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domenica 24 maggio 2020

VV. AA. - Solar Flare Records

#PER CHI AMA: Post-Hardcore/Noise
Un'altra compilation nelle mie mani questo mese, devo essere stato davvero cattivo negli ultimi tempi. Autori del misfatto questa volta i francesi della Solar Flar Records (supportata dalla Atypeek Music), che raccolgono qui 10 band del loro roster per testimoniare quanto portato avanti sin qui dall'etichetta e quanto dovrebbe prospettarsi roseo il futuro. Il cd si apre con il caustico refrain noise/post-hardcore degli statunitensi Pigs e della loro "Give It", estratta dall'album del 2012, 'You Ruin Everything'. Questo per dire che le tracce non sono proprio recentissime. I nostri torneranno più avanti con una più ritmata e convincente "The Life in Pink". Dei Sofy Major credo abbiamo abbondantemente parlato su queste stesse pagine, mentre non abbiamo mai avuto l'opportunità di saggiare il sound melmoso, schizzato e super fuzzato dei francesi Pord che, con "Staring Into Space", ci riportano al 2014: interessanti ma difficili da digerire senza un bel malox a supporto. Continuiamo col super ribassato sound dei Watertank e della loro "Pro Cooks", una combinazione di doom, noise e post-hc con voci molto (troppo) ruffiane, che mal si conciliano con i miei gusti, confermato anche dalla seconda "DCVR". Ancora chitarre sporche, voci abrasive e atmosfere psichedelicamente distorte con i Bardus, ma potete capire come sia difficile fare valutazioni sulla base di un pezzo, niente male comunque. Gli American Heritage fanno un punk hardcore inverinato che nelle due schegge a disposizione mostrano la verve abrasiva della band. I Fashion Week, per quanto fautori di un sound a tratti intrigante, alla fine non mi fanno proprio impazzire con il loro post grunge di scuola Smashing Pumpkins. Più strani i The Great Sabatini, con un punk noise hardcore all'inizio fastidioso, molto più interessante invece nelle linee più sludge della loro proposta. Ultima menzione per i Carne e "1000 Beers", estratta da 'Ville Morgue' (2013) che mette in mostra un post-hardcore dissonante che sembra ricongiungersi virtualmente al black destrutturato dei compaesani Deathspell Omega. In chiusura gli Stuntman e il loro devastante e irriverente hardcore, la forma più brutale di questo concentrato nerboruto di suoni tremendamente sporchi. (Francesco Scarci)

(Solar Flare Records/Atypeek Music - 2020)
Voto: S.V.

https://www.facebook.com/solarflarerecords

lunedì 13 aprile 2020

Pornohelmut – Bang Lord

#PER CHI AMA: Experimental/Electro/Industrial
Ottimo il debutto del musicista texano e artista audiovisivo Neil Barrett, sotto il moniker, un po' banale se mi permettete, Pornohelmut; la musica mi ispirava infatti un nome più intellettuale, più nerd. Con questo esperimento sonoro, intitolato 'Bang Lord' (fuori per Atypeek music e Show & Tell Media), Neil si affaccia al mondo musicale con una proposta se non altro eccentrica ed abrasiva. Il lavoro è il risultato di una serie di patterns corrosivi e ritmi messi assieme con gusto e centrifugati al computer, per una manciata di brani che spingono veramente bene, tra crust punk, digital noise, techno, metal, indie, ambient noise ed elettronica sperimentale. Nel disco non c'è niente di nuovo o innovativo poichè tante di queste sonorità sono già state usate, tuttavia bisogna ammettere che una certa geniale intuizione ed una vera fiammata, di reale e sana ispirazione, abita davvero in questo lavoro. Venti minuti per un totale di sette tracce tutte al veleno, ruvide, infiammabili ed esplosive, come una molotov pronta ad essere lanciata. L'effetto in certi casi è immaginabile ed accostabile ad una catarsi musicale tra Godflesh, Prodigy, Swamp Terrorist, Pushifer, l'universo Pigface e perchè no, anche retaggi del seminale progetto denominato Scorn, con i vari paralleli di Mick Harris, tutto rigorosamente filtrato da un tocco digitale moderno e un occhio di riguardo per i suoni più di tendenza tra elettronica e dance. "Wizard Sleeve" è una chicca che sembra essere suonata dai mitici Warrior Soul, in maniera più acida e sintetica, in un futuro temporale lontanissimo dalla loro era, splendida, come l'apripista "Astroglide" e la notturna suite dalle trame techno, "Night Rider". Un disco, 'Bang Lord', stralunato e contorto ma allo stesso tempo omogeneo e straripante di idee sonore, amalgamate con vigorosa e urgente creatività. Un album velocissimo, devastante e carico di energia che per venti minuti di sana follia rock digitale, e ripeto, scrivendolo a caratteri cubitali, mostra un gusto per il crossover di generi, contrapposti tra loro, di tutto rispetto. Una visione del rock tra pixel e transistor, che può piacere a molte fasce di ascoltatori dai target musicali più variegati. Un disco decisamente interessante, da non sottovalutare assolutamente il cui ascolto è parecchio consigliato. (Bob Stoner)

