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domenica 22 maggio 2022

Richard James Simpson – Sugar the Pill

#PER CHI AMA: Indie Punk Rock
Il terzo album di Richard James Simpson, cantante e chitarrista americano, un tempo parte fondamentale dei Teardrain, apre le porte verso il grande pubblico ad un artista visionario, innamorato della psichedelia e delle rasoiate di chitarra, quanto di quel sostrato industriale e sintetico, molto familiare negli anni '90. Il noise è il contorno, il loop che si ripete e rinnova, le voci distorte, l'indie rock alternativo, sporcato di punk rock e lisergiche sonorità, rendono questo 'Sugar the Pill' una gemma ruvida ma assai luminosa. Così ci appaiono davanti suoni di un tempo, come i Dark Star, quelli di 'Twenty Twenty Sound', prodotti da Steve Lillywhite nel 1999, nei brani "Starry Hope" e "We're in the Wolf's Mouth", mentre "Sleep" riporta un odore industriale molto forte, del resto come "Consensual Telepathy", che ritrova alcune atipiche sonorità sperimentate dai Godflesh in 'Us and Them', oppure ancora l'influenza della scuola sonora aperta dal venerabile 'Mezzanine' dei Massive Attack o dai NIN più moderati in maniera personale e ricercata. "Playing God" sembra una out-take sfuggita ai recenti Duran Duran per il suo mood dance alternativo, seguita da un brano lampo come "Whitney Said", che recita una litania in maniera criptica, prima dell'oscura e sperimentale base ambient di "Time, the River" che, con il suo carillon nel finale, ostenta fantasmi vicini ai Death in June più astratti. Da qui in poi l'opera prende una vena meno rumorosa e più ambient, la ballata triste di "Take it Back" e "John Can't Hero" ne sono gli alfieri con movimenti lenti ed ipnotici spostamenti, suoni rarefatti, sospesi che si materializzano e si espandono nell'aria sciogliendosi definitivamente e sfociando nella drammatica follia dei 101 secondi di "The Pink is Painless", un buco nero che perfora l'anima. Conclude la ballata "Love Become a Stranger", che sembra un brano di Richard Ashcroft arrangiato da un Julian Cope in una stralunata forma romantica. Il disco è pieno di collaborazioni importanti, e cito come da sito della band Gill Emery (Mazzy Star, Hole), Don Bolles (The Germs), Dustin Boyer (John Cale), Paul Roessler (The Screamers, Twisted Roots, Nina Hagen), Geza X (Geza X and the Mommymen, The Deadbeats), Grebo Gray, Wilton e Kaitlin Wolfberg. Sicuramente un album tanto interessante quanto disomogeneo nella sue composizioni che s'ispirano a molte sonorità diverse tra loro. Di certo possiamo dire che 'Sugar the Pill' ha un ottimo sound che rispolvera vere chicche di commistione tra chitarre lisergiche e ritmi ipnotico-ossessivi che furono un tempo la Bibbia musicale di una generazione. Composizioni diversificate e fantasiose, fondamentalmente cupe, a volte claustrofobiche, per un lavoro tutto da scoprire ed apprezzare in tutte le sue molteplici sfaccettature. (Bob Stoner)

(Rehlein Music - 2021)
Voto: 74

https://soundcloud.com/rjamessimpson

giovedì 5 maggio 2022

Carpet Waves - Inner Weapons

#PER CHI AMA: Post Punk/Alternative
La Germania continua a sfornare una dietro l'altra interessantissime band post punk, con il filone emerso dal movimento punk degli anni settanta, sempre più in ascesa. I Carpet Waves sono un quartetto originario di Düsseldorf che ci presenta questo EP di cinque pezzi intitolato 'Inner Weapons', che richiama ovviamente quello che fu il rivoluzionario sound esploso in UK a fine anni '70. E cosi i nostri irrompono con la trascinante "Biography" (da cui è stato peraltro estratto anche un video), che suona post punk al 100%, per poi ammorbidire la propria proposta con la più malinconica "Aura", e quel suo piglio shoegaze (Slowdive docet) con le vocals del bravo Benjamin ad evocare inevitabilmente Robert Smith (The Cure). Questa seconda traccia mi convince decisamente più dell'incipit del disco, vuoi anche per quel suo vorticoso giro di chitarra, cosi intenso ed evocativo. "Shadows" è un po' più scarna musicalmente anche se nelle sue ritmiche ritrovo, oltre che al post punk, anche un che di indie e brit pop, ma non fatevi ingannare troppo perchè il finale sarà tutto in discesa con distorsioni di chitarra e parti atmosferiche davvero interessanti. "Narrow Dream Factory" ha un piglio decisamente più dreampop e per questo non rientra proprio tra le mie favorite, sebbene il finale, ancora una volta, avrà modo di stupirvi per il relativo inasprirsi della sua sezione ritmica. In chiusura, la lunga "Void Wilderness" ci riconsegna quell'aspetto più malinconico osservato in precedenza, abbinato però all'alternative sound degli americani Dredg dei tempi di 'Catch Without Arms'. Insomma quello dei Carpet Waves è un interessante comeback discografico che vi mostrerà come il panorama teutonico sia vivo e vegeto più che mai. (Francesco Scarci)

