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sabato 9 gennaio 2016

Somali Yacht Club - The Sun

#PER CHI AMA: Post/Stoner/Shoegaze
Se parli di Ucraina e stoner viene subito da pensare agli Stoned Jesus, band rivelazione che imperversa già da qualche anno e che sta riscuotendo sempre maggior successo tra il pubblico amante del genere. I Somali Yacht Club hanno in comune poco altro con la band sopracitata, in realtà il loro genere si discosta e si riempie di influenze shoegaze e post rock che rendono il loro sound più etereo e meno ruvido. Una sorta di Mars Red Sky ma con una voce meno fastidiosa per intenderci. In generale alla band Ucraina (per la precisione di Lviv) piace sperimentare, per cui troverete un intermezzo in levare (!!) come in “Sightwaster”, una suite che nasce come brano post rock, diventa stoner a circa metà brano senza disdegnare infine innesti di altro tipo. Il tutto fatto in modo molto naturale e semplice, puro istinto, ma con cognizione di causa. In totale l’album contiene cinque brani che vanno dai sette ai dieci minuti di durata, questo a sottolineare anche la complessità compositiva a cui la band sembra tenere particolarmente. Attivi nella scena da più di cinque anni, il trio ha all’attivo un precedente EP che gli ha permesso di riscuotere un discreto successo, confermato anche dagli innumerevoli live in patria e in giro per l'Europa. “Up in the Sky” è probabilmente il brano che rappresenta meglio l’album e l’essenza della band: un inizio lento dove il riff desertico di chitarra conduce l’ascoltatore verso l’assolo psichedelico, mentre la voce eterea chiude il cerchio in modo impeccabile. Un brano emotivo e colmo di atmosfera, ricco di diverse linee melodiche che viaggiano a livelli di ascolto diversi. Quando a circa metà sembra che il brano stia per concludersi, i Somali Yacht Club ne approfittano per velocizzare il ritmo e fuggire verso la cavalcata finale che si potrebbe considerare una traccia a sé stante. “Signals” , dopo l’intro di basso a cui si uniscono progressivamente gli altri strumenti, parte in modo sommesso, con un riff liquido di chitarra che conduce verso l’esplosione di fuzz, potente, ma non dirompente come prevede il genere. Il basso ha il suo momento di gloria e i suoi intrecci, al limite del prog, trascinano gran parte del brano mentre il cantato è sempre sporadico, quasi un orpello stilistico da aggiungere qua e là al bisogno. In conclusione la band ha fatto un discreto lavoro con questo album, ci sono buoni spunti (vedi gli intermezzi fusion), anche se in certi passaggi si sente la forzatura di aver voluto a tutti i costi un brano di lunga durata. Ancora qualche tempo per la maturazione artistica e poi il trio potrò dire la sua in maniera più incisiva. (Michele Montanari)

(Self - 2014)
Voto: 70

Psicotaxi - Effect To The Head’s Mass

#PER CHI AMA: Electro Rock, Space Rock, Post Rock 
Difficile definire un genere per questo primo lavoro dei milanesi Psicotaxi. Post-rock? Vero: lunghi pezzi strumentali, arrabbiati, con ampi interventi di elettronica, arpeggi ricchi di eco e riverberi. Space-rock? Anche: i brani sembrano una miscela contemporanea di Hawkwind e Ozric Tentacles, con riff ossessivi, psichedelici, soundtrack stoner e tessiture vibranti. Progressive? Perché no: ogni canzone è una piccola suite ("Zingaropoli", col suo incedere esplosivo di basso ispirato ai Tool), tecnicamente ineccepibile, che si dilata e si restringe, non disdegna tempi dispari e lascia spazio persino a sax, tastiere e arpeggiatori taglienti. Aggiungete poi la teatralità dei testi recitati da Manlio Benigni: l’ironica "Un Tram che si Chiama Pornodesiderio" (“Il fatto è che lei fa la pornostar, io non me la sento di avere una storia con questa qui”), l’oscura e terrificante "Performance", l’impegnata e amara “Il Mondo Nuovo” (“Benvenuto nel mondo nuovo ragazzo […] tanto tu ti diverti a lavorare, non è vero?”). La cifra stilistica degli Psicotaxi va forse ricercata proprio in quell’underground musicale che, negli ultimi anni, sembra aver sfornato solo indie e folk: il quartetto milanese è fortemente indipendente, autonomo, dotato di personalità tale da raccogliere tutte le proprie ispirazioni e frullarle in una ricetta davvero nuova, originale, innovativa. 'Effect To The Head’s Mass' fa un uso preciso e superbo dell’elettronica; non dimentica l’importanza delle chitarre distorte e di un basso duro e presente; sa sfruttare il sassofono in modo originale; in ultima analisi, non fa sentire per nulla la mancanza di una voce nel senso stretto del termine, come invece capita a tante band post-qualcosa. Impossibile resistergli. (Stefano Torregrossa)

(Subsphera - 2015)
Voto: 75

martedì 1 dicembre 2015

Soul Racers - Kill All Hipsters

#PER CHI AMA: Stoner/Psych, Kyuss
A conferma che la scena stoner italiana è in rapida crescita, oggi parliamo dei lombardi Soul Racers. Anzi, per la precisione il progetto è stato fortemente voluto e portato avanti da Vincenzo Morreale (voce e chitarra) che ha riunito i musicisti giusti per dare alla luce questo EP registrato all'Eleven Studio di Busto Arsizio. 'Kill All Hipsters' è un disco sincero e schietto come una grappa nostrana, forte e intenso, ma che non nasconde particolari retrogusti o profumi. Quindi tanto stoner per gente dura, dalla pelle cotta dal sole e la gola secca per le ore passate sotto il sole del deserto. Le influenze di Vincenzo sono quelle di un ragazzotto che ha passato la giovinezza tra Kyuss & co., Nebula, Orchid e affini, facendogli venire voglia di suonare quei riff mastodontici e assoli psichedelici mentre la sua voce urlava al mondo. L'EP apre con "She's Gone", una bella cavalcata stoner con tutti i crismi, veloce e con i suoni giusti. Il riff che conduce è tanto semplice quanto immediato e permette alla traccia di entrare subito nel cervello di chi ascolta e rimanervi li ad oltranza. La sezione ritmica di basso e batteria va dritta al sodo e sostiene con decisione l'intera canzone, mentre la voce matura del vocalist convince e si sposa alla perfezione con il mood sonico. Bello il break a tre quarti del brano, un giro di chitarra fuori dal genere che precede l'assolo finale con annesso raddoppio di tempo. Segue "We are Living" da cui è stato tratto l'omonimo video che vi consiglio caldamente di andarvi a vedere, vi strapperà sicuramente un sorriso e nel frattempo ascolterete questa traccia che eredita l'appeal della precedente. Questa volta la band ostenta della sana arroganza, sempre con riff stoner che puntano al groove e meno al muro di suoni, infatti il mix è sempre ben bilanciato e la canzone si lascia ascoltare senza intoppi. Il disco chiude con "Space Line", personalmente la traccia che preferisco e da cui è stato tratto il secondo video di 'Kill All Hipsters'. Un brano oscuro e da cui si percepisce anche il lato space rock dei Soul Racers, infatti la clip vede il trio milanese suonare in veste di astronauti o simili con l'intermezzo di una vecchia pellicola del secolo scorso. La traccia è più lenta delle precedenti e qui risulta molto piacevole il giro di basso che come spesso accade nel genere, riesce a prendersi una piccola parte di notorietà. Il tocco space è dato in particolare dal finale, dove la chitarra si destreggia in un assolo carico di feedback e delay a richiamare i suoni liquidi che spesso si associano a questo sottogenere del rock. La durata supera i sei minuti e avremmo apprezzato un break più deciso con annesso cambio di direzione, questo per mantenere alto il livello di attenzione per tutta la durata. Resta comunque che l'esordio della band è buono e mette in luce le doti di leader di Vincenzo che con passione porta avanti un progetto che ci auguriamo di veder crescere e arrivare all'incisione di un full length prodotto da una buona etichetta. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 70