(Atypeek Music/Show & Tell Media - 2020)
Voto: 74

https://pornohelmut.bandcamp.com/album/bang-lord

mercoledì 1 aprile 2020

Untitled with Drums - Hollow

#PER CHI AMA: Alternative Rock, A Perfect Circle
Secondo lavoro per questo quintetto francese che prende il nome da una canzone dei mai troppo lodati Shipping News. Questo l'indizio che aiuta ad inquadrare le coordinate di riferimento della musica degli Untitled With Drums, cosi tesa tra reminiscenze post-rock e noise di fine anni '90 e le influenze quasi progressive dei primi anni 2000, portate da band quali Tool o Cave in. Quello dei cinque francesi è un rock oscuro e di sicuro impatto, nel quale un songwriting di qualità si fa strada attraverso coltri di feedback e bassi distorti, sorretto da un drumming potente e preciso, e una voce sempre in grado di reggere il pathos. Difficile scegliere i brani migliori, laddove la qualità media è sempre piuttosto alta (con una leggera flessione forse nella seconda parte dell'album), raggiungendo notevoli picchi di intensità nell’incedere marziale della drammatica “Silver” o nei saliscendi emozionali di “Passing on”, “Amazed” o “Strangers”, con il suo drumming tribale, mentre “Hex” lambisce gli A Perfect Circle o i migliori Incubus. Quello che piace, in generale, è come ogni pezzo contenga un’evoluzione, un twist in grado di tenere costantemente vivo l’interesse, scongiurando il pericolo dato da una certa omogeneità di atmosfere di far assomigliare un po’ troppo i brani tra loro. 'Hollow' è un disco solido e compatto, fosco e potente, perfetto per chi ama i nomi di riferimento e non solo. (Mauro Catena)

(Seeing Red Records/Araki Records/Brigante Records/Atypeek Music - 2020)
Voto: 74

https://untitledwithdrums.bandcamp.com/

lunedì 24 febbraio 2020

The Glad Husbands - Safe Places

#PER CHI AMA: Math/Post Hardcore, Botch
Se l’abito non fa il monaco, il nome di un gruppo può trarre in inganno. Potevano essere i cugini italiani di qualche gruppo indie-folk del Midwest americano, invece i The Glad Husbands si rivelano l’ennesimo prodotto della rumorosissima fucina cuneense, già culla di tanti nomi importanti che imperversano nella scena noise, stoner e hardcore nostrana.

Il loro ultimo disco, 'Safe Places', non si discosta molto dalla proposta dei loro “vicini di casa” Cani Sciorri, Treehorn e Ruggine (tanto per citarne alcuni), se non per una maggior vocazione nel mischiare punk e math-rock a scapito della produzione in massa di riff pachidermici, come testimonia il sound meno ingolfato di basse frequenze, il risalto dato al cantato urlato di Alberto Cornero e le strutture complesse di questi nove tiratissimi pezzi.

“Out of the Storm” traccia subito la rotta: intrecci turbinosi di basso e chitarra si susseguono aggrappandosi al tempo imposto dalla batteria, andando a comporre una sorta di marcia per plotoni di soldati in preda ad un attacco isterico. Isterico come gli sviluppi di “Where Do Flies Go When They Die?” e “Spare Parts”, brani in chiave mathcore che potrebbero essere stati partoriti con l’intercessione spirituale dei Botch, e dove, pressati dai riff convulsi e le ritmiche serratissime, iniziamo a chiederci quali possano essere i “posti sicuri” citati nel titolo dell’album. Forse in “Things That Made Sense” e “The Jar”, pezzi la cui struttura più varia ci concede qualche attimo di decompressione prima di rituffarci nei vortici sonori.

Finita qui? Macché: “Midas” scompagina tutto con la sua anima agrodolce, fatta di strofe nervose in procinto di esplodere, ma l’irruenza di “Cowards in a Row” e la travolgente “Meant to Prevail”, dove si possono cogliere riferimenti ai primi Mastodon, ci riportano nell’occhio del ciclone. La nostra corsa forsennata si conclude con “Like Animals”, dopo circa quaranta minuti di sconvolgimenti strumentali, ritmici ed emotivi.

I The Glad Husbands ci regalano una prova decisamente convincente e di personalità, riuscendo a risaltare in un mercato già bombardato di proposte e a farmi sperare di vederli al più presto trasmettere in sede live la carica mostrata su disco. Non male per il presunto gruppetto indie-folk del Midwest. (Shadowsofthesun)


(Antena Krzyku/Entes Anomicos/Longrail Records/Vollmer Industries/Atypeek Music/Tadca Records/Whosbrain Records/Scatti Vorticosi Records - 2019)
Voto: 75

https://the-glad-husbands.bandcamp.com/album/safe-places

martedì 4 febbraio 2020

Okidoki – When Oki meets Doki

#PER CHI AMA: Crossover Jazz
Questo nuovo album dei francesi OKIDOKI è pazzesco, illuminato come tutti i suoi precedenti e potrebbe essere descritto come un riassunto jazz dal gusto pop, sparso tra le note dello splendido "Body and Soul", o semplicemente del singolo "The Verdict", entrambi del geniale Joe Jackson, uniti al groove dei viaggi sonori esilaranti ed esotici di Isabelle Antena, filtrati dalla voglia sperimentale che spingeva la ricerca sonora e vocale di Meredith Monk ("Komori Song"). Quel pizzico di malinconia tratta dalla musica degli immensi Sedmina, arie immortali sospese a metà tra folk, jazz e rock in opposition, una leggera attitudine verso la follia psichedelica dei Catapilla di 'Changes' e una morbida vena teatrale. Ci sono sapienti mani dietro questi brani: la belga Anja Kowalski (che canta in francese, tedesco e inglese, curando peraltro le liriche) e Laurent Ronchelle (sax e clarinetto basso), due menti che hanno girato e rigirato le strade nonchè i vicoli più stretti e sperduti del mondo infinito del jazz classico e le sue forme più d'avanguardia. Tornati in compagnia di Frédéric Schadoroff (piano) ed Eric Boccalini (batteria), i nostri ci saziano di melodie e rintocchi fantasiosi, a volte vere e proprie lezioni di teoria musicale, in altri casi più spensierate ed astratte, talvolta tese a focalizzare la musica su un taglio più malinconico, senza mai perdere di vista l'originalità e quella voglia di sperimentazione che rende libero il compositore coraggioso e temerario. I brani si rivelano cosi spumeggianti, le ritmiche improbabili colpa o merito di una composizione fluida e cervellotica. L'iniziale "Le Voyage Improbable de l'Insondable Haruki" mostra ritmi spezzati e spigolosi, una bella dose di fantasia e suoni taglienti che riesumano note e sentori dal calore indescrivibile, come lo fu l'album del 1977, 'Pharoah' del mitico Sanders oppure 'Songs from the Hill/Tablet' di Meredith Monk. Tutto si muove in un universo di colori e umori diversi, contrastanti tra loro, discordanti tra un brano e l'altro. Ammalianti, sognanti, malinconici, folli, accademici, intensi, d'avanguardia e totali. Gli OKIDOKI sono una band altamente qualificata a rilasciare quest'ottimo lavoro (cosi come il resto della loro discografia), un disco semplicemente da amare alla follia. (Bob Stoner)