(Waveland Records - 2022)
Voto: 72

https://carpetwaves.bandcamp.com/

lunedì 25 aprile 2022

Tanidual - Alignement

#PER CHI AMA: Elettronica Sperimentale
William Laudinat è un artista francese, produttore e trombettista nei Walter Sextant, Les Fanflures, Compagnie Merversible, EPS. Oggi ci presenta invece una nuova release del progetto che porta il suo nome d'arte, ovvero, Tanidual. Si tratta di un progetto sperimentale che da sempre intende esplorare vie misteriose che attraversano la world music, l'elettronica, il jazz e l'hip hop, riuscendo a far passare le sue complesse architetture sonore, in maniera molto accessibile a chi le ascolta, mostrando una grande sensibilità compositiva. Partendo da una base costante di matrice jazz grazie ad un uso della tromba etereo ed ipnotico ("Alignement"), il musicista transalpino crea le sue ambientazioni a metà strada tra le composizioni più morbide di Paolo Fresu, (ricordo l'album 'Summerwind'), sporcate da un'elettronica ricca di venature sofisticate e imprevedibili, figlia di ascolti del tipo Mira Calix ('For the Selector') o Banco de Gaia ('Maya'), con cui interagire con aspetti lievi della world music, che aiutano a creare una sorta di musica ambient dal sapore multietnico, indefinita e fluttuante ("Suling"), che s'identifica in orchestrazioni futuriste e di pura fantasia musicale. Il minimalismo dell'elettronica e le ritmiche IDM si fondono poi in una matrice progressiva, inventando dei manifesti sonori che inneggiano alla musica lounge, acid jazz e hip hop ("Auf le Jour" con il featuring di L'erreür alla voce), quanto alla sperimentazione in stile soundscape, per un'immaginaria scena da film a rallentatore. Provate a chiudere gli occhi ed immergervi in brani come "La Bènef – part A" (con al trombone Guillaume Pique) e nella conclusiva ripresa di part B, dove il tempo si ferma allo scandire della presenza vocale prestata dall'ospite Arthur Langlois, sospeso nelle note di quel synth dal retrogusto puramente seventies. "La Limite" è una canzone dove la chitarra suonata da Antoine Paulin, si connette in perfetta sinfonia con la tromba ed una ritmica dai bassi profondi, per creare uno dei brani più belli da ascoltare del lotto, alla pari di "Reno au Pays des Synthètiseurs", con un'altro ospite, Reno Silva Couto al sax, che sembra un'Alice nel Paese delle Meraviglie avvolta in un mantra di sintetizzatori, con una performance solista di gran classe. La bella e cupa "In the Sky" vanta ancora Guillaume Pique al trombone mentre l'ultima segnalazione va alla sperimentale e suggestiva musicalità di "Check". 'Alignement' è alla fine un disco che travisa una calma apparente ma che in realtà attraversa diametralmente, e allinea, come cita il titolo del disco, un sacco di mondi e correnti sonore sparse tra modernismo, sperimentazione e tradizione. Certamente un album impegnativo ma per i ricercatori di novità e melting pot sonori, sarà come avere tra le mani un vero e proprio vaso di pandora dal contenuto contrario, ovvero, un sacco di benefici per le vostre orecchie. (Bob Stoner)

(Atypeek Diffusion - 2022)
Voto: 75

https://tanidual.bandcamp.com/

giovedì 14 aprile 2022

The Flying Norwegians – New Day

#PER CHI AMA: Country Prog Rock
Qualche mese fa abbiamo parlato della ristampa del fortunato secondo album, intitolato 'Wounded Bird', del 1976, di questa band scandinava, che come si può immaginare dal loro moniker, è norvegese di nome e di fatto, ma che musicalmente amava definirsi semplicemente come americani di Norvegia. Oggi parliamo invece del loro disco di debutto del 1974, ristampato e rimasterizzato sempre nel 2021, e che farà la felicità degli estimatori della musica folk e country americana, molto popolare nel periodo che oscilla tra i tardi anni '60 e i primi '70. Come detto nella precedente recensione, il gruppo guidato dal chitarrista Rune Walle e dal batterista Gunnar Bergstrøm si affaccia al mercato di fine anni '70, con un ottimo debutto discografico, anche se per il sottoscritto 'Wounded Bird', rimane il mio preferito di sempre. In questo album si fondono come al solito i vari sentori e suoni di riferimento che hanno influenzato il combo norvegese. Il country degli immancabili the Flying Burrito Brothers, gli Eagles, Crosby, Still & Nash, che si alternano con brani, come l'apripista "Young Man", che mostra una sezione ritmica molto spiccata in salsa molto funk, e nella conclusiva "It Ain't Just Another Blow", dove la band di Bergen, si muove agevolmente con melodie allegre da polveroso saloon del vecchio West. In mezzo, un'infinità di chitarre, banjo, pedal steel, wah wah ed evoluzioni sofisticate, proprio come le creazioni dei coloratissimi The Flying Burrito Brothers, lontani anni luce da chi intende il country un genere poco ricercato e piatto. Composizioni ricche e dinamiche, che non disdegnano la presenza di qualche intromissione anche nel soul, nel blues e nel progressive rock, magari nelle sue forme espressive più soft, ma comunque intelligentemente strutturato. Il sound padrone, rimane quello delle grandi praterie americane, ballate solari e libertà, con escursioni anche nella psichedelia, come nell'intermezzo di "Those Were the Days", dove da classica country song si trasforma in una specie di evoluzione ritmica dai tratti caraibici e funge quasi da precursore alle strade percorse più tardi dal geniale David Byrne. La riedizione del disco gode di un'ottima sonorità, fedele all'originale, con suoni caldi e pieni, ma che, allo stesso tempo, suona nuova come se l'album fosse stato registrato ai giorni nostri. L'intera atmosfera del disco è molto rilassante, ed il gusto di starsene sdraiati in poltrona ad ascoltare le molteplici peripezie chitarristiche sparse qua e la, un po' in tutti i brani, sarà la gioia di molti amanti del suono equilibrato e ad alta fedeltà. Come ho detto in precedenza, li preferirirò nel disco successivo, ma non posso dire che anche questo intenso, lungo primo lavoro, non sia un grande disco e che, fin dal primo ascolto, per un vero intenditore di musica, sia un'opera che veramente vale la pena di ascoltarla tutta d'un fiato e ad alto volume! (Bob Stoner)