sabato 14 novembre 2015

Odetosun - The Dark Dunes of Titan

#PER CHI AMA: Space Rock/Death Progressive, Opeth, Nahemah
Sapete quanto sia affascinato da tematiche astronomiche e quest'oggi mi trovo ad affrontare Titano, il più grande satellite di Saturno ed uno dei corpi rocciosi più massicci dell'intero sistema solare, nonché uno dei più affascinanti, per la presenza di ghiaccio d'acqua, laghi di idrocarburi e altre caratteristiche che l'accomunano alla nostra Terra primordiale. I tedeschi Odetosun, forse affascinati quanto il sottoscritto per l'astronomia ma anche ispirati dal romanzo 'As on a Darkling Plain' di Ben Bova, ne hanno voluto esplorare la superficie, cosi come fece la sonda Cassini-Huygens nel 2004, dedicandoci 4 lunghi brani. Brani che si aprono con l'inusuale (ma solo per posizionamento nella scaletta - e a cui personalmente avrei affidato l'outro) strumentale "At the Shore of the Ammonia Sea", che ci delizia comunque con dieci minuti di caldo rock progressive anni '70, che conferma quanto Bob Stoner aveva dichiarato nella recensione del debut 'Gods Forgotten Orbit', ossia che il terzetto di Augsburg sfodera una classe innata e già matura. Ma la "battigia di quell'oceano di ammoniaca" non puzza decisamente come il gas tossico e dall'odore pungente citato nel titolo, anzi profuma di dolce, e alla fine ci regala atmosfere dilatate di space rock di grande spessore. "Machine Horizon" irrompe con un riffing tempestoso, per cui mi sembra quasi di immaginare dei fulmini all'orizzonte di quel mare sopra descritto, mentre le arcigne vocals di Luke Stuchly calzano a pennello sulla matrice sonora dei nostri (ma in futuro mi aspetto evoluzioni sull'aspetto vocale dei nostri). L'atmosfera diviene più rarefatta e l'assenza di ossigeno intorpidisce la mia mente, ma niente paura perchè anche il sound degli Odetosun va via via ammorbidendosi lanciandosi in squarci di rock senza tempo: c'è chi cita i Pink Floyd, chi i Voivod o gli ultimi Opeth, io preferisco pensare che le splendide note che fuoriescono da 'The Dark Dunes of Titan' siano degli Odetosun e di nessun altro. Classe sopraffina lo confermo, soprattutto nella sei corde di Benny Stuchly e se "Remember Sequoia Forest" è un troppo breve interludio strumentale, alla fine mi abbandono alla conclusiva title track e ai suoi meravigliosi 15 minuti abbondanti di musica che mi catapultano nello spazio più profondo, in cui trovo modo di viaggiare ancor di più con la mia fantasia. È un mid tempo ragionato, in cui death metal (colpa del growling urlato di Luke), progressive e oscuro post metal (ricordate gli spagnoli Nahemah?) collidono come asteroidi sulla superficie di un pianeta, generando profondi canyon, montagne, laghi e valle, dando origine alla stupefacente armonia della natura. Altrettanto fa il terzetto teutonico, in grado di muoversi con agio attraverso fraseggi jazz, dilatazioni post apocalittiche, tastiere settantiane e assoli strepitosi, il tutto corredato da un'eccellente lavoro ritmico, con un plauso particolare infine alla batteria del bravissimo Gunther Rehmer. Il tutto mi induce all'oblio totale, una sensazione straordinaria per i miei sensi. Non saprei che altro dirvi per solleticare i vostri di sensi e indurvi all'ascolto (mandatorio) di questo sorprendente 'The Dark Dunes of Titan'. Per gli Odetosun garantisco io. (Francesco Scarci)

(Self - 2015)
Voto: 85

https://www.facebook.com/odetosun

martedì 10 novembre 2015

Giöbia – Magnifier

#PER CHI AMA: Acid Rock/Psych, Pink Floyd
I Giöbia tornano dopo l’eccellente 'Introducing Night Sound' del 2013, e lo fanno in grande stile, alzando ancora l’asticella di un suono che fa un ulteriore passo in avanti rispetto a quei modelli di psichedelia in qualche modo classica ai quali la band milanese ha sempre mostrato di ispirarsi. I Giöbia hanno ormai, a pieno titolo, assunto una statura internazionale testimoniata dall’appartenenza alla scuderia Sulatron e dall’attività live portata avanti con costanza fuori dai nostri confini. Eppure, se non odiassi il termine, potrei definire questo disco come un ottimo esempio di eccellenza italiana. Tutto qui dentro, dalla scrittura all’esecuzione, fino alla resa sonora, è di altissimo livello, dimostrando che anche in Italia si può fare del grandissimo rock e inorgogliendo tutti quelli che qui ci rimangono per scelta e lavorano con convinzione e serietà. Il rock dei Giöbia è un concentrato di psichedelia pe(n)sante, space e hard dalla densità altissima, che sposa in modo pressoché perfetto l’idea e la sua realizzazione pratica. In questo senso, quello prodotto da Stefano Bazu Basurto (voce, chitarre, ouz, bouzouki, santhur, synth), Saffo Fontana (organo, moog, voce), Paolo Dertji Basurto (basso) e Planetgong (batteria e percussioni) è un autentico gioiello. Non amo leggere recensioni track by track, per cui eviterò di scriverla, ma davvero ognuno di questi 7 brani andrebbe menzionato e commentato, dall'incedere ipnotico dell’iniziale “This World was Being Watched Closely”, allo stomp di “Devil’s Howl”, sferzato da un vento maligno di synth, dalla trascinante “The Pond”, col suo basso distorto, quella voce sinistra che fa tanto primo Roger Waters e la batteria che ti squassa il plesso solare, fino alla vertigine definitiva dei 15 minuti di “Sun Spectre”, una sorta di “One of These Days” sotto steroidi e proiettata nell'iperspazio. Per la riuscita di un disco di questo tipo, la resa sonora è parte essenziale, e il lavoro svolto da Andrea Cajelli alla Sauna di Varese è da valorizzare tanto quanto quello dei musicisti. Lasciatevi assorbire dal suono di questo disco fino a perdere ogni riferimento fisico attorno a voi e sorprendetevi a chiedervi se qualcuno vi abbia messo dell’acido nel caffè. 'Magnifier' rimanda l’immagine di una band proiettata in una dimensione davvero al di fuori dal tempo e dallo spazio. Miglior disco dell’anno? Fin’ora è tra i primissimi. (Mauro Catena)