(Atypeek Diffusion/Linoleum - 2019)
Voto: 82

https://okidoki-quartet.bandcamp.com/album/when-oki-meets-doki

martedì 7 gennaio 2020

Dead Hippies - Resister

#PER CHI AMA: Electro Rock/Noisy Dance
Il nuovo disco dei Dead Hippies è una buona release, curata e ben fatta, come tutte le loro produzioni ma, a dir il vero, un po' carente in fatto di novità. I brani intersecano strade già percorse da artisti come Gorillaz, Amaury Cambuzat con i sui seminali Ulan Bator, Chumbawamba laddove predomina una forte somiglianza nel canto del nuovo arrivato Dylan Bendall (in "Resister" appare addirittura il rapper americano Mr. Jason Medeiros), fino allo stile del funambolico John Lydon nell'album 'Psycho's Path', senza dimenticare l'hip hop e le cadenze punk alla Jello Biafra. Tutto questo è poi unito ad una sorta di tributo ai The Prodigy e alla techno dance degli anni '90, fondendosi ad una certa dose di dub alla Basement 5, neanche poi così interessante sotto il profilo artistico. Comunque, resta una buona prova, dove il rock assume mille venature, anche se manca il vero senso del rock, quello sbandierato "wall of sound" che non caratterizza granchè questo lavoro, tenuto in sordina da un qualcosa più di tendenza, quasi ad imitare in maniera più soft e meno hardcore, quel fenomeno americano che risponde al nome di Ho99o9, laddove l'elettronica abbraccia la spinta e il furore dell'hardcore in un'orgia di assalti frontali. Non siamo di fronte nemmeno al mito creato dagli Atari Teenage Riot ma la band francese non si è imposta di raggiungere quel tipo di vette, così mi sento di premiare la composizione che porta il nome di "Laugh in Sadness", vero e proprio gioiellino, un cupo e drammatico brano strumentale riuscito alla perfezione. Posto a metà del disco, il pezzo conquista la vetta e surclassa il ritmo in levare di "The Little Ones" che ricorda un mix tra Beastie Boys e Les Négresses Vertes, cantati da un Lydon in gran spolvero. Da questo punto la dance tende a prevalere nelle restanti canzoni, valida ma poco innovativa e senza idee di rottura, con le chitarre a far da contorno e con l'ombra dei Public Image Limited (strepitosa qui la somiglianza vocale!) sempre in agguato. L'ultima traccia, "Dramatic Control", ridà voce al disco, sperimentando un po' di più e lasciando correre le chitarre sulla scia di un poderoso elettro/kraut/post-rock molto sonico e spaziale, grazie all'utilizzo di filtri vocali in stile Kraftwerk. Un melting pot di suoni quello dei Dead Hippies, musiche e ricordi musicali espressi bene ma che non danno la classiva ventata di novità, mantenendo ancorata la band francese alla media delle sue produzioni, sempre interessanti per l'accostamento e il crossover tra i diversi tipi di generi ma in alcuni casi rasenti il plagio, e penso soprattutto alle parti vocali che sono belle e ad effetto ma lontanissime da una genuina originalità. Buon disco per chi si accosta alla loro proposta per la prima volta, ma per chi li ha amati con i precedenti lavori, potrebbe non rimanere del tutto soddisfatto. (Bob Stoner)

(Atypeek Music/Bruillance/Kshantu - 2019)
Voto: 64

https://www.facebook.com/deadhippiesdead/

giovedì 25 luglio 2019

Lèche Moi - A6

#PER CHI AMA: Coldwave/Post Punk
Ascoltando “Cold Night”, prima traccia di 'A6', ultima fatica dei francesi Lèche Moi, si ha l’impressione di entrare in un mondo surreale dove le creature citate da Robert Smith in "Hanging Garden", emergono dalla notte delle banlieue parigine inscenando una danza macabra, evocate dal cantato messianico, dalla pulsante ritmica elettronica e dal lugubre sax che animano il pezzo.

I degradati paesaggi post-industriali e le atmosfere impregnate di un romanticismo decadente sono il trait d’union che lega gli undici pezzi di un album tormentato che si sviluppa caoticamente tra pulsioni elettro-dark, divagazioni punk, grunge e persino noise, il tutto condito da battiti marziali e suggesioni ethereal-wave alla Cocteau Twins: insomma, un bel po’ di carne al fuoco e la sfida non indifferente di conciliare il tutto.

A guidarci in questo sorta di crepuscolare saturnalia ci sono Sidonie Dechamps, cantante capace di destreggiarsi tra stili completamente diversi e dare un tocco di carisma a composizioni non sempre convincenti, insieme all’altro ideatore del progetto Mika Pusse: l’interpretazione della prima non può che ricordare le performance infiammate di Siouxsie Sioux, mentre il secondo le fa da contraltare con la sua voce grave alla Nick Cave. Il comparto vocale rappresenta la spina dorsale dell’album ed è posto in grande risalto nel mix, relegando lo stuolo di altri strumenti ed effettistica a mero sottofondo di una specie di oscuro cabaret, cosa evidente in “Burned”, pezzo caratterizzato dal duetto di Sidonie e Mika appoggiato ad un ritmo cadenzato e un’angosciosa melodia che ricorda una versione industrial-rock di "Angel" dei Massive Attack.