venerdì 11 marzo 2022

Pia Fraus - Now You Know It Still Feels The Same

#PER CHI AMA: Shoegaze/Dream Pop
Dovevano celebrare i 20 anni passati dal debutto del loro primo full length e così hanno pensato bene di cimentarsi in una nuova compilation di brani che furono semplicemente scritti, qualche tempo prima di quell'album che gli fece iniziare una splendida carriera musicale. Il dream pop è un genere astratto, amato da persone miti e tenaci che vogliono raccontare e ricercare altri stati di coscienza, è psichedelia a tutti gli effetti, con la costante sentimentale sempre in prima linea e se poi riuscite ad immaginarne un punto di contatto con il post rock e le teorie del rock alternativo, come risultato otterrete la formula sonora dei Pia Fraus, a mio avviso la band estone più anglosassone che esista in Estonia. La musica di questa band ha sempre mantenuto nel tempo i suoi elevati standard di fantasia e composizione, una buona originalità, un lato sognante assai spinto e dopo un cospicuo numero di uscite di carattere, sono approdati a questa compilation di brani intitolata 'Now You Know It Still Feels The Same' che aiuterà il pubblico a conoscerli meglio, anche se credo che capolavori come 'That's Not All' o 'Nature Heart Software' del 2006, non si possano proprio ignorare in ambito shoegaze, dream pop o soft psichedelia. Il mix proposto dalla band è frutto di numerose associazioni sonore tra i quali i My Bloody Valentine, di cui si appropriano il suono delle chitarre, i Cocteau Twins degli ultimi lavori da cui traggono un'attitudine cristallina ed eterea, gli immancabili Medicine con un pizzico di Lush, ed anche una velata ammirazione per l'ipnosi elettronica dei Seefeel di 'Quique' ed il pop incantato dei Broadcast. Con un'orecchiabilità da far invidia, i Pia Fraus si rendono capaci di atmosfere surreali che si espandono tra chitarre lisergiche, distorsioni di scuola Kevin Shields e doppia voce, maschile e femminile, di carattere estatico che ci accompagnano in un viaggio a ridosso del sole. Questa compilation li rappresenta bene, anche se il loro repertorio è talmente vasto e sfaccettato, che un insieme di canzoni così, può solo dare una piccola idea di quella che è la reale portata di questa band, nata dalla voglia di un gruppo di adolescenti, che hanno deciso di fare musica indipendente partendo dal nulla. 'Now You Know It Still Feels The Same' è un gran bel disco, con tutti i connotati che servono ad un album shoegaze per essere ben accolto dagli ammiratori di questo tipo di sonorità ed i tre brani che fanno d'apertura al disco, "How Fast Can You Love", "Obnoxious" e "Moon Like a Pearl" sono uno splendido biglietto da visita per questa band tutta da riscoprire. Ascolto consigliato. (Bob Stoner)

venerdì 25 febbraio 2022

Primus - Primus & the Chocolate Factory with the Fungi Ensemble

#PER CHI AMA: Alternative
Sovente accade che in sede di dollarosa reunion certe band riscontrino i medesimi dissidi di vent'anni prima, affrontati però con un baricentro diverso. Gravitazionalmente, i Primus di questo lavoro sono Les Claypool accompagnato da una band di gloriosi fricchettoni fuoriusciti da un ipotetico biker-movie di Tim Burton. Partendo da presupposti di questo genere, risulta sorprendente riscontrare primizie "primusiane" in questa ordinariamente bizzarra rilettura dello score del primo "Willy Wonka e la Fabbrica di Cioccolato". "Candy Man", sopra tutte, a meno degli eccessi tardo-Claypooliani di bidibidi boudiboudi, oppure il surf-tango "I Want It Now" cantato per una volta dal chitarrista Larry Lalonde o la obscured-by-floydiana "Farewell Wonkites" e la sua speculare "Hello Wonkites". Ascoltate questo album degustando un merdessert di Alessandro Negrini durante una cenetta esclusiva al Luogo di Aimo e Nadia. (Alberto Calorosi)