(Sulatron Records - 2015)
Voto: 85

mercoledì 4 novembre 2015

Sergeant Thunderhoof - Ride of the Hoof

#PER CHI AMA: Stoner/Space Rock, Monster Magnet
Eccolo, finalmente. Dopo l’abbondante antipasto rappresentato nel 2014 dal super EP 'Zigurat', i Sergeant Thunderhoof danno alle stampe il loro primo album. Se 'Zigurat' li aveva posti all'attenzione per le loro non comuni capacità di scrittura in un ambito, quello stoner, che spesso è preda di una perpetua riproposizione di cliché frusti e idee di terza mano, 'Ride of the Hoof' centra in pieno l’obiettivo di confermare le qualità della band e si pone come importante pietra di paragone per la scena negli anni a venire. Rispetto all'esordio, sembra esserci qui una maggiore apertura verso una prospettiva di evoluzione, laddove invece 'Zigurat' pareva piú ancorato a riferimenti classici. Sono molto interessanti il suono delle chitarre e l’uso della voce, che riescono a coniugare alla perfezione modernità e un certo gusto classico. Quello che maggiormente colpisce, nel suono dei quattro ragazzoni del Somerset, è che sembra fatto di una materia allo stesso tempo pesante e leggerissima, in grado di penetrare fino al centro della terra così come repentinamente schizzare nello spazio a distanze siderali. E questa dualità riesce a rendere l’ascolto sempre interessante, vivo e fresco. L’album si snoda lungo sei brani mediamente lunghi, per un totale di una cinquantina di minuti davvero densi. Dall'apertura, affidata a “Time Stood Still”, si nota subito la grande abilità a livello di songwriting e una ricerca sonora in grado di coniugare sprazzi post a classicità stoner doom. Si prosegue senza cedimenti con l’incedere pachidermico di “Planet Hoof” e i riff trascinanti in stile '70s di “Reptilian Woman”, fino a “Enter the Zigurat”, song dalle forti componenti psych e la monumentale “Goat Mushroom”, 13 minuti di stordimenti doom, improvvise accelerazioni ipercinetiche e immani cavalcate stoner psichedeliche. La chiusura di 'Ride of the Hoof' è affidata a quella “Staff of Souls” che rivela un lato totalmente inedito e affascinante della band inglese, fatto di delicati arpeggi dal sapore post-rock e un cantato sognante, il tutto lasciato sospeso in un modo davvero magico. Maniera eccellente per chiudere un album carico di decibel e distorsioni che vi faranno friggere le orecchie, ma che ha anche un altro effetto collaterale: creano dipendenza. In ambito stoner, i Sergeant Thunderhoof si confermano tra le migliori uscite dell’anno. Senza dubbio. (Mauro Catena)

(Self - 2015)
Voto: 80

mercoledì 7 ottobre 2015

Eternal Fuzz - Nostalgia

#PER CHI AMA: Space Rock/Stoner
Gli Eternal Fuzz provengono dal New Jersey e il quartetto sembra essersi formato nel 2009, data non confermata, ma ricavata dalle pochissime informazioni sul web (del 2009 il loro primo EP). Dopo questo è seguito un demo nel 2011 e un full length, 'Camp Fuzz', nel 2012. 'Nostalgia', rilasciato a maggio di quest'anno, include nove tracce e riprende la copertina dal precedente lavoro, invertendone solamente il tema stellare/notturno. La band statunitense continua col filone stoner/doom/sludge che ne ha contraddistinto gli esordi, quindi suoni pesanti, ricchi di basse frequenze puntando tutto o quasi sull'impatto sonoro. La qualità del lavoro svolto è buona, sia a livello compositivo, esecutivo e di registrazione. Le chitarre esprimono al meglio tutte le sfumature delle distorsioni estreme utilizzate, ricche di gain e larsen che anche ascoltate a volume medio lasciano trasparire una potenza sovrannaturale. Anche alla batteria è stata resa giustizia, con un profilo sonoro vintage, votata al realismo puro senza artifici come trigger e affini. Il basso concorre, come spesso accade in questi generi, al muro sonoro, quindi spicca realmente nelle parti meno estreme e comunica comunque il suo carattere leggermente nasale. Il vocalist caratterizza in discreta parte l'appeal della band, con un cantato leggero, quasi indie-pop, etereo quanto basta per dare anche un connotato space rock alla band di Cranbury Township. L'album apre con "Closer (Slugnaut) Fleet", che dopo una intro di chitarra dal riff palesemente psichedelico, esplode come una bordata degna di una corazzata americana. Le chitarre sono incisive come un gigantesco blocco di ghiaccio che si stacca improvvisamente e investe l'ascoltatore con la sua veemente onda d'urto. La ritmica cadenzata e il cantato ipnotico la fanno da padrona per gran parte del brano, ma le accelerazioni sporadiche e i cambi di ritmo alleggeriscono la processione sonora. In fin dei conti si tratta di un brano semplice, ma caratterizzato da una piacevole oscura atmosfera. "Terraessence" cambia le carte in tavolo, presentandosi come una traccia tra il grunge e il punk, una cavalcata di appena tre minuti che corre all'impazzata e si ferma sporadicamente a suon di larsen. Il riff di chitarra porta il marchio Nirvana, l'unica differenza è la cattiveria dovuta al fuzz utilizzato dal chitarrista. Anche qui il cantato sembra provenire dalla vicina cantina e fa l'occhiolino al movimento dark e kraut rock di qualche anno fa. Il rallentamento a metà canzone riporta l'ascoltatore nella dimensione sludge/doom degli Eternal Fuzz. L'immagine che viene subito alla mente è vedere se stessi immersi in una melma fangosa che ci imprigiona e fa di tutto per tirarci giù nelle profondità oscure, dove vivono esseri innominabili e che potrebbero causare pazzia istantanea al solo vederli. La band comunque riesce a dosare abbastanza bene i momenti di break che regalano attimi di pausa e respiro, basti ascoltare il fantastico stacco post-rock a metà di "Moody Hum". Insomma, gli Eternal Fuzz sono una band sicuramente interessante perché si sforza di miscelare generi che vedono moltissimi gruppi tra le loro fila. L'album non verrà annoverato tra i migliori del 2015, ma annuncia che un quartetto americano è uscito allo scoperto per farsi conoscere e raccogliere il meritato riconoscimento. (Michele Montanari)

(Self - 2015)
Voto: 75

sabato 12 settembre 2015

Ketha - #!%16.7

#PER CHI AMA: Musica totale, Primus, Tool, Meshuggah
Sapete che quando trovo un album eccezionale lo devo gridare a tutti, è più forte di me; cosi spulciando per la rete ecco capitarmi fra le mani i polacchi Ketha, sconosciuti autori già di due album e di questo incredibile EP dal titolo emblematico '#!%16.7'. La durata ahimé limitata rendono ancor più ossessiva la mia caccia ai precedenti introvabili lavori. Nel frattempo devo accontentarmi di queste 12 minuscole tracce che in realtà ne costituiscono una sola dato il flusso sonico continuo che si sviluppa dalla opening track, "Shhh" alla conclusiva "Redshift", in un viaggio musicale senza precedenti. Ragazzi, qui non si scherza. L'ensemble polacco ha prodotto un qualcosa di estremamente delirante che abbina il riffing nevrotico dei Meshuggah con la follia dei Primus, in un percorso ipnotico che vi lascerà di sasso e avrà modo di percorrere saliscendi progressivi, partiture blues-jazz, rimandi di tooliana memoria, trionfi di sax e trombe, aperture cinematiche, growling vocals, twist and shout, superbe montagne di groove, splendidi assoli, death metal, space rock e chi più ne ha più ne metta. Non fatevelo scappare, per loro garantisco io. (Francesco Scarci)

