propongono tutto il meglio (o il peggio) che la band transalpina ha da proporre, trascinandoci per i capelli e con somma furia, nell’ultimo dei gironi infernali, con il suo sound decisamente malato, mortifero, fatto di gelide, sovrannaturali e ripetitive chitarre, accompagnato dall’alieno quanto mai furioso blast beat, da vocals disumane, melodie funeste e dal riverbero di spettrali voci, che arrivano direttamente dall’oltretomba. I Blut Aus Nord non si smentiscono neppure questa volta, offrendo un sound da incubo, terrificante, da farmi raggelare il sangue nelle vene, che imperterrito, continua a mietere vittime, senza curarsi di mode o influenze, se non proseguendo un discorso di espletazione della malvagità insita nell’animo di questi musicisti, un discorso iniziato qualche manciata di lustri orsono, in compagnia di un’altra creatura diabolica, i Deathspell Omega. E io li adoro, non so darvi una spiegazione razionale del perché di tutto questo, so che tutta questa primordiale cattiveria nasce nell’antro del mio marmoreo cuore, cresce, esplodendo in un conato di rabbia e odio, che si espia attraverso l’ascolto dei maledetti lavori di questi satanassi. Inutile entrare nel dettaglio di queste due tracce, i “Sangue dal Nord” si amano o si odiano, l’ho sempre detto. E io li amo… (Francesco Scarci)

(Debemur Morti) 
Voto: 70

Imber Luminis - Winter Falling

#PER CHI AMA: Black Depressive, primi Shining
One man band quest’oggi proveniente dal Belgio, il cui frontman, Déhà, sembra essere titolare di un bel gruzzolo di band, in territori parecchio underground. Tra le sue creature, mi trovo qui a parlare degli Imber Luminis, che hanno all’attivo un demo, un full lenght, una compilation (mi domando di cosa) e questo EP di due pezzi uscito quest’anno. La direzione musicale percorsa dal nostro factotum di turno, è quella del depressive black metal. “I Can Hear the Birds Crying” apre l’Ep con i suoi dieci minuti e più, di musica desolante, straziante e nefasta, che non dà il benché minimo spazio alla speranza in un futuro migliore. Ovviamente i rimandi ai primi Shining si sprecano, cosi come pure ai Woods of Desolation, vuoi per le statiche, ma efficaci linee di chitarra o per le disperate screaming vocals, che trovano anche modo di cantare con voce pulita. Nonostante questo genere pecchi di eccessiva ripetitività, trovo la prima traccia assolutamente godibile e con una melodie portante che si incunea facilmente nelle mie circonvoluzioni cerebrali. Chiaro, al termine dell’ascolto di un lavoro come questo, rimane soltanto un senso di vuoto, disagio e totale inadeguatezza, ma si sa che l’uomo nel suo subconscio è autolesionista. E cosi ecco trovarmi ad ascoltare anche i tredici minuti di “I Am Not” e rimanere totalmente stupito nel constatare che il mastermind belga abbia da offrire un qualcosa di evocativo e drammatico nella sua esecuzione, la cui impronta rimane indelebile nella mia anima affranta e sempre più dannata. Sarà anche musica depressive, suicidal, funeral doom o chiamatela come volete, qui dentro ci trovo anche un che di romantico, ovvio, quel romanticismo il cui finale non è preannuncia nulla di buono. Ma che volete farci, per come girano le cose, ci si accontenta anche di questo. Funesti. (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 65