(Prawn Song - 2014)
Voto: 70

http://primusville.com/

Sólstafir - Ótta

#PER CHI AMA: Experimental Metal
La sottile linea adamantina che avvicina gli elementi Ragnarǫk del viking black metal islandese al post metal metereocratico con tinte nebbiolin-folk, non può non transitare attraverso i suoni nu-sludge-ambient dei Sólstafir e la voce geyser-grohl dello spudorato Aðalbjörn Tryggvason. Collocabile grosso modo a metà strada tra Lars Von Trier che ascolta in cuffia 'Alternative 4' degli Anathema e Michael Gira che sbraita la frase “Sigur rós 'sti maròn”, rompendo un banjo sulla zucca del casellante di Reggio Emilia, questo album nei fatti è affascinante almeno quanto l'immagine di un branco di lupi che sbrana il cantante degli Ulver durante una maestosa aurora boreale. Vi ho incuriosito, dite la verità. (Alberto Calorosi)

(Season of Mist - 2014)
Voto: 85

https://solstafir.bandcamp.com/album/tta

lunedì 21 febbraio 2022

Closure in Moscow – Pink Lemonade

#PER CHI AMA: Prog Rock/Psych/Alternative
L'etichetta australiana Bird's Robe Records, come abbiamo riferito di recente, si è presa l'incarico di ristampare la discografia dei Closure in Moscow e dopo i primi due ottimi lavori ci troviamo di fronte alla loro ultima opera di studio, uscita qualche anno fa, precisamente nel 2014. L'eclettica band australiana fa del suo bagaglio musicale un format esasperato, mescolando generi e sonorità a più non posso, dando vita ad un lavoro spettacolare e complicato allo stesso modo. Potrei dire che 'Pink Lemonade' sta ai Closure in Moscow come 'Sgt Pepper' s Lonely Hearts Club Band' sta ai The Beatles, ovvero, il massimo sforzo creativo dove una band possa cimentarsi nella sua carriera. Chiarisco subito che musicalmente i due album non sono accostabili per ovvie ragioni ma come attitudine si possono avvicinare, soprattutto nelle rispettive gesta compositive che di fatto puntavano a superare i confini della propria arte. Nel caso dei Closure in Moscow, il mescolare R&B, progressive rock, funk, hard rock, elettronica, blues e pop punk, in una veste che mi ricorda una sorta di musical d'altri tempi, ha dato i suoi buoni frutti, e la sua orecchiabilità va spesso e volentieri a braccetto con la complessità dei pezzi, costantemente baciati da una positività solare trascinante e musicalmente colta. Quindi, ricapitolando, tra una miriade di rimandi sonori, vi possiamo trovare paragoni con i Coheed and Cambria, ma anche con la teatralità progressiva di 'Suffocating the Bloom' degli Echolyn, l'alternative degli Incubus e perfino piccoli sbocchi creativi e progressivi alla 5UU'S, e poi blues, free jazz e free rock. L'insieme si svolge con una dinamica notevole vista la qualità dei musicisti in questione, con la voce impareggiabile di Christopher de Cinque che fa venire i brividi in "Mauerbauertraurigkeit" o nel duetto con Kitty Hart in "Neoprene Byzantine", un brano spettacolare di circa tre minuti e mezzo, impossibile da descrivere, ma che caratterizza l'intero disco, e che potrei provare a definire solo ricordando due brani lontanissimi tra loro. Un mix tra "It's Oh So Quiet", nella versione di Björk, e "Goliath" dei Mars volta, suonato con un mood seventies caldo ed esplosivo. Alla fine, 'Pink Lemonade' è un disco che sfiora la perfezione, anche se in un calderone così stipato di note, generi e suoni, è sempre difficile trovare il bandolo della matassa, il filo conduttore per capire un'opera del genere. Forse, il vero segreto per farsi catturare da questo album, è proprio quello di farsi trasportare e stupire dalle sue coordinate nascoste, apprezzare lo stile di questa band che ha osato il salto nel mainstream internazionale senza rinunciare alla propria essenza di band crossover a 360 gradi, musicisti, esploratori e manipolatori di universi musicali diametralmente opposti richiamati in maniera esemplare ed esaltante. Un disco complicato e delizioso, un disco da veri appassionati di musica libera. (Bob Stoner)