(Instant Classic - 2015)
Voto: 90

https://www.facebook.com/kethaband

domenica 12 luglio 2015

Mother Engine - Absturz

#PER CHI AMA: Kraut/Stoner/Space Rock strumentale, Color Haze, Can
Sulla pagina Bandcamp dedicata ad 'Absturz' si legge: “Questo album è interamente registrato live dai Mother Engine mentre jammavano nella stessa stanza. Per riprodurre al meglio le dinamiche e il suono, vi consigliamo di suonare il disco […] al massimo volume possibile”. L’inizio è promettente: non molti possono permettersi di rinunciare ad editing digitali, sovramissaggi, aggiunte e rifiniture in post-produzione. In effetti l’attitudine alla jam del trio tedesco era già nota: allo Stoned From The Underground Festival del 2013 non erano in scaletta – ma si sono portati gli strumenti e hanno allestito un set live nel campeggio (geniale!), facendo il pienone e diventando gli idoli del pubblico. Preparatevi ad un viaggio spettacolare: a guidare la nave spaziale c’è il chitarrista Chris Trautenbach. Virtuoso ma senza esagerazioni, sempre in equilibrio costante tra grasse distorsioni fuzz e tonnellate di delay, flanger, wah ed effettistica vecchia scuola. È lui a tracciare le linee e il riffing di ogni pezzo: sempre originale nei suoni e nelle melodie – mai una sbavatura, mai una scelta banale, mai un passaggio noioso o scontato: non sentirete minimamente la mancanza di una voce. A co-pilotare la nave, Cornelius Grünert alla batteria (bravissimo con dinamiche, fantasia e tocco) e Christian Dressel al basso: sono loro a costituire di fatto il motore portante di 'Absturz', su cui la chitarra costruisce poi architetture strumentali sempre nuove. Grazie alla registrazione come jam in presa diretta, il lavoro è estremamente fluido: un vero viaggio tra atmosfere strumentali psichedeliche di delay e riff caleidoscopici e groovy (ascoltate la opening “Nebel”, come esplode dal minuto 4 in avanti; o le ritmiche veloci di “Relief”, soprattutto nel finalone da headbanging), tra arpeggi soffici e distanti, costruzioni prog, immense aperture di crash e distorsioni (“Wüstenwind”), lunghe improvvisazioni e calde sonorità avvolgenti. Indimenticabile il main riff di “Lichtung”, a costruire una connessione naturale tra la tradizione stoner americana (Karma To Burn, Pelican, ma anche certi Kyuss) e il kraut rock di Can e Color Haze. Misuratissimi i due interventi vocali da guest, nel finale di “Relief” e nella coloratissima “Sonne” – con una voce femminile che canta in lingua tedesca tra partenze e ripartenze della musica. Se anche voi rimpiangete una certa naturalità della musica, la capacità di far immaginare scenari solitari e viaggi spaziali, la tecnica finalizzata all’emozione, la dinamica e i lunghi delay, pur senza rinunciare all’aspetto più groovy, rock e ai riff spaccacollo – spolverate i vostri bong e non perdetevi questi 60 minuti di meraviglia tedesca.(Stefano Torregrossa)

(Gebrüllter Schall - 2015)
Voto: 90

https://www.facebook.com/MotherEngineRock

venerdì 19 giugno 2015

Cosmic Letdown – Venera

#PER CHI AMA: Psych Rock
Dopo un EP e un singolo, ecco finalmente arrivare l’esordio sulla lunga distanza per questo combo russo, dedito alla psichedelia più lisergica e “viaggiante”. Perfetto come colonna sonora per un trip a base di psilocibina, 'Venera' mette in fila 10 brani per circa 47 minuti al termine dei quali sarete imbevuti di acido fino alla punta dei capelli. La psichedelia messa in scena dai Cosmic Letdown non è quella addomesticata e abbeverata al fiume del pop dei Tame Impala, ma pesca a piene mani da quanto fatto anni orsono dagli Spaceman 3 di Jason Pierce o piú di recente dai Black Angels, quindi un rock basato su mantra ricorsivi, riff semplici e ipnotici, gorghi chitarristici, organi chiesastici e ritmiche ossessive, nella miglior tradizione psych. Il tutto, però cantato nella lingua madre, a dare un ulteriore tocco straniante ed allucinatorio (provate ad ascoltare queste nenie sommerse dai watt cantate in russo e poi mi saprete dire). Sarà forse la suggestione data dal luogo di provenienza, forse una certa solennità nell’incedere di brani come “Mary” e “Moonlight”, ma a me hanno ricordato in qualche passaggio i C.S.I del capolavoro 'Ko de Mondo', per la capacità della chitarra di trascinare l’ascoltatore in un luogo al di fuori del tempo e dello spazio. Lavoro ben realizzato e ben prodotto, 'Venera' avvolge fin dal primo momento con le sue spire che intrappolano facilmente chi ascolta. Il problema, forse, può risiedere in una certa ripetitività, peraltro insita in questo tipo di musica, che potrebbe risultare alla lunga un tantino monocorde. Difficile, per questo motivo, citare pezzi che si staglino al di sopra degli altri. Oltre ai già citati, menzionerei le maestose “Jesus” e “Venera-6” e la sognante “Up in the Sky”. Non mi resta che invitarvi a togliere le scarpe, mettervi comodi, spegnere le luci e prendere il volo premendo il tasto “play”. Viaggioni. (Mauro Catena)

(Opium Eyes Records - 2015)
Voto: 70

sabato 6 giugno 2015

Tuliterä - Tulikaste

#PER CHI AMA: Progressive/Space Rock, Ozric Tentacles
Una spada nel bel mezzo della galassia mi ha fatto presagire al solito progetto viking power. Fortunatamente ho preso un bel granchio. I Tuliterä infatti sono una realtà non cosi facile da delineare musicalmente. Prendete "Percolator", la opening track come esempio lapalissiano: la traccia apre con suoni ambient che lentamente cedono a digressioni space rock in un pezzo in cui i bassi fanno vibrare letteralmente i muri della mia casa. Suoni suadenti, delicati per carità, ma capisco che qualcosa prima o poi deflagrerà nel mio impianto hi-fi. Non tarda infatti di molto quello squarcio nello spazio interstellare ad opera di una robustissima ritmica di matrice djent. "Alpha Blade" si scatena con una dinamica cavalcata nello spazio profondo con le chitarre, dal piglio progressive, a roteare vorticosamente, intrecciandosi con gli onnipresenti synth. La natura strumentale del lavoro non si avverte in alcun modo, complici le innumerevoli trovate effettistiche che sostituiscono la presenza di un vocalist. Con "Jagat", si spinge ancor più a fondo la manetta del gas: immaginate quei film in cui le astronavi, alla velocità della luce, viaggiano all'interno di quei tunnel multicolore. "Jagat" è questo, velocità supersoniche e ipertecniche, che dimostrano l'eccelsa qualità tecnica del quartetto di Helsinki. Superata la Cintura di Orione, si arriva al placido porto di "Firedew", ove tutto appare più tranquillo ma dove in realtà Vesa e Hannu, le due asce, si inseguono con melodiche linee di chitarra, accompagnate dal basso pulsante di Tommi Nissinen e dal drumming preciso di Tommi Tolonen. È il verso di una balena quello che si sente nell'incipit di "Cetus", song che offre un reiterata ritmica di fondo su cui ben presto una delle due chitarre prenderà il sopravvento, guidandoci nella breve residua durata del brano. "Voidborn" ha un intro ambientale, un mutante psichedelico, sulla stregua dei Pink Floyd più recenti, che vede comunque sempre in prima linea l'armonico suono delle 6-corde e soprattutto i synth che vengono doppiati addirittura dall'inebriante melodia di un sitar e di un tambura, a cura di Jaire, guest in questa lunga song. "Star Rodeo", non fosse altro per i synth space rock, potrebbe stare tranquillamente su un qualche album speed metal: un saliscendi ubriacante di chitarre spinte a velocità 3C, che superano la Teoria della Relatività di Einstein. "All-Seeing Delirium" nei suoi 14 minuti ci da modo di conoscere un nuovo mondo extraterreste, fatto di soffuse luci e stravaganti colori che probabilmente sulla Terra non esistono; i suoni sono liquidi e inquietanti, anche se da un certo punto in poi della traccia, saranno solo in grado di trasmettermi tranquillità. Non so se sia un buco nero o altro, quello che si materializza nella conclusiva "Menticide": i suoni e la luce vengono infatti risucchiati all'interno di un ipnotico e oscuro centro magnetico che alla fine lascerà soltanto il buio cosmico. È forse questa la musica del lontano pianeta K-PAX? A voi il compito di scoprirlo... (Francesco Scarci)