Lotus Circle - Caves

#PER CHI AMA: Drone/Noise
Devo ammettere che questo cd l’ho sempre tenuto li in un angolo, spaventato dall’idea di doverlo affrontare. Il motivo è legato essenzialmente al genere che la band ellenica propone, in quanto sul flyer informativo si parla di esoteric/doom drone e già mi immagino la pesantezza in termini di suoni apocalittici e non solo, ivi contenuti, con un sacco di samples dall’aura esoterico/industriale, che alla fine rischieranno di popolare i miei sogni. Ed effettivamente non vado poi tanto lontano da questa mia supposizione, in quanto “...To Witness Under the Stars” apre proprio in questo modo, con un sound all’insegna del drone accompagnato da un chitarrismo funeral doom e da dei chorus che sanno molto da rito esoterico. Certo, dopo un paio di minuti, mi ritrovo già annichilito da simili sonorità e se considerate che le tracce viaggiano sui 7 minuti, potrete ben intuire il mio stato d’animo quando con la successiva “Dawn of a Dead Sun”, partono 8 minuti di chitarre super ribassate, assai monotone e logoranti lo spirito, su cui si stagliano qua e là, urla disumane. Proseguendo, il disco non si discosta più di tanto dalla matrice di fondo di un genere che, credo sia destinato a soli pochi eletti e che abbia come limite, la sua scarsa accessibilità. Sono convinto tuttavia che chi ami questa musica, si lanci in un rito catartico, purificante l’anima. Insomma, per farla breve, “Caves”, secondo full lenght dei greci Lotus Circle, non è decisamente un lavoro alla portata di tutti per la ridondanza dei suoi suoni che sembrano esser più vicini al rumore surreale di un’astronave aliena. Marziani. (Francesco Scarci)

(Dusktone) 
Voto: 60

lunedì 29 ottobre 2012

Evemaster - III

#PER CHI AMA: Death Progressive, Edge of Sanity, Black Sun Aeon 
Ancora una volta arrivo tardi su un lavoro, non è da me, inizio a perdere colpi o forse a recensire troppi album al mese, ho bisogno d’aiuto. Con grosso dispiacere, dato il sommo ritardo quindi, metto nel mio lettore il terzo lavoro dei finlandesi Evemaster (a questo punto mi aspetto già il nuovo album)e so già che la musica dei nostri sarà sicuramente qualcosa di dignitoso. Scorrendo poi tra le guest star di “III”, non posso non notare la presenza del mio idolo, Dan Swano, quindi mi aspetto che l’album del duo finnico, sia molto più che dignitoso. Apre “Enter”, titolo perfetto per una opening track, che denota la grinta dei nostri e del loro death estremamente melodico. È però con “New Age Dawns” che il mio livello di attenzione si eleva quasi a codice rosso: inizio graffiante con una ritmica non troppo accesa ma comunque carica di groove, che sento lasci presagire, da un momento all’altro, la sorpresa che non ti aspetti; la traccia è velenosa nel suo incedere, fino a quando una evidente chitarra in stile Nightingale, irrompe nel brano come un fulmine a ciel sereno, e con essa l’inconfondibile voce di Dan, quella pulita, proprio in stile Nightingale, uno dei suoi innumerevoli progetti. Pelle d’oca alta un dito, Dan (qui responsabile anche del mixing e mastering, ai suoi Unisound Studio) che duetta con Jarno alle voci, una sorta di bene contro il male, in cui il bene, rappresentato ovviamente dal mitico Dan, ha la meglio. “Humanimals” è un altro esempio di quanto gli Evemaster si muovano con una certa disinvoltura all’interno di sonorità, che probabilmente ricalcano il death melodico dei loro connazionali Black Sun Aeon, forse in chiave meno doom. È “Losing Ground” e i suoi tocchi di pianoforte a richiamare nuovamente il mio orecchio: le chitarre mai cattive in realtà, fotografano paesaggi innevati, mischiandosi abilmente con splendide tastiere, mentre le harsh vocals di Jarno fanno il resto, con Tomi che costruisce deliziosi paesaggi ricchi di pathos e suggestive atmosfere. Decisamente i nostri non sono male neppure in chiave tecnica, attestandosi come preparatissimi musicisti e “The Great Unrest”, dall’inizio furioso, ma dalle aperture ariose e dalla ritmica feroce al tempo stesso, non fa che confermare la verve e la vivacità del duo lappone, a cui piace infiocchettare il proprio sound, anche di divagazioni di stampo progressive. “The Sweet Poison” passa un po’ inosservata, mentre la più breve “Harvester of Souls” si lascia ricordare per lo più per la sua feralità delle sue chitarre, nonché per il suo ritornello. Il ritmo aumenta con l’inizio di “Fevered Dreams”, anche se poi la traccia vive di chiaro scuri, con la ritmica che ondeggia pericolosamente tra sonorità doom e belle sforbiciate chitarristiche. I conclusivi 11 minuti scarsi di “Absolution” sono vera manna dal cielo: arpeggio d’ingresso, con la malinconica voce di Dan che torna a farci visita e la song che ricalca quanto proposto dalla band finlandese fino al minuto sei, in cui viene fuori, a mio avviso l’esperienza di Dan Swano, che suggerisce al duo, qualche accorgimento che eleva quasi esageratamente la proposta, con una strepitosa conclusione affidata a tastiere e chitarre. Beh se questo era il 2010, ora mi aspetto un quarto lavoro targato 2013, che offra quando di più interessante il death progressive abbia oggi da offrire… (Francesco Scarci)