(Bird's Robe Records - 2014/2022)
Voto: 84

https://closureinmoscow.bandcamp.com/album/pink-lemonade

domenica 6 febbraio 2022

Mona Kazu – Steel Your Nerves

#PER CHI AMA: Dark/Post Wave
Esce per il trittico Falls Avalanche Records/Urgence Disk/Atypeek Music il nuovo album di questo ottimo duo transalpino e vista la generosità della proposta, possiamo dire che il salto quantico dei Mona Kazu è avvenuto nel migliore dei modi e assolutamente in una forma splendente, luminosa, quasi accecante. L'evoluzione è impressionante, la voce di Priscilla Roy è divenuta possente, autoritaria, sognante, tesa, inquietante, protagonista e, brano dopo brano, si snoda tra i richiami canori di vocalist strepitosi e diversi tra loro, come Bet Gibbons o Kim Gordon, oppure, per la sua estensione vocale Ann–Mari Edvardsen dei mitici The 3rd and the Mortals o Rachel Davies degli Esben and the Witch. Ad una gran voce va equiparata una solida e credibile musica, che faccia incetta di tutto il background di una band che è in attività da più di un decennio e che sperimenta da sempre con generi opposti tra loro, trip hop, post punk, elettronica, rock alternativo e jazz d'avanguardia che, uniti solo per attitudine vocale e non per stile musicale, alle atmosfere cupe degli Avatarium (quelle più acustiche) della magica Jennie–Ann Smith, formano l'attraente stato sonoro degli attuali Mona Kazu. Aggiungete un velo mistico nel ricordo della compianta Andrea Haugen (Aghast/Hagalaz' Runedance) e avrete un quadro completo su cui valutare un'opera splendida, che dovrebbe essere osannata da tutti i cultori di musica alternativa. Un disco maturo e adulto che proietta la band in un emisfero magico, surreale, un altro mondo sonoro, etereo, riflessivo, affascinante. Franck Lafay che si occupa della musica ed è l'altra parte del gruppo. Da sempre i Mona Kazu si presentano come duo, ma questa volta si sono avvalsi anche della collaborazione esterna del bravo batterista/percussionista, Règis Boulard. Per il resto, l'ottimo mastering di Mathieu Monnot (Eyemat), ha consolidato la formula sonora perfetta per questo mix di generi, districandosi alla perfezione, tra bassi profondi, suono cameristico, post rock, teatralità e avanguardia, forgiando la variegata anima sonora di un album dal cuore dark, che in ogni sua canzone lascia senza respiro l'ascoltatore. Che i Mona Kazu avessero ottime qualità era indubbio da tempo, ma questo nuovo lavoro supera tutte le aspettative. Difficile trovare la miglior canzone, forse l'oscurità di "Birds" o il riff alla Sonic Youth di "Porto Twins" con la sua evoluzione trip hop ed il fantastico intermezzo avantgarde jazz, il buio romantico e futurista di "Troubles" che nel suo progredire riporta alla mente la natura musicale classica, drammatica e teatrale de "La Tristesses de la Lune", il brano dei Celtic Frost. Il fatto è che questa coppia di musicisti è riuscita a creare un vero e proprio capolavoro, una scatola magica di suoni e stili rimescolati tra loro in maniera magistrale, senza rinunciare al taglio underground, esaltando e innalzando le proprie qualità alla massima potenza espressiva, dando vita ad un album imperdibile che considero, a tutti gli effetti, una delle migliori uscite del 2021. (Bob Stoner)

(Falls Avalanche Records/Urgence Disk/Atypeek Music - 2021)
Voto: 88

https://fallsavalancherecords.bandcamp.com/album/steel-your-nerves

venerdì 28 gennaio 2022

Barabba - Primo Tempo

#PER CHI AMA: Darkwave/Alt Rock
"Volete Gesù o Barabba?". Secondo il Vangelo di Giovanni, il popolo di Gerusalemme scelse il primo e probabilmente ad allora risale la genesi di questa band marchigiana composta da tre musicisti, Jonathan Iencinella, Riccardo Franconi e Nicola Amici, che ormai da vent'anni se ne vanno in giro a fare musica alternative rock, popolando band del sottosuolo italico (Guinea Pig, Jesus Franco & The Drogas, Kaouenn etc.). Detto questo, 'Primo Tempo' rappresenta il primo album sotto questo moniker: il lavoro si apre con "Un Altro", un pezzo che mi ha evocato dopo soli due secondi, un brano che si era assopito nella mia memoria, "Satana" dei Nuvola Neshua. Andatevi a sentire i due pezzi e dirmi se non trovare un parallelismo nelle pulsazioni urbane che emanano i due brani. Quanto proposto dai Barabba risente però un po' di più dalle ultime tendenze rap/trap (giuro che mai avrei pensato di scrivere trap in questo blog) coniugate qui con criptiche sonorità alt rock che mi hanno evocato un'altra bestia nostrana, i Bachi da Pietra e non solo perchè il mastermind Giovanni Succi comparirà come guest star alla voce su "Quei Due" in compagnia di Marco Drago. Giovanni è uno dei tanti ospiti che compaiono infatti in questo EP di sei pezzi. Dalle suggestioni urban dell'opening track si passa a "Bastare a Me Stesso", con un pattern musicale all'insegna di un darkwave elettronico molto simile al pezzo introduttivo, qui con il featuring di Francesco Imperatrice (aka Paco Sangrado) e Serena Abrami alla voce, quest'ultima che ha collaborato in passato con gente del calibro di Max Gazzè o Luca Barbarossa (non pensavo che avrei mai nemmeno scritto quest'ultimo nome su questo blog). La proposta dei nostri si muove comunque sinuosa attraverso l'oscurità anche con "Momo" che si renderà più epica per il featuring al sax di Tommaso Uncini. Ancor più cupa, e non pensavo fosse possibile, arriva "L'ultima Mano", in cui Jonathan duetta alla voce con Caterina Trucchia (dei Kmfrommyills) in un pezzo noir che si muove sempre tra trip hop, elettronica e cantautorato, il tutto sempre contraddistinto da un cantato affine ad un rap primordiale. Si giunge nel frattempo a "Quei Due", che oltre a continuare con un sound forse un po' troppo affine ai precedenti pezzi, e su questo cercherei di lavorare un po' di più, la seguo più che altro per il suo lirismo narrativo che descrive una delle tante storie del protagonista Barabba, alle prese con i propri demoni quotidiani. In chiusura, la meravigliosa "Bianco Natale", da ascoltare attentamente per i suoi ironici testi che non vi porteranno di certo a quel che si definisce un lieto fine. Ascoltare per credere. (Francesco Scarci)