venerdì 1 maggio 2015

Space Project - S/t

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Post Rock
Benvenuti all’ascolto degli Space Project. Invito lor signori e lor signore a premunirsi d’un guardaroba variegato. Non me ne vogliate, non è una questione di forma. È una necessità sonora per vivere appieno quest’album fatto di ambientazioni che spaziano da un tempo all’altro. “Atlantis” apre le danze. L’esordio è in grande stile. Vestiamoci anni ‘30 e prepariamoci a farci condurre da frange che ondeggiano ritmicamente al batter di batteria, al diteggiare di trombe, allo schioccare di dita, al danzare di ballerine abbellite da perle e luccichii. Le strumentalità sono prorompenti, ma conservano un retrò style che affascina. Rallentate, frenate, fermate la vostra Rolls Royce. Siamo al cambio d’abito. Comodi, ma non casuali. Abbiate cravatte slacciate su camicie sbottonate, così come tacchi su vestiti che fanno intuire, ma non rendono giustizia. Non c’è forma in questa “Breathe”. Non c’è forma, ma c’è stile ancora. Gli Space Projet non deludono. Una voce dipana da una soglia prima invisibile, ora tracciabile, descritta da un fondo accennato di fiati e di piano. Ascoltare talvolta è apoteosi al descrivere. Fiati ancora. Soffusi di suoni ancora. Una chiusura che spazza il dubbio che questo pezzo sia stato dolcezza, imprimendo la propria rabbia nostalgica nella musica. Eppure, abbiamo sognato. Ora avrei bisogno di un ibrido alcolico di sapori, forte. Con “Horizon” non c’è che da staccare un biglietto di sola andata per… Chiedetemi la destinazione del nostro viaggio e vi risponderò che questo pezzo vi farà viaggiare a costo zero. Sonorità fatte di Marocco e di sete veleggianti. Per pochi istanti la schizofrenia di “Horizon” chiama i Deep Purple, poi la tromba e la batteria corrono allo stile ska che fa di sè e della penisola iberica il proprio emblema. Il brano non ha un epilogo. È se stesso. È sporcato da se stesso, invaso, confermando la propria identità sino alla fine. Eleganza prego nel vostro abbigliarvi ora. Siete invitati ad un capodanno atemporale. “Wanderer”. Fatemi assaporare questo riff, prima di dirvi che quest'album, giunto all’epilogo, ha bpm che fanno del proprio battere un climax bipolare ascendente, goliardico, ingannevole. Il pezzo induce postumi seducenti. Dopo il primo minuto le sonorità sono evanescenti, insolute, memori di anni '80-'90 con moti pregevoli che ricordano la sacralità dei Rolling Stones e dei Pink Floid. Lasciatemi bere l’ultimo sorso di questo dialogo tra elettriche, trombe, batterie metalliche. E l’ascolto è per pochi estimatori. Il soffondere per tutti. Per me c’è un altro album ora da mandare on air nelle mie serate. (Silvia Comencini)

domenica 8 marzo 2015

Kayleth - Space Muffin

#PER CHI AMA: Stoner/Space Rock, Hawkwind, Monster Magnet, Motorhead
Mettiamo subito in chiaro una cosa: a me i vecchi Kayleth, quelli recensiti su queste stesse pagine con l'album 'Survivor' e l'EP 'Rusty Gold', non mi andavano a genio, per quelle sonorità già sentite e per la mia non proprio spiccata propensione allo stoner fine a se stesso. Fatta questa semplice premessa, accolgo direttamente dalle mani della band veneta, il nuovo futuristico 'Space Muffin'. Detto che non sono neppure sensibile ai facili entusiasmi, il quintetto veronese verosimilmente avrà di che preoccuparsi nel leggere queste mie parole. Parto la mia analisi dall'artwork extraterrestre del cd che oltre a raffigurare una presunta donna aliena in riva al mare con le piramidi di Cheope Chefren e Micerino sullo sfondo, vede orbitare un paio di lune e un agglomerato di stelle (vi è forse un qualche mal celato significato simbolico?) messe alla rinfusa in un cielo un po' troppo verdognolo. Il disco consta di otto tracce e vede avviare i propri propulsori interstellari con "Mountains". La song apre in modo grandioso con una roboante commistione di suoni granitici di chitarra e batteria, coadiuvati dai cibernetici synth del neo entrato in line-up, Michele Montanari, che sembra aver portato nuova linfa vitale nella decennale carriera dei nostri e che sembra anche allontanare quegli spettri che richiamano da sempre i vari Kyuss e Orange Goblin. Stiamo sempre parlando di stoner sia chiaro, ma questa volta offerto in una salsa ben più raffinata che arriva a citare anche formazioni come Electric Wizard e Hawkwind, senza far finta di dimenticare anche un che dei Mastodon. Forse mi crederete un pazzo visionario ma la proposta dei Kayleth suona più pomposa e matura rispetto al passato e questo costituisce di certo il punto di forza ma anche per una nuova ripartenza, per il combo italico. "Secret Place" è il luogo segreto ove il five-piece ci vuole condurre, un brano che attacca con un riffing che richiama un che dei primi Led Zeppelin ma ne irrobustisce all'ennesima potenza la sezione ritmica, che va via via ingrossandosi ancor di più, nel corso del brano. La voce di Enrico Gastaldo si conferma ai livelli del passato, richiamando con la sua timbrica Ozzy Osbourne, piuttosto che un giovanissimo Chris Cornell o Lemmy Kilmister, ma comunque ben adattandosi al sound della band. "Spacewalk" apre con un messaggio alieno, mentre il pizzicare della chitarra prepara a chissà quale fragorosa esplosione. L'approccio della song ha un che di post rock nel suo prologo, si lancia poi nello spazio infinito con un riffing selvaggio, trascinante, mentre lo screaming di Enrico impera nell'altisonante finale da brividi. Signori i Kayleth sono cambiati, maturati, hanno assunto la piena consapevolezza nei propri mezzi e anche la sempre attenta Argonauta Records se n'è accorta. A testimoniare l'ecletticità dei nostri ci pensa la psichedelica "Bare Knuckle", song che rappresenta l'ideale connubio tra progressive (splendide le chitarre a tal proposito dell'axeman Massimo Dalla Valle), space rock, stoner e doom (chi ha citato i Cathedral di 'The Ethereal Mirrors'?), in quella che probabilmente è la mia traccia preferita. L'impronta blues/hard rock dei Kayleth si palesa nella quinta "Born to Suffer", ma l'apporto dei synth rende il sound decisamente più moderno, anche se questo brano potrebbe stare tranquillamente in un qualche album rock anni '70. Non so se si tratti dei microfoni della hall di un aeroporto quelli che si sentono inizialmente in "Lies to Mind", ma la traccia prosegue sul suo pattern rock/stoner fondendo in un ibrido surreale, i Motorhead con i Kyuss e gli Hawkwind. "Try to Save the Appearances" è un altro bel pezzo, grondante di groove da ogni suo poro che richiama sonorità tooliane (Mick ci sono anche i Lingua qui dentro?) che fino ad ora erano tenute camuffate nel sound dei nostri, ma che comunque vengono reinterpretate alla grande dai cinque ottimi musicisti veronesi, per cui vado a menzionare anche il martellante e preciso drumming a cura di Daniele Pedrollo e il palpitante basso di Alessandro Zanetti. Chiude il disco "NGC 2244", acronimo che individua l'ammasso aperto di Rosetta (che sia forse quello che si vede nel cielo della cover?), eccellente traccia strumentale che sancisce la scalata dei Kayleth nell'Olimpo dello stoner nazionale e, auspichiamo ben presto, mondiale. Bravissimi! (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2015)
Voto: 85