(Supernova) 
Voto: 75

Living Corpse - And Everything Slips Away

#PER CHI AMA: Metalcore/Post-hardcore, Bring Me Horizon
“L’italia s’è desta, de l’elmo di Scipio s’è cinta la testa…” Orgoglio italiano. Si, perché con i Living Corpse posso tranquillamente affermare che il gap con gli Stati Uniti è stato colmato anche in ambito musicale, più specificatamente nel metalcore e già con l’iniziale e apocalittica, nei suoni ribassati e nel riffing meshugghiano, “Human Conception”, mi rendo conto di avere fra le mani un piccolo gioiello. L’aggressione ai nostri timpani è evidente già da subito, se non fosse per un chorus assai strano (sembra si tratti di ragazzini), che funge da break alle mitragliate onnipotenti dei nostri. Poi l’apoteosi con una sorta di solo conclusivo con il chorus quasi pink floydiano (“The Wall”) che si ripete. Neppure il tempo di rifiatare e il sestetto nostrano ci attacca al muro con “Smile to the Victory”, song che produce un riffing abbastanza convenzionale, ma che tuttavia si lascia ricordare per la comparsa di una voce femminile e di sonorità addirittura vicine all’electro music. Ebbene, per chi come me che aveva le orecchie sature di questo genere di suoni, parlo dell’ormai sterile metalcore, sembra che i Living Corpse abbiano trovato il modo per poter ridare vita ad un movimento che consideravo ormai morto. Vuoi anche perché il metalcore dei nostri si sporca con sonorità post (hardcore e metal) e djent, fatto sta che non posso negare di essere stato conquistato immediatamente dal sound dei Living Corpse. Gli ingredienti del genere ci sono tutti: oltre al riffing massiccio ma stracarico di suoni catchy e ricolmi di groove, ritmiche serrate e stop’n go, non manca infatti il dualismo vocale fra il growling arrabbiato (ma in taluni tratti anche cibernetico) e quello pulito e ammiccante , del duo Lorenzo Diego Carrera ed Erik Castello. Ovvio che le linee melodiche e un po’ ruffiane di chitarra non manchino, cosi come pure delle aperture malinconiche e atmosferiche (ascoltare “Set me Free”) appaiono a sprazzi nel disco, ma soprattutto ottimi, i brevi assoli che chiudono il più delle volte i brani. Sono al quinto pezzo e non posso esimermi dallo scuotere la testa, colto da un raptus improvviso di headbanging sfrenato in un pezzo, “The Light of the Answers” che si dipana tra sonorità squisitamente post hardcore e qualche fraseggio alla Dark Tranquillity. Strano ma vero. Ottima e piena la produzione, ad opera di Ettore Rigotti (Disarmonia Mundi), cosi come pure elegante il digipack scelto. “Nothing” è un bell’intermezzo strumentale di un paio di minuti, che si scosta dal resto dell’album e introduce “How the Hell Are You Gonna Pay Your Dues” che ha un attacco quasi thrash, prima di spezzare il proprio riffing con la classica ritmica di scuola Meshuggah; ma i nostri sono indemoniati e la matrice della ritmica alla fine acquisisce connotati death metal. Bel pezzo tosto, che mette in luce le notevoli doti tecniche dell’ensemble italico. Le song scivolano via che è un piacere, attraverso pezzi brevi che si stampano immediatamente nella mia testa e il più delle volte mi fanno sussultare per alcune trovate che esulano dal genere, dando pertanto maggior vigore, impeto ed originalità, all’interno di una scena ormai povera. Si insomma, per una volta non metto sotto torchio una band metalcore, quasi un miracolo per il sottoscritto e questo non fa altro che andare a incensare la proposta dei Living Corpse e a riempirmi di orgoglio nazionale. Le mie ultime segnalazioni vanno al pianoforte che chiude “How Rise the F**k Up!”, al chorus piacevole di “Forgetting” che si stampa su una ritmica quasi brutale e alla splendida chiusura strumentale di “Ax”, che sancisce l’abilità, la freschezza di idee e la tecnica di un combo, che deve avere assolutamente il destino segnato, quello della vittoria… (Francesco Scarci)