domenica 9 gennaio 2022

Kosmodome - Kosmodome

#PER CHI AMA: Psych/Prog Rock
Il giovane duo dei fratelli Sandvik si mette in mostra con questo interessante primo album dal titolo omonimo e dai toni caldi e curati. Un'attitudine space rock nella grafica di copertina, nel moniker e nell'atmosfera generale del disco, che abbonda di effetti cosmici, aiutati dai vari rhodes, organo, piano e mellotron, suonati dal bravo Jonas Saersten, unico ospite nel progetto. Il sound dei Kosmodome è sofisticato e riconduce, come affermato nelle note della pagina bandcamp, alle sonorità prog rock degli anni '60, a cui aggiugerei anche primi anni '70, rinnovati alla maniera degli Anekdoten, anche se meno cupi e più solari. Ottimo l'impatto strumentale, dove Sturle Sandvik suona chitarra, basso e canta, mentre il fratello Severin siede dietro ai tamburi. Entrambi si comportano assai bene sfoderando ottime prestazioni, sia in fase esecutiva che compositiva, arricchendo e colorando tutti i brani in maniera intelligente. Questi nipotini degli osannati Camel di inizio carriera, hanno imparato perfettamente come esprimersi in ambito rock, acquisendo una formula sonora navigata, vintage e classica, ridisegnata degnamente con verve attuale e accorgimenti moderni di scuola post rock e space rock, sia nel canto che nella scelta delle sonorità. "Deadbeat" né è un manifesto con una coda in stile folk etnico che fa un certo effetto scenico. Tra i brani si manifestano esplosioni in stile stoner come in "Waver I" e "Waver II", ma il parallelo con i Mastodon rivendicato dalla band, mi sembra eccessivo. In effetti, il suono caldo ed elaborato è di buona fattura ma non raggiunge mai la potenza del combo americano. Comunque, la vena prog nello stile dei Kosmodome prevale sempre, anche quando schiacciano sul pedale dell'acceleratore, ecco perchè li avvicinerei più ai mitici Anekdoten e agli allucinati Oh Sees come attitudine, mentre se parliamo di stoner li avvicinerei piuttosto agli Apollo 80 o ai precursori olandesi Beaver. I paragoni lasciano il tempo che trovano e devo ammettere che il disco è assai bello, piacevole, ricercato e si consuma tutto d'un fiato, cosa che permette all'ascoltatore di entrare in un'atmosfera astratta e cosmica intrigante, capitanata peraltro da una voce pulita e sicura che a volte inspiegabilmente mi ricorda certa new wave psichedelica degli anni '80. Ascoltate il brano "The 1%" e godetevi l'estasi, oppure "Retrograde" per farvi sovrastare da un' ottima psichedelia progressiva. Gran bella prova per questo giovane duo norvegese di Bergen, che fa parter del rooster di una splendida etichetta discografica, la Karisma & Dark Essence Records. Album da non perdere! (Bob Stoner)

(Karisma & Dark Essence Records - 2021)
Voto: 78

https://kosmodome.bandcamp.com/album/kosmodome

mercoledì 5 gennaio 2022

Closure in Moscow – First Temple

#PER CHI AMA: Indie/Prog Rock
Poco tempo fa avevamo presentato la ristampa, ad opera della Bird's Robe Records, dello splendido primo disco di questa band australiana, amatissima in patria e capace con questo secondo album intitolato 'First Temple', di arrivare al primo posto in classifica, come miglior album nella categoria hard rock/punk indipendente, agli AIR awards del 2009. La band alla fine del 2008, si sposta in blocco negli Stati Uniti per continuare la fruttuosa collaborazione con il produttore Kris Crummett, che già nel precedente, 'The Penance and the Patience', aveva dato alla luce un ottimo debutto per la giovane band di Melbourne, che in questo modo rinvigorisce il proprio sound, aumentando il cast degli strumenti usati e la qualità di produzione, per un lavoro che risulterà più elaborato, levigato al meglio, meno spigoloso e più accessibile, coloratissimo come la sua splendida copertina, variegato e di moderna visione, un mix perfetto per non passare inosservati e creare una sorta di marchio di fabbrica definitivo per i Closure in Moscow. Un modo di vedere il prog rock contaminato da visioni psych, hard rock, indie punk, con suoni caldi e profondi, voci che incantano e una timbrica sempre pulsante. L'intensità della musica, che in tutte le sue diversità di stile, viene proposta e sviluppata ovunque nel modo migliore, mostra una capacità di esecuzione e di composizione al di sopra della media (ascoltatevi "Afterbirth" e ditemi cosa ne pensate!). Una proposta musicale che non mostra lacune, che si fa ascoltare a tutto tondo senza perdere mai lo smalto, brano dopo brano, ed anche se il suo aspetto risulta essere evidentemente volto al mainstream, niente lo rende banale o derivativo, anche oggi che ha superato il decennio di vita dalla sua prima uscita, via Equal Vision Records e Taperjean Records nel 2009. I richiami sono al solito rivolti ai The Mars Volta, ai Coheed and Cambria e ai Pain of Salvation, avvolti da un'aurea di indie intelligente e fresco alla Byffy Clyro (stile 'Infinity Land'), ma tutto filtrato dall'amore per il prog rock dei seventies ed il virtuosismo acrobatico spalmato all'interno delle coloratissime composizioni, in perfetta sintonia con la classe della band di Claudio Sanchez e soci. Fa scuola il brano "Arecibo Message", una canzone dalle potenzialità enormi. Un disco che all'ascolto risulta accessibile ma assai complicato, divertente e sofisticato allo stesso modo, un album pretenzioso, anche a livello stilistico (non tutti si possono permettere un brano in acustico come "Couldn't Let You Love Me"), ma studiato con un sound fresco ed evoluto, per essere ascoltato con facilità e valutato come un piccolo gioiello, anche dopo numerosi ascolti, un album che supera a pieni voti le aspettative degli amanti del genere. Album da non perdere assolutamente. (Bob Stoner)