La band sembra dare il meglio di sé proprio quando dà liberamente sfogo alla propria anima squisitamente punk senza perdersi in sperimentazioni eccessive: da questo punto di vista “Rage” è il pezzo meglio riuscito dell’album, contraddistinto dal repentino alternarsi di parti lente e sfuriate chitarristiche di grande impatto, ma anche il singolo “Libéra Me” colpisce per l’efficacia nel ricreare un’atmosfera eterea e al tempo stesso luciferina. Belle anche le due composizioni più crepuscolari del mazzo, “Anyway” e “The Letter”, brani romantici e minimali, mentre risulta decisamente più ostico digerire l’unione perversa di post-punk sfrenato alla Juju e noise rock scuola New York che troviamo in “Deep”.

I Lèche Moi non intendono limitarsi al compitino e confezionare il loro lavoro assemblando cliché della darkwave, pertanto sono molti i brani sperimentali e pesantemente contaminati, come la criptica “A Monkey In My Back” e quella sorta di manifesto ribelle che è “Irrécupérable”, in cui il parlato di Sidonie è incastonato in una cacofonia di nervosi effetti elettronici. In chiusura troviamo la lunghissima (11 minuti) “All Is All”, delirio rumoristico in cui si avverte l’eco dei Einstürzende Neubauten, e l’ambient notturno di “Partir Pur Ne Plus Revenir”.

Per quanto questi tentativi di arricchire l’esperienza sonora esplorando tutte le direzioni possibili siano senza dubbio ambiziosi, appaiono però anche sterili e troppo scollegati tra loro, mancando di trasmettere all’ascoltatore un’idea d’insieme e rendendo difficile l’ascolto. Le idee messe sul piatto sono veramente tante e suggestive, ma il loro sviluppo è incostante e capriccioso, proprio come l’anima punk del progetto. Non c’è da stupirsi se molti rimarranno ammaliati dalla sfrontatezza dei Lèche Moi, tuttavia al termine dell’ascolto di 'A6' proviamo una sensazione di incompiutezza e disarmonia, come se nella fretta di finire il puzzle dell’album, la band avesse collocato a forza molti dei tanti tasselli a disposizione. (Shadowsofthesun)
 
 (Atypeek Music - 2019)
Voto: 60

https://leche-moi.bandcamp.com/album/a6

lunedì 17 giugno 2019

Moodie Black - MB I I I . V M I C H O A

#PER CHI AMA: Noise/Rap
Avevamo lasciato Moodie Black poco tempo fa con la recensione del precedente 'MBIII', ed ecco che a sorpresa il duo americano, rilascia una nuova release di altri quattro brani, dal titolo che si lega ed evolve il suo predecessore. Anche in questo 'MB I I I . V M I C H O A' troviamo l'incedere lento e le sonorità industriali che minano i codici canonici dell'hip hop originale e più standardizzato, focalizzando ancora una volta lo strappo artistico verso una scena troppo abusata e priva di fantasia e sperimentazione. A mio avviso, anche stavolta la band di Los Angeles coglie nel segno, aprendo le frontiere con un suono violento e gelido, che non si risparmia, sdoganato dai dogmi del genere, distorto, affascinante ed introspettivo, senza una continuità ritmica, anzi, il taglio sonoro è frastagliato, fatto di fotogrammi diversificati e scomposti tra loro, minimali, industriali, noise oppure orchestrali, con aperture nelle composizioni che sembrano piccole colonne sonore fatte per un paesaggio post bellico, post guerra nucleare, apocalittico, accompagnate da uno spoken word duro e drammatico, anch'esso prevalentemente distorto come fosse una band harsh/EBM. In quest'ottica la canzone più rappresentativa è la conclusiva "32" (anche se il disco mantiene costante uno standard di qualità e produzione molto alto), che si presenta come una perla preziosa, oscura e radiosa allo stesso tempo, che rappresenta a dovere il percorso artistico intrapreso dai Moodie Black in questi ultimi tempi, con un ponte al minuto 1:43 che spacca la song in maniera brutale, drammatica ed inaspettata, con una sensibilità compositiva da vero fuoriclasse, come se la musica fosse virata in un grigio e cupo brano dell'ultimo Nick Cave, per poi rientrare in una coda esasperata dalle tinte minimal-rumoristiche, ossessive e soffocanti. La musica dei Moodie Black è un aut-aut, uno strappo contro il mondo da cui è stata generata, una musica che si ama o si odia, che non si associa facilmente e banalmente al contesto hip hop, perchè è frutto di un risultato artistico che vuole essere più alto e libero dai confini commerciali e stilistici. Quattro brani tutti da scoprire, pieni di immagini musicali diversificate tutte da apprezzare. Altra prova molto interessante e fantasiosa che associata al precedente 'MB III', forma un full length di tutto rispetto. Ascoltare per credere! (Bob Stoner)

giovedì 13 giugno 2019

Membrane/Sofy Major - Split Lp

#PER CHI AMA: Noise/Hardcore, Unsane, Melvins
Membrane e Sofy Major hanno da poco rilasciato gli ultimi capitoli della rispettiva discografia, il ruggente 'Burn Your Bridge' per il terzetto post-hardcore di Vesoul, e il graffiante 'Total Dump' per il gruppo di Clermont-Ferrand (che probabilmente qualcuno avrà potuto apprezzare live insieme agli Unsane al Solo Macello del 2016). Scopriamo che nel 2011 (riproposto nel 2017 dall'Atypeek Music) le due band transalpine, allora scarsamente conosciute dalle nostre parti, avevano unito gli sforzi registrando uno split fatto di distorsioni ipertrofiche e riff abrasivi. Aprono le danze i Membrane con “Gruesome Tall”, “Small Fires” e “Lifeless Down on the Floor”, pezzi ombrosi e che trasudano rabbia, perfetta sintesi delle coordinate della band: un post-hardcore molto pesante e metallico che richiama Breach e Today Is The Day, lanciato come un treno fuori controllo sui binari tracciati dalla batteria martellante e alimentato dallo sferragliare del basso. Ci pensano poi i cupi accordi di Nico e il cantato sofferente a raschiare ogni residua resistenza di fronte al cataclisma che i Membrane scatenano su di noi. La proposta dei Sofy Major è meno viscerale e più cafona (in senso buono), punta su suoni grossi e sulle distorsioni slabbrate create da quei Big Muff di cui non negano la dipendenza e l’abuso: “Ruin It All”, “Doomsayer and Friends”, “Some More Pills” e “Once was a Warrior” sono dei pugni in faccia a cavallo tra il pesante noise degli Unsane e lo stoner pachidermico dei Melvins, brani in cui la band dimostra tutto il suo potenziale sonoro distruttivo. Entrambe riconducibili al filone noise-core, Membrane e Sofy Major ci offrono due approcci differenti, con i primi maggiormente incattiviti e attenti a costruire atmosfere che coinvolgano l’ascoltatore nel loro abisso di angoscia, i secondi irriverenti e rumoristici servi di una qualche divinità del caos. Dal 2011 a oggi entrambi hanno affinato le proprie lame consegnandoci uscite memorabili, ma dando un ascolto a questo split c’è da dire che le premesse erano buone già all’epoca. (Shadowsofthesun)