mercoledì 15 ottobre 2014

Dead Mountain Mouth - Viae

#PER CHI AMA: Avantgarde, Post, Arcturus, Devin Townsend
Torna la one man band francese dei Dead Mountain Mouth, che non solo avevamo conosciuto con il precedente album, 'Crystalline', ma anche con un altro progetto parallelo, quello dei A Very Old Ghost Behind the Farm. Il polistrumentista di Tolosa, Lundi Galilao, torna questa volta con un EP, ahimè in sola uscita digitale, di tre lunghi pezzi che confermano il sound vertiginoso del mastermind transalpino. Le danze si aprono con "Mortify", lunga song di circa 10 minuti che nel suo lento avanzare mi ha evocato le ultime cose dei nostrani Ephel Duath, anche se in una versione un po' meno jazz, ma più proiettata verso i lidi della delirante psichedelia degli Oranssi Pazuzu, che già avevo menzionato nella precedente recensione. Quello che mi spinge ad accostare il progetto dei DMM alla band di Davide Tiso, è il sound astrale e disarmonico delle chitarre, alla continua ricerca di un qualcosa di sfuggente anche per l'artista patavino. Il risultato che ne viene fuori, è comunque un qualcosa al di sopra della media, che combina sonorità scevre da ogni sorta di etichetta con influenze e retaggi post, space rock e progressive. Con "Lamb", Lundi si lancia in una propria rilettura del genere estremo in cui questa volta a fondersi nell'intelaiatura, in realtà non più tanto estrema dell'act francese, si ritrovano un pizzico di elettronica e suoni cyber industriali, anche se tuttavia relegati in secondo piano con pazzesche fughe in territori, ai più, sconosciuti. Le vocals si muovono tra il growl, lo screaming e sperimentazioni avantgardiane (simil Arcturus), mentre la musica nella seconda metà del brano, imbocca strade ancor più stralunate, tra il cinematico e l'ambient, abbracciando ancora una volta la follia di Devin Townsend e altre sperimentazioni di un mondo nascosto, che testimoniano l'eccelso lavoro del mago di Tolosa. "Science and Wilderness" chiude il trittico di song spettacolari che costituiscono questa release, che auspico possa trovare quanto prima una distribuzione fisica. Non posso infatti pensare di rimanere senza il cd di 'Viae', un lavoro che mostra anche nella sua terza epica traccia (con qualche eco dei Bathory più ispirati, incredibilmente mescolati con post e non so che), quanto spazio sia ancora disponibile per offrire sonorità inusuali, innovative e all'avanguardia, che possono proiettarci in nuovi mondi tutti da scoprire... Eccellenti! (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 85

domenica 14 settembre 2014

Sergeant Thunderhoof – Zigurat

#PER CHI AMA: Stoner, Doom, Space Rock, Monster Magnet
Lo ammetto, dopo il primo ascolto avevo pesantemente sottovalutato questo disco, che mi era sembrato piatto e inultilmente prolisso. Se ne avessi scritto all’epoca, agli atti sarebbero rimasto le prove della mia clamorosa cantonata, perchè questo 'Zigurat' è un lavoro davvero magnifico. I Sergeant Thunderhoof sono un quartetto inglese di Bath che arriva all’esordio discografico (autoprodotto) con quello che loro stessi definiscono un EP, anche se dura circa 40 minuti, il cui nome è preso dalle piramidi tipiche della civiltà babilonese, che simboleggiavano la montagna sacra. Ed ecco quindi che 'Zigurat' è in effetti una piramide che getta le sue basi sulla roccia solidissima, per poi slanciarsi verso l’alto e svettare oltre le nubi, puntando lo spazio profondo. Quello che ai quattro riesce benissimo, infatti, è il connubio tra la sostanza magmatica dei loro riff di matrice stoner e doom, con la leggerezza psichedelica che riesce a sospingerli verso l’alto, quasi in assenza di gravità. Quello che abbiamo tra le mani è quindi un favoloso ibrido tra Sabbath, Moster Magnet, Black Label Society, caratterizzato però da fortissime propensioni space che lo elevano facilmente rispetto alla massa di produzioni solo apparentemente simili. Tutto è al posto giusto: un cantante come ce ne sono pochi, chitarre potentissime e raffinate allo stesso tempo, una sezione ritmica semplicemente devastante, il tutto valorizzato da una produzione e un suono impeccabile, tenendo conto del fatto che ci troviamo di fronte ad un lavoro autoprodotto. Ogni cosa è curata nel dettaglio anche nell’ottimo artwork del digipack, che contiene anche i testi, ricchi di riferimenti lisergici e psichedelici. La prima traccia, "Devil Whore", è forse la meno convincente del lotto, perché pur essendo estremamente godibile e potente, è anche quella in cui l’effetto deja-vu è più forte, ricalcando maggiormente i modelli di cui sopra. Subito dopo arriva, però, l’apice del disco: "Pity for the Sun" che inizia dilatata e liquida per poi esplodere in tutta la sua potenza con riff monumentali e ha la forza, dopo otto minuti senza cedimenti, di accelerare ancora verso il centro della terra. Indimenticabile. "Om Asato Ma Sadgamaya" è il brano piú breve, che stempera bene la tensione con le sue chitarre effettate e l’atmosfera molto 70’s, prima dei due lunghi trip conclusivi: "Lunar Worship" si erge maestosa e sorprende con le sue rarefazioni improvvise, mentre "After Burner" cresce piano sorretta da magnifiche chitarre e una voce sempre piú protagonista, per poi esplodere nel climax finale fatto di colate laviche e grida strozzate. Per concludere, quindi, un esordio spettacolare, che potrebbe aver sancito la nascita di una nuova stella. Ci auguriamo tutti che sia cosí. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 80

giovedì 11 settembre 2014

Clawerfield - Engines Of Creation

#PER CHI AMA: Cyber Industrial, Djent, Tesseract, Meshuggah
La scena svizzera sta crescendo veramente tanto con band interessanti che si affiancano ai vecchi classici, Samael, Eluveitie o Coroner. Sto parlando di act quali Abraham, Fate Control, Voice of Ruin e per ultimi, questi Clawerfield di Thun. Sonorità fresche e cariche di groove arrivano dalla piccola cittadina svizzera. Un concentrato di suoni cibernetici che si coniugano alla perfezione col djent dei grandi act mondiali. Dopo l'intro "Nautilus", che comunque anticipa le sonorità del quartetto elvetico, ecco l'attacco di "Emotion Zero": bei riffoni a dettare i tempi, ottime keys che disegnano atmosfere tra il cyber, l'industrial e lo space metal, e le vocals di Adrian Wasser che si muovono tra un fantastico growling, il clean e l'effettato elettronico. Meshuggah, Scar Symmetry e Tesseract, l'influenza di queste band converge nel sound, assai notevole, dei Clawerfield. C'è chi parla di modern metal, chi semplicemente di djent, a me piace pensare che questi ragazzi, al secondo album, abbiano centrato in pieno il loro obiettivo, in qualunque modo vogliate definire il loro genere. 'Engines of Creation' è un lavoro ammiccante che saprà catturarvi con le sue melodie ruffiane, con la grinta di chi vuole riuscire nel proprio intento e sa che ce la può fare. "Halo" ne è la dimostrazione palese: song mid-tempo che coniuga il rifferama aggressivo nord europeo con bei chorus, melodie catchy e qualche frangente synth pop. Preoccupati del risultato finale? Niente paura perché il quartetto spacca anche se a risuonare nel mio stereo c'è la traccia più paracula dell'album, "Drop RMX - Redemption (Drop RMX)", song orientata sul versante elettro industrial EBM. Con la title track si torna a ritmiche serrate, stop'n go e harsh vocals. L'animo dei Meshuggah prende nuovamente possesso dei nostri anche se non tardano ad arrivare i coretti, le voci pulite e le tastiere (e un ottimo assolo) a mitigare il temperamento ribelle della band del canton Berna. A chiudere l'elegante digipack, ecco la feroce "Symbiosis" che martella che è un piacere, mostrandosi alla fine come la song più abrasiva dell'album, dal carattere più forte e compatto, che non si nega comunque al versante più melodico dei nostri e in cui maggiormente entrano in gioco le influenze dei Tesseract, soprattutto a livello di atmosfere. 'Engines of Creation' si rivela un gran bel disco che potrà conquistare non solo gli amanti di queste sonorità dall'animo futurista. I Clawerfield alla fine sono proprio una piacevole scoperta di quest'ultimo scorcio d'estate, non c'è che dire. (Francesco Scarci)