martedì 14 dicembre 2021

Closure in Moscow - The Penance and the Patience

#PER CHI AMA: Prog Rock
L'etichetta australiana Bird's Robe Records, si prende la licenza di riportare sul mercato mondiale un assoluto capolavoro, uscito per la prima volta nel lontano 2008, opera dei Closure in Moscow, band originaria di Melbourne, un progetto musicale che più volte fu premiato in patria per meriti artistici (ricordo che il loro ultimo album risale al 2012). La label di Sidney, con una copia cartonata dall'artwork magnifico, completa di note informative e libretto interno, rimette in circolo questo gioiellino intitolato 'The Penance and the Patience', che altro non è, che il primo lavoro di studio dell'act australiano. Difficile dare un' identità alla musica dell'album, vista la quantità di spunti e richiami musicali contenuti in questa opera. Possiamo però dire che al primo ascolto ci si rende conto che il quintetto s'intrufola naturalmente e assai bene, tra le movenze stilistiche in voga tra band del calibro di Coheed and Cambria, (con cui hanno anche suonato live), The Mars Volta e i vari progetti di Omar Rodríguez-López, risultando a tutti gli effetti discendenti accreditati di quel modo di intendere il progressive rock che fece emergere lo stile incontrastato degli Yes tra la fine dei '60 e l'inizio dei '70. Una linea invisibile li unisce alle band citate per qualità e virtuosismo tecnico espresso attraverso composizioni che non conoscono limiti, che tendono ad unire la maestosità di certo classic rock dei seventies, il gusto e la complessità di alcuni brani ricercati del passato in bilico tra powerflower e prog rock, l'impatto del punk alternativo alla At the Drive In e Pedro the Lion, con una velata vena da musical nello stile dei the Dear Hunter connesso con l'estrosità dei Leprous di 'Malina'. 'The Penance and the Patience' diventa cosi un album dirompente fin dalle prime note dell'iniziale "We Want Guarantees, Not Hunger Pains", che mostra subito un impatto duro ma controllato e una splendida forma moderna, di intelligent rock, pieno di cose pregevoli, pensate da ottimi musicisti, cercate ed apprezzate anche dagli ascoltatori più esigenti. I Coheed and Cambria sono sempre dietro l'angolo, come i The Mars Volta del resto, ma i Closure in Moscow riescono a mantenere una propria personalità che li contraddistinguerà anche nelle release successive, con ulteriori sbocchi verso lidi più pop, aggiungendo anche qualche gingillo elettronico qua e là, senza perdere mai di vista la loro sanguigna vena da progsters incalliti, con il gusto per l'AOR e l'hard rock dei mostri sacri di un tempo. Cos'altro dire, "Dulcinea" apre il cuore di tutti i rockers con la sua potente ariosità, "Breathing Underwater" è una sperimentale carica di dinamite e "Ofelia... Ofelia" con quel suo piano sullo sfondo e la sua indole cosi triste, sinfonica e psichedelica, è a dir poco adorabile. Certamente siamo di fronte ad un disco di tutto rispetto e di ottima produzione, stilisticamente impeccabile, tecnicamente virtuoso e sorprendentemente aperto a qualsiasi tipo di ascoltatore, pur trattandosi di un vero e proprio disco prog rock di moderna fattura. Un album da ascoltare per credere, un disco da non perdere, visto che la Bird's Robe ci offre questa seconda chance di metterlo tra gli scaffali delle nostre raccolte migliori. L'ascolto è assolutamente consigliato per riscoprire la sua grande bellezza artistica. (Bob Stoner)