Rature - Les Oublies d'Okpoland

#PER CHI AMA: Rap/Punk/Jazz, Massive Attack, Manes
Nel Pozzo dei Dannati si fa metal, che diavolo ne posso pertanto sapere io di rap/hip hop, manco mi piace, eppure c'è chi pensa che inviarci materiale di simili sonorità possa essere sempre un buon mezzo pubblicitario, il classico modo di dire "che se ne parli bene o male, l'importante che se ne parli". E cosi ecco trovarmi qui a parlare dei Rature, duo francese e del loro 'Les Oublies d'Okpoland', secondo atto della loro discografia. Diciamo subito che l'impressione che ho avuto all'ascolto di "Orgue", opening track dell'album (peraltro riproposta anche in versione remix con "Stone" alla fine dell'album), è stata più o meno la medesima di quando piazzai nel lettore cd 'Disguised Masters' degli Arcturus, con la sola differenza che qui si rappa e nel '99, in un disco estremamente sperimentale di una band già di per sé sperimentale, non lo si faceva. Poi ovviamente se sento uno dopo l'altro una serie di "yo", come accade in "Oldschool", non posso rimanere favorevolmente colpito, ripeto io ascolto metal e per quanto possa essere di vedute aperte, il rap non è certo il mio genere. Eppure quello dei Rature è un sound caldo che miscela in modo particolare hip hop, punk rock e free-jazz, insomma un bel pastrocchio. Non mi resta altro che farmi intrappolare allora e superare il mio blocco psicologico, facendomi avvinghiare dalle sinistre sonorità di "Poney" e da quel drumming elettronico accompagnato dalle litaniche vocals di arcturiana memoria. Sta a vedere che ci trovo anche godimento ad ascoltare questa musica, non lo escluderei aprioristicamente. È tempo di "Stone" e di un sound che mi evoca i miei trascorsi trip hop con Massive Attack (e gli album più sperimentali dei Manes) e diavolo mi ritrovo addirittura a scuotere la testa al ritmo strisciante dei Rature; questa sensazione tornerà anche in "Coma", dove ho ripensato a "Karmacoma" dei Massive. Che succede, la musica mi entra sotto la pelle, entra nelle vene e mi immergo completamente nel groviglio sonoro creato da questi due artisti. La successiva "Aeiou" non la amo particolarmente, forse troppo vincolata al rap e non proprio brillante a livello di testi, anche se poi quando parte il soundscape in background, ammetto di esserne particolarmente affascinato, vuoi perché riesco a trovare anche qualche similitudine con i CROWN. Il lavoro continua in questa direzione, abbinando alla trance sonica, una buona dose di sperimentazione che va ad ampliare ulteriormente i miei orizzonti musicali. Voi vi sentite pronti? (Francesco Scarci)

(Atypeek Music - 2019)
Voto: 74

https://business.facebook.com/AtypeekMusic/

lunedì 10 giugno 2019

Sofy Major - Total Dump

#PER CHI AMA: Noise-core/Stoner Rock, Unsane, Melvins, Sonic Youth
Il percorso dei Sofy Major è incentrato su suoni ruvidi e riff pesanti: da 'Permission To Engage' (2010) a 'Waste' (2015), passando per il convincente 'Idolize' (2013), la loro formula non ha visto grosse novità e la band francese si è mantenuta imperterrita sulla rotta tracciata dai loro idoli Unsane. I tre lavori risultano così ugualmente energici e non mancano qua e là spunti interessanti, troppo poco tuttavia per farsi notare in un ambiente ormai inflazionato come quello a cavallo tra noise, sludge e stoner. A quattro anni dall’ultima uscita, dopo un periodo dedicato all’attività live (il contesto migliore per poter apprezzare il power-trio di Clermont Ferrant), ecco 'Total Dump', il cui titolo richiama in modo evidente (così come il precedente 'Waste') il suono sporco e pesantemente distorto dei Sofy Major e non fa che sottolineare l’irriverenza e l’ironia che caratterizzano l’approccio della band. Già dal primo, ascolto ci si accorge che i parallelismi con gli Unsane non mancano neppure questa volta e non solo a livello di stile musicale: è Dave Curran, iconico bassista della band newyorkese, a impostare il mix dell’album in modo ben riconoscibile, ossia con basso bulldozer sparato in faccia all’ascoltatore, la chitarrona contenuta con un filo di prudenza a riempire di colori lo sfondo, l’asciuttissimo rullante della batteria a cadenzare il ritmo delle canzoni. Se brani come la title track e “Giant Car Crash” non sono che l’ennesimo graffiante tributo alla scena noisee hardcore della East Coast, bisogna ammettere che in 'Total Dump' le influenze sembrano più variegate e meglio amalgamate rispetto al passato, con risultati apprezzabilissimi come “Franky Butthole” e “Tumor O Rama”, pezzi ibridi ottenuti dall’incrocio tra l’acidità dello stoner alla Fu Manchu e lo sludge a tinte psichedeliche che possiamo rintracciare in Torche e Baroness. Anche il songwriting appare più ragionato e grazie a questa inedita maggiore cura dei dettagli, la band si cimenta in confronti eccellenti, con i Sonic Youth nell’esperienza malinconicamente allucinata di “Cream It” e con i Melvins nello sludge tossico che caratterizza “Kerosene”. Lo sforzo dei Sofy Major di essere meno intransigenti nella proposta, dando spazio ad un ricco campionario di sfumature e aprendo a sonorità meno arcigne del classico noise-core, premia senza dubbio 'Total Dump' , che risulta così molto più dinamico e cattura l’attenzione dall’inizio alla fine. I suoni, massicci e sbeccati come da tradizione nineties, ci sfilano accanto come una mandria di pachidermi senza però travolgerci, cosa importante per un disco che voglia aprire le porte anche a nuove platee di ascoltatori. C’è da dire che forse la pecca sta proprio qui, nel giusto mix tra la cafonaggine e la ricerca di soluzioni più garbate: i ceffoni ci sono, ma non fanno poi così male, d’altra parte è facile avvertire molto citazionismo e ancora poca personalità nelle composizioni melodiche alternative. Per quanto ben congegnato e piacevole, 'Total Dump' è ancora lontano dall’essere un album in grado di lasciare una traccia indelebile, tuttavia gli amanti delle distorsioni sguaiate non se lo devono assolutamente fare sfuggire. (Shadowsofthesun)