(Self - 2014) 
Voto: 75 

mercoledì 19 marzo 2014

Enos - Chapter I

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Stoner/Sludge, Space rock, Orange Goblin, Baroness, Sleep 
Si intuisce che c’è più del solito disco in questo 'Chapter 1' degli Enos solo guardando il packaging: schemi di costruzione di razzi spaziali, un bel fumetto free – come il disco, d’altra parte: tutto in free download –, e una tracklist che racconta già una storia: quella di una scimmia, Enos, che negli anni ’60 fu addestrata dalla NASA e lanciata nello spazio come test per i futuri viaggi dello shuttle. Enos tornò a casa, nella vita reale: la band inglese, invece, immagina che da qualche parte la scimmia si perda nello spazio e ritorni sulla Terra, sì, ma ormai trasformata in qualcos’altro. Musicalmente gli Enos pescano a piene mani elementi dello stoner/sludge psichedelico di oltreoceano (c’è qualcosa dei Kyuss, certo, ma anche di Sleep, Baroness, Hawkwind) mantenendo comunque un certo piglio British (Orange Goblin, persino Pink Floyd a tratti) soprattutto nei suoni, nella struttura delle canzoni e nel mood generale. Cinque tracce per 35 minuti: si va dai potenti riff stoner di “Launch” alle atmosfere space guidate dalla chitarra acustica di “In Space”, ma c’è spazio anche per la psichedelia floydiana di “Floating” e per l’oscurità doom delle inquietanti “Transform” e “Back To Earth”, che chiude il disco con tre minuti abbondanti di un riff ossessivo che non dimenticherete facilmente. I quattro Enos si muovono con personalità e sicurezza pur essendo un debut album: si percepiscono le influenze già citate, ma ben miscelate e interpretate con gusto e presenza. Bella la voce quasi costantemente in delay (mi ricorda i Sons Of Otis), bello il taglio blues di molti soli, belli i misuratissimi interventi di soundscapes di tastiere. Volete un difetto? Alcuni suoni, il rullante in particolare, sono forse un po’ troppo lo-fi persino per un genere che ha fatto della produzione sporca e grezza un marchio di fabbrica. Ma “Chapter 1” degli Enos resta davvero un bel lavoro, pieno di idee e ben suonato: se non bastasse, lo ripeto, l’album è pure in free download. Da avere. (Stefano Torregrossa)

(Self - 2010) 
Voto: 75 

sabato 15 marzo 2014

Nibiru - Netrayoni

#PER CHI AMA: Sludge/Drone/Space rock
Indossate anche voi la kesa e preparatevi ad entrare nello spirituale mondo degli sciamani Nibiru. La cover cd di 'Netrayoni' rappresenta infatti una fotografia di uno dei luoghi più mistici al mondo, il sito archeologico di Angkor in Cambogia, centro politico-religioso dell'impero Kmer, da cui il trio piemontese deve essere stato profondamente affascinato. Imponente doppio cd per i nostri, un album in cui le tracce sono state improvvisate e registrate all'Aadya's Temple Studios di Torino. Il primo cd, 'First Ritual: The Kaula's Circle' si apre con le perturbazioni sonore di "Kshanika Mukta", monolitica song di oltre 17 minuti, che nel suo incedere stantio, ci nutre di riverberi drone, lamenti ritualisti enochiani e inquietanti frammenti di dialoghi cinematografici che producono un profondo senso di malessere. Dimenticavo una premessa d'obbligo per tutti coloro che si avvicineranno a questa intrigante opera: la sua scarsa accessibilità metterà a dura prova i vostri neuroni. Si parlava di improvvisazione, ma a differenza del jazz che molto spesso scorre dinamico nella sua delirante esposizione, qui il suono si contorce su se stesso, con un riffing lento e malato, epigono per certi versi, della proposta dei ben più famosi colleghi Ufomammut. La seconda "Apsara" ha un piglio differente dall'opening track; si tratta di una song più strutturata, dotata di una maggiore 'dinamicità', sebbene si confermi un rifferama che si dipana tra un liquido drone e le fughe allucinogene della psichedelia, mostrando una spiritualità stoner. Il risultato è sicuramente ossessivo e se anche voi dopo la prima mezz'ora proverete un forte senso d'asfissia, vi confermo si tratti dell'effetto a cui la band stava puntando. Faccio una prima pausa per desaturare la mia mente. Quando riattacco, mi accorgo che la noisy "Sekhet Aahru" dura solo cinque minuti, giusto un intermezzo in cui mi sembra faccia la sua comparsa il suono di un didgeridoo. "Qaa-om Sapah" necessita di oltre tre minuti di litaniche vocals per carburare, ma quando parte, si rivelerà come il pezzo che più si avvicina ad una vera e propria song: un turbinio di chitarre, un basso dirompente e percussioni avvolte da un'aura mefitica, un brano in cui si fa più forte una vibrante componente doom/sludge, oltre che psych rock e ambient. Il primo cd si chiude con l'acustica "Arkashani". Seconda pausa, giusto il tempo per infilare 'Second Ritual: Tears of Kaly' e far partire "Kwaw-loon", altra maratona di 16 minuti abbondanti, in cui il trio malefico, formato da Ardath, Siatris e Ri, assume sembianze più umane, senza tuttavia perdere il distintivo alone mantrico che li contraddistingue. Il cantato è sofferente ma in questo contesto è perfetto; un muro di riff lisergici e loop surreali suonati a rallentatore si insinuano nella mia fragile mente, alterando le mie funzioni sensoriali. Ormai alienato dalla realtà, "Sekhmet" (song che si rifà ad un mito egizio) con le sue atmosfere space rock, mi restituisce un senso di tranquillità e pace ridando finalmente armonia al mio corpo e ai miei sensi, quell'equilibrio che era andato perduto nella prima parte della release e comunque lontano dalla schizofrenia di tutti i giorni. La terza "Celeste: Samsara is Broken" è un pezzo rimasterizzato derivante dalle session del precedente 'Caosgon', da cui è stato estrapolato anche un video. Una massiccia song drone/sludge/space che mi riporta alle cerimonie induiste a cui mi è capitato di partecipare in uno dei templi indù in India. "Viparita Karani" oscilla ancora tra richiami seventies e il doom, con una bella effettistica space rock. A chiudere 'Netrayoni', album di 95 minuti carico di aspettative, ci pensa "Sothis" con le eteree tastiere accompagnate dai vocalizzi da oltretomba. Monumentali (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 80