(Coroner Records) 

Forgotten Silence - La Grande Bouffe

#PER CHI AMA: Black, Death, Avantgarde, Jazz
Vi ricordate il film “La Grande Abbuffata”, dove quattro individui, stanchi della vita noiosa e inappagante che conducono, decidono di suicidarsi, chiudendosi in una casa nei dintorni di Parigi, mangiando fino alla morte? Beh il cult movie, che partecipò anche al festival di Cannes, è il tema conduttore del nuovo lavoro dei cechi Forgotten Silence, che oramai avevo dato per dispersi. Era infatti dal 2006 che non uscivano con un full lenght ed ora eccoli alle prese con “La Grande Bouffe”. Il cd si apre con l’invito a tavola per l’inizio della cena, estrapolato proprio dal film, che in alcune parti del disco ripropone altre parti di dialoghi. Mi pare infatti di sentire la voce del nostro Ugo Tognazzi in “Translucide (Brighton II.)”. La musica dei Forgotten Silence invece riprende, come era lecito aspettarsi, la sua delirante follia, con un sound all’insegna dell’avantgarde, e con le consuete scorribande in territori elettronici, death, jazz e ambient. Da quasi vent’anni, la band ceca è sinonimo di suoni innovativi, il cui avvicinamento è consentito solo a chi è dotato di grande flessibilità mentale. Io lo sono e mi lascio pertanto trasportare dall’estro improbabile di questi sei incredibili musicisti, che con somma intelligenza, questa volta arrivano a citare appunto, l’opera di Marco Ferreri. Inappuntabili. Cosi come i nostri lo sono in ambito tecnico-compositivo. Poche sono le band infatti, in grado di permettersi di proporre un simile sound, ma i Forgotten Silence possono questo ed altro. “Aalborg” è una song dai ritmi vertiginosi, quasi electro grind, che mostra un break centrale che incanta per la capacità del combo di rallentare i tempi. Intermezzi di dialoghi del film italo-francese, infarciscono il disco, tra un brano e l’altro. “Les Collines De Senyaan Pt.III” è tribale, psicotica e psichedelica, inutile tuttavia cercare di appioppare delle etichette, rischierei comunque di dire una mezza verità. Difficile descriverne il sound che di metal in questa traccia ha ben poco. L’imprevedibilità fa parte del DNA del folle sestetto e “Fermeture De La Bouche” ne è l’ennesima testimonianza: rock, techno-cyber death, folk, black, si fondono in un unisono delirante musicale che avrà un effetti disturbanti per il cervello di chiunque persona normale provi ad ascoltarlo. Le vocals, seguendo il flusso psicotico dell’album, si alternano tra screaming malvagi, possenti growl, effetti elettronici e clean vocals. Con l’effetto simile a quello che si ha dopo aver bevuto tutto di un fiato una bottiglia di vodka, mi appresto ad ascoltare le ultime due tracce, ma come potete intuire, ormai non mi reggo più in piedi, la vista è sfocata e l’equilibrio è carente. I Forgotten Silence mi hanno ubriacato e saturato i sensi un’altra volta con il loro sound unico e divertente, ma decisamente non sempre cosi semplice da digerire. Quindi, fate attenzione anche voi a non abusarne, non vorrei correste il rischio di fare la fine dei quattro protagonisti de “La Grande Abbuffata”… Morire! Semplicemente mostruosi. (Francesco Scarci)