(Atypeek Music/Solar Flare/Deadlight/Antena Krzyku/Corpse Flower - 2019)
Voto: 69

https://sofymajor.bandcamp.com/album/total-dump

domenica 12 maggio 2019

Ultra Zook - S/t

#PER CHI AMA: New Wave/Avantgarde
Incontrare l'immaginario folle degli Ultra Zook è cosa inverosimile ma alquanto rigenerante. Inverosimile perchè l'insieme di musiche e generi usati dal trio (il cd è uscito per la Dur et Doux and Gnougn Records mentre il digitale per Atypeek Music, in vinile ed anche in cassetta per i nostalgici) che si fondono nel loro sound sono innumerevoli ed imprevedibili, rigenerante poiché alla fine di questo loro disco ci si sente acculturati e pienamente soddisfatti sotto il profilo musicale. Immaginate i suoni caraibici di Rei Momo (vedi David Byrne) e la ballabile schizofrenia dei primi Talking Heads usati per suonare musica cabarettistica dal rustico sapore di campagna francese, suoni che dal Sud America si muovono verso i synth della Plastic music e il jazz gogliardico di memoria Zappiana, dove il compito arduo è capire le complesse formule di 'Jazz from Hell' per avere una chiave di lettura della folle musica di questo ensamble francese, figlio dell'avanguardia di matrice The Residents quanto della Bubble music/synth wave dei primi anni ottanta e del synth pop odierno. Dentro questo album (il primo full length dopo una manciata di EP tutti assai interessanti) ci troviamo di tutto, accenni di folk celtico con tanto di bagpipe ("Conderougno") e thin whistle ("Kawani"). In un contesto tropicale e atemporale si snodano i brani irreali del trio transalpino, che coniugano stupore, fantasia e genialità nel costruire brani pop di sofisticato approccio, attitudine elettronica tedesca, irriverenza rock alla XTC e fine ricerca ai confini col rock in opposition. Il canto in madrelingua è la ciliegina sulla torta, rendendo il tutto un'amalgama perfetta, l'astratto è in scena, una porta spalancata sulla strada della follia, una follia reale, libera di creare e gioiosa, mai banale, intelligente e convincente, una sorta di paese delle meraviglie in salsa sonora, dove tutto alla fine è una scoperta. Un disco allucinato, fuori dal tempo, stralunato e coraggioso, il proseguio perfetto per la dinastia psichedelica della famiglia Renaldo and the Loaf. Un dovere l'ascolto di questo album, per gli amanti e ricercatori di nuove commistioni sonore tra vintage, avanguardia e lucida pazzia. (Bob Stoner)

(Dur et Doux/Gnougn Records/Atypeek Music - 2019)
Voto: 78

https://ultrazook.bandcamp.com/

giovedì 28 marzo 2019

Moodie Black - MBIII

#PER CHI AMA: Noise/Experimental/Hip Hop
Pensavo che l'hip hop avesse le strade chiuse di questi tempi, le idee fossilizzate, un futuro poco costruttivo, una morte imminente dopo tanti anni dalla sua nascita, fino a quando non ho ascoltato 'MBIII', nuovo EP dei Moodie Black, band losangelina piena di fantasia e di geniale abilità nel ridare lustro a questo genere. Il duo presenta, esasperando e rinvigorendo lo stile tipico che lo contraddistingue (una tipologia di suono di rottura, spesso non apprezzata dalle comunità hip hop più tradizionaliste), quattro tracce dall'incedere lento, sulla base del trip hop, reso agghiacciante e drammatico, grazie alla scelta ingegnosa di usare sonorità vicine all'ambient noise e all'industrial più sperimentale e tanto lontane dal tipico sound, commerciale, pop e metropolitano. La voce profonda si muove tra spoken word e rap, lacerata di continuo da una serie di distorsioni che la fanno apparire inumana e fantascientifica, una litania aspra e dura, un sermone acido, seguito da musiche rigurgitate dopo un'overdose di rumori glaciali, divisi tra digital hardcore e il Gary Numan di 'Jagged', inoltre posso aggiungere che, inverosimile ma vero, queste melodie industriali potrebbero andare a braccetto tranquillamente con gli ultimi Godflesh (ovviamente immaginati in veste hip hop), mostrando fieramente la poca attinenza con i padri luminari della scena e puntando ad una genuina quanto incisiva forte personalità. Quindi, immagini violente, cupe, notturne, rigide riflessioni e sofferenza, sono la chiave di lettura di questi quattro brani dalla potenza inebriante, brani al vetriolo che superano la soglia del sentito fino ad ora, fatti per alzare l'asticella della qualità e portare in alto la voce dell'hip hop sotterraneo, al di fuori degli schemi, mischiandolo con improbabili sonorità, proprio come a suo tempo fecero i Cypress Hill in maniera impeccabile. L'impegno per la causa transgeder (LGBTQ), che vede coinvolto di persona il frontman Chris Martinez (alias Kdeath), ha permesso a questa band di portare in musica una serie di problematiche, paure ed emozioni, spaccati di vita vissuta, in maniera artistica esemplare, componendo un album durissimo ed intenso, certamente degno di nota, un disco traboccante di originalità e veramente estremo. Ottima release! (Bob Stoner)