domenica 9 marzo 2014

Varego - Blindness of the Sun

#PER CHI AMA: Stoner/Post Metal 
Ammetto di essere stato ammaliato dalla cover di questo cd, pregna di una certa simbologia esoterica, ancor prima della musica proposta dal five-pieces ligure. Chiaro che quando 'Blindness of the Sun' inizia poi a girare nel lettore, uno strabuzzi gli occhi, tenga le orecchie ben aperte e si concentri su un sound abbastanza inedito. Dopo una pseudo intro, integrata nei primi secondi di "Hesperian", si palesa l'offerta enigmatica del combo italico, egregiamente coadiuvato alla consolle da Billy Anderson (Sleep, Eyehategod, Mr. Bungle, solo per citarne alcuni). La song è spettrale sin dalla sua iniziale componentistica noise, che spiana la strada ad una ritmica articolata che shakera in egual dosi, stoner, sludge e post metal, con i vocalist che propongono un vasto repertorio vocale, passando dal clean allo scream con larga disinvoltura. Quello che più mi spiazza in questo pezzo sono delle sventagliate brutali a livello di riffing, che provocano un forte trasalimento emotivo. Con "Secrets Untold" è il fantasma dei Voivod a materializzarsi nelle melodiche linee bizzarre di chitarra, con il sound che tende ad aumentare la propria devianza cerebrale. L'accordatura è ribassata, il basso è pulsante, veemente, e le vocals schizoidi. Le fughe dalle parti dello stoner, della psichedelia o dello space rock settantiano, raggiungono elevati livelli di misticismo. Mentre leggo i testi, non posso che apprezzare la brillante scelta estetica anche nel dover combinare, come i tasselli di un puzzle, le liriche a costruire un altro disegno, dietro il quale si nasconderanno altri simboli esoterici. Nel frattempo è già partita la strumentale "The Flight of the I", song decisamente fuori dagli schemi, per non dire folle, dominata dalla tromba incandescente di Mr. JJ Sansone (Casinò Royale e La Crus) e da atmosfere che ambiscono decisamente alla catarsi. Il suono magmatico del quintetto sfocia in "Of Drowning Stars" in cui fa la sua comparsa addirittura Jarboe. L'ex vocalist degli Swans regala la sua preziosa performance su un sound già di per sé di elevata qualità, ma che di sicuro non mostra un'altrettanta accessibilità. Si perché, se una pecca la si deve trovare ai Varego (nome che deriva da una pianta terapeutica) è proprio quella relativa ad una certa difficoltà ad avvicinarsi al loro sound. Ma voi non abbiate timore e fate vostro 'Blindness of the Sun', non fosse altro che solo l'edizione limitata di questo cd in una confezione simile ad un 7", meriti l'acquisto. Splendida scoperta per una band destinata a sfondare. (Francesco Scarci)

I must admit the cover of this CD, full of a kind of esoteric symbolism, caught my attention even earlier than the music by the five-piece from Liguria. As soon as 'Blindness of the Sun' starts, I open my eyes wide, and keep my ears open, focusing on a quite unusual sound. After a sort of intro, "Hesperian" discloses the enigmatic proposal of the Italian act, very well supported at the console by Billy Anderson (Sleep, Eyehategod and Mr. Bungle). The song with its initial ghostly noise paves the way to a rhythm that blends, in equal doses, stoner, sludge and post-metal, with the vocalists that offer a wide vocal repertoire, from cleaning to screaming. What mainly struck me in this song are its brutal riffings, which cause a strong emotional startle. With "Untold Secrets" the ghost of Voivod materializes in bizarre and melodic guitar lines, with a sound that aims to increase a certain cerebral deviance. The tuning is lowered, as well as the vehement line of the bass; the vocals are schizoid. Breaks of stoner, psychedelic or 70s space rock achieve high levels of mysticism. Regarding the lyrics, I must appreciate the brilliant aesthetic choice of combining, like pieces of a puzzle, the lyrics papers building a drawing which hides other esoteric symbols. Meanwhile, the instrumental "The Flight of the I" is definitely outside-the-box and avant-garde, bordering on crazy**, dominated by the incandescent trumpt of Mr. JJ Sansone (Casino Royale and La Crus) cathartic atmospheres. The sound of the eruptive quintet flows into "Stars of Drowning" where Jarboe appears. The former vocalist of Swans offers her excellent performance on a sound already of high quality, but that certainly does not show an easy accessibility. If I had to find a flaw for Varego (name derived from a therapeutic plant) is a certain difficulty to get closer to their sound. But don't be afraid and grab 'Blindness of the Sun', also because its amazing limited edition, similar to a 7", is worth your purchase. A wonderful discovery of a band destined to a break through. (Francesco Scarci)

(Argonauta Records - 2013)
Voto/Score: 75

https://www.facebook.com/varego

lunedì 3 febbraio 2014

Dead Mountain Mouth - Crystalline

#PER CHI AMA: Psych black metal, Oranssi Pazuzu, Cynic
Con incolpevole ritardo, mi appresto a dare il mio parere a 'Crystalline', cd del solo project francese Dead Mountain Mouth che ha catturato il mio interesse per quella sua cover astrale che fotografa uno splendido cielo stellato. Quando poi ho premuto il play sul lettore e la traccia in apertura, la title track, ha iniziato a suonare nelle casse, ho avvisato istantaneamente un senso di vertigine per quei suoi suoni soffocanti e ipnotici al tempo stesso; una pastiglia di extasy non credo mi avrebbe procurato lo stesso effetto. Se volete immaginare il sound di Mr. Lundi Galilao (chissà se questo riferimento al nostro Galileo Galilei è voluto), potrete prendere in prestito quello dei talentuosi e folli Oranssi Pazuzu, mischiarlo a roboanti riffoni post metal, di quelli belli ribassati e aggiungere delle vocals tra il pulito e lo sclerato, per un risultato eccellente, che sicuramente vi procurerà pesanti mal di testa. Cosi me ne esco appunto dalla opening track, palesemente stordito e felice. Felice perchè ancora una volta ho trovato qualcosa che solletichi non poco il mio interesse, il mio palato sempre più raffinato e stimoli il mio cervello a tratti rattrappito. "200" attacca ai 200 km/h o forse qualcosa in più: song super incazzata che, trascinata da una drum machine funambolica, martella che è un piacere, schiacciando quei quattro neuroni che popolano la mia testa. Metteteci poi una serie di suoni alieni e ubriacanti, vocals stridule lancinanti e un bel growling, frutto della collaborazione con Gloria Tetanos, il risultato è a dir poco eccezionale. Peccato sempre che io non sia un grande fan del suono ovattato della batteria elettronica, altrimenti mezzo punto in più l'avrei dato. Con "With Swans and Silver Wings" si parte molto più in sordina, ci si impiega quasi tre minuti prima di entrare a regime e farsi trascinare dal suono decisamente più rallentato (bello il break centrale, a tal proposito), non per questo meno incisivo, del mastermind transalpino, che in questa song si serve del testo di 'Ramayana' per le liriche. Dopo questa bella boccata di ossigeno mi rilancio nella corsa ad ostacoli che mi riserva la lunga (quasi undici minuti) "Lying in Outer Space". Una song che batte il tempo con un ritmo psicotico e marziale, contrappuntato da una gamma di voci davvero particolare e da una linea melodica di difficile assimilazione, ma di assoluto valore. La musica dei Dead Mountain Mouth in effetti non è sempre cosi semplice da ascoltare, tantissime le idee inserite nella matrice musicale del polistrumentista francese che a volte si corre il rischio di perdere la bussola. Un risultato simile l'ho avvertito durante l'ascolto degli album più sperimentali di Devin Townsend, questo per dire che la vena pazzoide del bravo Lundi potrebbe essere accostabile a quella dell'imprevedibile musicista canadese. Ancora un lungo brano (il disco contiene sette tracce per un'ora di musica), "Among the Stones", un altro pezzo dai toni rilassati e in cui il post metal si miscela con suoni progressivi e d'ambiente in una fusione di stili davvero coinvolgente. Con "A Newborn Earth" mi sembra quasi di avvertire influssi dei Cynic, mentre la conclusica "Ignite" regala altri deliranti minuti di suoni che arrivano da Marte che evocano i miei cari amici australiani Alchemist. Che altro dire, le parole parlano chiaro: Lundi Galilao arriva dallo spazio, diamogli pertanto un bel messaggio di benvenuto ascoltandone e apprezzandone la sua vibrante musica. (Francesco Scarci)