(Shindy Productions) 
Voto: 85

Fugitive - Fugitive

#PER CHI AMA: Post Rock, Instrumental, God Is An Astronaut, Explosions In The Sky
Per i conoscitori degli infiniti meandri della musica undergound, i Fugitive non sono di certo una nuova scoperta; da tempo infatti, questo nome echeggia nell'ambito degli spettacoli più eterei e dilatati, lasciandosi dietro un alone di mistero sulla loro vera esistenza. Troppe volte ho udito il loro nome nell'ambito post-rock e post-metal, ebbene finalmente li ho visti, e pure ascoltati. Era la prima volta che entravo a Radio Popolare Verona e al ritorno con i Whales And Aurora, il loro malvagio cantante mi obbligò (o era il contrario?), con un astuto gioco psicologico ad andare ad un evento di dubbia entità, sperduto nel nord vicentino. Dopo varie peripezie giungemmo ad uno stabile di piccola mole, pulito ed accogliente, il classico posto dove ti chiedi perché sei lì ma soprattutto cosa ci fai. Il fatto è che nel salotto di questa candida casetta ci suonavano questi tre personaggi chiamati Fugitive. Era da tempo che volevo incontrarli, ma non ne avevo mai occasione, ed il fatto che abbiano suonato in quella circostanza, denota come mai io (e molti) non sia mai riuscito a partecipare ad un loro show. Il disco, completamente DIY, con busta in plastica e cd-r si apre con "Ascetism", che dopo una iniziale inquietudine, ci porta verso lidi sognanti ma caratterizzati da una pesantezza persistente, che a colpi di feedback ci apre la parte centrale del disco. Questa, adrenalinica nella prima parte e caratterizzata da un veloce arpeggio ripetitivo, riprende la tranquillità nel resto delle composizioni, andando a toccare sonorità più prettamente orientate allo shoegaze, per poi ricalcare la precedente pesantezza a tratti cavalcante, a tratti dilatata. L'ultima parte del disco viene introdotta da "Resolution" che con un classico malsano giro in stile Ved Buens Ende, trascina a forza in un tappeto di tapping e di volatile armonia, destinata a sfociare in una marcia solitaria della sezione ritmica che scandisce il passare del tempo. L'ultima song presenta una lenta introduzione grazie ad un riffing cavalcante ma assai cupo, con delle virate chitarriste soliste; questa è la traccia più prog del disco ma stranamente quella più semplice di tutte. Per sintetizzare, questi Fugitive sono una realtà dall’enorme potenziale musicale di cui però non approvo le linee di basso, troppo semplici ed una batteria che mostra un certo risalto solamente in alcune parti. La produzione è scarna ma si riesce comunque a respirare quella rarefatta aria prog nelle parti solistiche, sonorità che a mio parere rendono questo gruppo originale e discostabile dal post-rock più puro. Spero solamente in una futura release con una degna registrazione e un packaging decente in modo che quest’ensemble possa offrire un ottimo lavoro. (Kent)

(Self) 
Voto: 75

lunedì 22 ottobre 2012

No Omega - Metropolis

#PER CHI AMA: Post-Hardcore, Screamo, Rise And Fall, Norma Jean
Vuoi per il fatto che son troppo socialdemocratici o che non sono completamente compatibili con la cultura straight-edge, i gruppi della scena hardcore scandinava se li filano in pochi. Io di certo non la seguo, vuoi per pigrizia o perché sono troppo schizzinoso e mi limito al crust, ma non mi dispiace quando mi arrivano band come i No Omega, che sono appunto differenti dai classici stereotipi della scena hardcore internazionale (o meglio, statunitense). Purtroppo non ci sono influenze esterne provenienti dal metal, quindi rammaricatevi come ho fatto io dopo un paio di ascolti. Nonostante ciò, i No Omega hanno catturato la mia attenzione con un'astuta combinazione sonora che esce dai canoni dell'hardcore, per approdare verso sonorità più opache. L'artwork rappresenta benissimo la loro proposta musicale, qualcosa di nebuloso, che si interessa alla vita sociale della grande città, senza tralasciare le proprie sensazioni interiori. Viene subito da pensare che la pubblicazione si concentri sulla rabbia, ma appare anche un senso di decadenza e resa, che si esplica attraverso i suoni oscuri proposti dalla band di Stoccolma. La produzione è molto buona e fa trasparire tutti gli strumenti e la voce, rendendone anche piacevole l'ascolto al sottoscritto che non è un amante del genere. "Metropolis" è un debut album completo, non ci può e non ci si deve aspettare qualcosa di più o delle svolte particolari da questa band, ha detto quello che doveva dire e l'ha detto bene. (Kent)

(Get This Right Records) 
Voto: 70