martedì 19 marzo 2019

Membrane - Burn Your Bridges

#PER CHI AMA: Post-hardcore/Noise, Time To Burn, Today Is The Day
È evidente che ci sia una forte correlazione tra la musica e il contesto sociale di un paese, e se diamo un’occhiata ai gruppi che negli ultimi anni sono venuti alla ribalta nell’underground francese (in precedenza piuttosto snobbato dalle nostre parti) ci accorgiamo di una realtà parecchio incazzata: i vari Celeste, Time To Burn, Birds In Row e Daïtro, hanno iniziato a portare questo disagio sui palchi dell’Europa ben prima che questo diffuso malessere esplodesse nelle tensioni e nelle confuse proteste che oggi dominano la cronaca d’oltralpe.

I Membrane, terzetto nato in una piccola cittadina di provincia, non hanno goduto della visibilità ricevuta invece da molti altri compatrioti delle scene hardcore e metal, cosa che appare strana vista la carriera quasi ventennale caratterizzata da una vivace attività live, puntellata da periodiche release e ora coronata dall’ultima uscita, questo 'Burn Your Bridges' che nulla ha da invidiare agli album di band più blasonate e che già dal primo ascolto ci travolge come un fiume in piena ingrossato dalle acque di tumultuosi affluenti noise rock, post-metal e post-hardcore. Parliamo di sette tracce dense e scurissime, caratterizzate da ritmiche di batteria telluriche e linee di basso feroci a supporto dei soffocanti accordi di chitarra e del cantato rabbioso, perfetta colonna sonora per un viaggio tra le macerie della vita e le perdite che ognuno di noi deve affrontare.

L’ipnotico arpeggio di chitarra e le due voci supplicanti che ci accolgono nella prima traccia “Stand in the Rain” ci ingannano con la loro sacralità: l’apparente catarsi termina dopo un minuto e mezzo, spezzata da un riff tonante che possiamo tranquillamente accostare a quelli dei Neurosis più indiavolati: dei Membrane colpisce proprio la disinvoltura nell’accostarsi ad alcuni mostri sacri e la capacità di combinare diverse influenze in modo omogeneo e dare spazio ad elementi che coprono un ampio spettro musicale, dal furioso hardcore di “Childhood Innocence” agli isterismi ritmici di “Battlefield”, brano a cavallo tra noise e sludge, lanciato all’inseguimento dei Today Is The Day e dei Breach.

Ritroviamo una chiara ispirazione a Scott Kelly e compagni in “Burn Your Bridges”, breve traccia che funge da spartiacque dell’album a cui dà peraltro il nome, con i tristi accordi di chitarra pulita e le voci ora sussurrate, ora lancinanti nell’esprimere il bisogno di “bruciare i ponti” con un passato doloroso o forse con un presente alienante. Scendiamo la china, o meglio, precipitiamo a folle velocità durante “Fragile Things”, dove fanno capolino influenze post black metal e crust, e affrontiamo la tempesta di “Windblown”, altro pezzo di pura disperazione da percorrere tra grida strazianti, percussioni implacabili e le dure sferzate di chitarra e basso. In chiusura troviamo “At Long Least”, che si apre con un angoscioso giro di basso prima di consumare l’ultimo e più pesante carico di rabbia, che al minuto 3.20 raggiunge il limite del sopportabile.

Efficace, diretto e ben prodotto, 'Burn Your Bridges' è un disco che colpisce subito al cuore, in cui dominano le fiamme della ribellione in contrapposizione alla dilagante oscurità del disagio esistenziale e della depressione: difficile dire quale dei due elementi alla fine trionfi, ma l’energia trasmessa dai Membrane va letta come un invito a reagire anche nei momenti più bui. Insomma, i ponti da bruciare e le paure da sconfiggere sono prima di tutto dentro di noi. (Shadowsofthesun)


martedì 29 gennaio 2019

Monolithes - Limites

#PER CHI AMA: Experimental/Jazz/Fusion
Francia, Francia, nient'altro che Francia. Sembra ormai che il panorama mondiale musicale sia dominato in lungo e in largo da band provenienti dal paese dei nostri cugini, e non sto parlando solo in ambito estremo. Quest'oggi infatti, abbiamo a che fare con quest'astrusa realtà prog jazz metal, i Monolithes, ensemble che ha peraltro vinto il concorso “Jazz de la Défense” nel 2017, e che in formazione non vede solo la classica batteria e chitarra ma addirittura vibrafono e contrabbasso, a segnare l'estrosa identità del quartetto di Nantes. Basta poco per accorgersi della complessità della proposta di questi quattro pazzoidi, che lungo i 72 minuti a loro disposizione (in sole sei tracce!) esplorano e spaziano orizzonti musicali alquanto indefiniti. Se l'opener "Ploton le Furieu" funge più da intro, nei suoi quasi cinque minuti ci dà un'idea della intenzioni musicali jazz/post rock che dovremo attenderci, facendoci però capire quanto sarà davvero ostico affrontare l'ascolto di 'Limites'. Questo lo si evince già con gli schizofrenici dodici minuti di "Limite les Rêves Au-delà", dove sarà chiaro quanto al quartetto francese piaccia muoversi nella più totale improvvisazione musicale tra ritmi etnici, noise e jazzcore, in uno dei brani più complicati ascoltati - sin qui - nella mia lunga militanza estrema (e sto parlando di oltre 30 anni!). La song è un susseguirsi di umori, suoni, note messe caoticamente in ordine dall'entropia musicale in costante aumento sprigionata dalla band. Letteralmente sfiancato da questa mini maratona, mi appresto ad una ancor più ampia fatica, con i sedici interminabili minuti di “Tears Point”, in cui sembra regnare, almeno inizialmente, il silenzio del vuoto cosmico, poi rumori alieni, spezzoni disarmonici di musica indecifrabile, scale ritmiche buttate giù casualmente in una caldera di stili musicali deprivati della classica forma canzone. È sperimentazione avanguardistica, fatta dalla fusione di molteplici stili provenienti da questo mondo e da uno dei milioni di miliardi di mondi extraterrestri. Al peggio non vi è mai fine se parliamo di durate, perchè c'è ancora da affrontare la psicotica "Panglüt" e i suoi infiniti 20 minuti, ove spiegarvi cosa si va a coniugare nelle sue note, diventa impresa assai ardua. Vi basti pensare alle classiche trame jazzistiche, aggiungeteci un pizzico di metal, prog, suoni etnici, drone, silent noise (quasi 10 minuti), ambient e qualsiasi altra cosa che abbia poteri destabilizzanti per la psiche umana, e il gioco è fatto. A completamento di quest'opera magna, ecco arrivare "Chasuble", una bonus track, neanche ce ne fosse il bisogno, stralunato come mi ritrovo ora, dopo aver prestato il fianco a quasi un'ora di musiche e pronto ad affrontare altri sedici minuti, in grado di sovvertire completamente ogni mio concepimento sonoro. Ma l'ascolto di quest'ultima traccia è cosa assai semplice, è meditazione buddista, rilassamento per la psiche, melodie cosmiche, pronte a condurci alla pura essenza del nirvana. Improbabili. (Francesco Scarci)

(Atypeek Music - 2018)
Voto: 75

https://monolithes.bandcamp.com/album/limites

lunedì 14 gennaio 2019

Miles Oliver – Color Me

#PER CHI AMA: Folk/Alternative/Indie Rock
La nuova fatica del compositore parigino Miles Oliver è da considerarsi la vetta di un iceberg, il punto più alto di una ricerca artistica molto personale e intima. Miles suona chitarra acustica ed elettrica, campiona loop e suona il piano, suona in solitudine, offre sempre performance altamente emotive, niente è lasciato al caso, nulla è banale, solo canzoni che aprono il cuore e dilatano le pupille, c'è sempre un misto di malinconia e speranza nel suo canto, una forma canzone fatta per raggiungere sentimenti nascosti e scavare nei meandri complicati dell'animo umano. Lo stile si alterna tra un osannato e acustico Bonnie Prince Billy di periferia ed una certa vena romantica tra dark rock ed elettrico, estraneante, astratto, acido, immediato e psichedelico post rock stradaiolo, carico di chiaroscuri e luminosità come nella bellissima "Saturdaze", una canzone geniale che fa trattenere il fiato. Il disco è in un continuo contrasto logico tra un brano acustico e distorto, un percorso raccontato a piene mani con una scrittura musicale d'alto livello e di godibile ascolto, una produzione più che ottima dove lo stile del cantautore trova la giusta via di espressione. Oliver non si scosta molto stilisticamente dai suoi lavori precedenti, rivisita e riordina il suo stesso modo di far musica, le sue azioni sonore, i rintocchi ritmici minimali vengono affilati, il tono della voce più maturo e le canzoni mirano dritte al cuore, colpendo e ferendo chi le ascolta. Un cantautorato alternativo che guarda al classico alternative country e al folk come all'indie noise con una profondità piena di pathos e un sound pieno di umanità, credibile, vivo ed interessante, un suono che non annoia mai e che al contrario stupisce e fa tanto riflettere. Spezzo una lancia per i tre brani più importanti, secondo me, di questa bellissima raccolta: la già citata "Saturdaze", "Synth Mary" e "Black Fence" con una coda nel finale che gode di un tocco di genio. 'Color Me' è un album curato nei particolari, alimentato da una vera anima artistica, ispirato e autentico, un'ottima prova, un disco consigliato per anime inquiete e sognanti. (Bob Stoner)

(Atypeek Music - 2018)
Voto: 80

https://milesoliver.bandcamp.com/

domenica 25 febbraio 2018

Térébenthine - Visions

#PER CHI AMA: Post Rock, Mogway
Circolarmente ossessive come una sorta di malta sonora all'interno di una betoniera, le visioni oniriche dei francesi Acquaragia si concretizzano in un tumultuoso magma che scende inesorabile dalle pendici del suono inglobando suggestioni consolidate (Mogwai, Don Caballero), incapace per sua stessa natura di produrre alcunché, se non un'uniforme distesa di suono ribollente ("Au Nom du Paère" e "Poupée Charette"). Costituisce notabile eccezione il saliscendi psych raccontato in "Mer Noire" esordiente da desertiche sensazioni early-floydiana per svilupparsi (egregiamente) nei tre stati della materia: prima liquido, poi solido e infine gassoso, cui fa da contrappeso la furia sublimante solido/ gas/solido espressa più avanti nella robusta "Goutte d'Eau". Analogamente, in "Un Jour Encore", la materia pulsa orizzontalmente, aggredita dal diluente, in un'interminabile successione di ipotetiche rarefazioni e condensazioni sonore. L'omaggio a Jackson Martinez, attaccante tra gli altri, di Porto e Atletico Madrid, ammiccherebbe ai Mogwai di 'Zidane, un Portrait du XXIe Siècle'? Un album complessivamente materico, proprio come si conviene per il genere a cui si riferisce, più digressivo che aggressivo e, in verità, affatto eccellente per ispirazione o per produzione. (Alberto Calorosi)

(Atypeek Music/Poutrage Records - 2017)
Voto: 65

https://terebenthine.bandcamp.com/album/visions