Pluto Jonze - Awe

#PER CHI AMA: Indie/Alternative/Psych Pop
Pluto Jonze è un produttore, songwriter e performer proveniente da Sydney, innamorato della psichedelia quanto del pop che si diletta da circa un decennio, a sperimentare melodie e intrugli sonori, che spaziano tra idee prese in prestito al buon John Lennon ad un certo glam di stampo Marc Bolan/Elton John, passando per lo strano mondo di Wayne Coyne e compagni, giocando con la psichedelia, cogliendo a tratti, nella sua musica, atmosfere e modi di fare tipici, proprio dei The Flaming Lips più elettronici e solari. C'è un certo modo di riscrivere il pop con gusto e classe, che mi ricorda anche le gemme dei britannici The The, magari quelli di 'Soul Mining' del 1983, riveduto e corretto con gli accenti del moderno verbo e tutta la tecnologia della odierna musica elettronica, con velate parvenze dance e lontanamente anche soul. Bisogna ammettere che il singolo "Rumschpringe" è un brano stratosferico, carico di luce pop in tutte le sue forme, e meriterebbe la vetta di molte classifiche mondiali, con un ritornello perfetto da cantare a squarcia gola con una vena ipnotica e vagamente corale, un brano molto solare. "Moonmaking" si destreggia in un cantautorato molto vicino al soul elettronico con bassi profondi e melodie ammalianti. Proseguendo nell'ascolto di 'Awe' posso confermare essere un disco di ottima fattura, peculiare nella sua produzione dove si nota peraltro un gran lavoro nella ricerca delle sonorità usate, un bel prodotto che risulta al contempo, assai orecchiabile e radiofonico, pur mantenendo sempre un legame solido con il mondo del pop d'autore di buona caratura. Il loop di violino inserito nel contesto di una struttura soul, come accade nella title track, è un marchio di fabbrica per l'autore australiano che si inserisce a forza in un contesto governato da ottimi artisti del calibro di Saint Vincent e la K.D.Lang di 'Invincible Summer', dopo essere uscita indenne dagli scontri della Yoshimi Battles The Pink Robots. Niente male il classicismo space di "Walk Off the Edge With Me", e gli arrangiamenti beatlesiani, riletti in chiave moderna, di "I'll Try Anything", ed interessante è la particolare voce quasi da figlio dei fiori, cosi visionaria e astratta, di Pluto Jonze, che canta e suona quasi tutto, in tutte le canzoni, aiutato solo da pochi intimi amici musicisti. Il disco va a chiudersi dopo "New Morning High" con il romantismo di "Blue China", completando una carrellata di brani decisamente ben ragionati e costruiti per rimanere nella memoria dell'ascoltatore, trasportandolo in una realtà di sogno e allucinazione pop di tutto rispetto. (Bob Stoner)

venerdì 3 dicembre 2021

Lo-fi Sucks! - Loud, Fast, Shut Up!

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Indie Rock
Non cambiano di tanto le prospettive sonore nell'ultimo, post/umo 'Loud, Fast, Shut Up!' (registrato nel 2004 e pubblicato sette anni dopo, tra l'altro solo su vinile). La ortoriflettente "I Won't Complain" accarezza per quasi tutto il tempo il post-pop alla Deus, prima di annientarsi in una luce dissonante che vi ricorderà forse i Talk Talk imperscrutabili di "Ascension Day". Ritroverete quei caratteristici arpeggi climatici qui e altrove, per esempio in "Return of the Son of Orange", o in "No Taste", sognante esempio di classic-post-rock italiano adorante Lou Reed. Reciprocamente, il fattonz-punk di "Fat Butterfly" vi riporterà dalle parti di quel Lou Reed sognante adorato dal classic-post-rock italiano. "Know Your Orange!" è splendidamente electropunk nei modi, per esempio di una "Mimporta Nasega" (CSI). La riproposizione krautronica di "Rats from Strasbourg", invece, è un esecrabile eresia meritevole soltanto di inquisizione spagnola. Breve tour promozionale nel 2011 e poi più niente, fino a oggi compreso. Peccato. (Alberto Calorosi)

giovedì 25 novembre 2021

Anarcheon - Scary Tale

#PER CHI AMA: Alternative/Death Metal
Interessante il mix proposto dagli Anarcheon, quartetto originario di Vancouver che in sei anni di vita, ha confezionato un demo e un paio di EP, incluso il qui presente 'Scary Tale'. Un po' pochino ma i contenuti non si discutono visto un sound che, sin dall'iniziale "Translydrainya" (song da cui è stato anche estratto un video di scuola Cradle of Filth), miscela sonorità stile primi In Flames con rimandi di carcassiana memoria, il tutto unito alle ultime cose dei The Agonist (qui con meno piglio sinfonico), per una proposta un po' più fuori dagli schemi. Sono i Carcass tuttavia a rappresentare l'influenza primaria dei nostri, visto un riffing mid-tempo su cui si muovono la voce abrasiva (ma anche in veste pulita) della frontwoman Kaija Kinney (un Jeff Walker in erba) e di sottofondo il basso da applausi di Sylvain Maltais. Il pezzo è piacevole anche se manca in realtà quello spunto in grado di renderlo davvero (con)vincente. Ci si prova con la successiva "Vlad To The Bone" e la sua ritmica serrata e compatta, con linee melodiche sghembe interrotte da un break atmosferico in cui Kaija dà nuovamente prova delle sue qualità vocali nel pulito. Si riparte poi con un death articolato, nelle cui parti più grooveggianti la brava vocalist si diverte a modulare la propria voce con diverse tonalità. La conclusiva title track parte lenta e minacciosa con la voce della cantante ancora in una versione clean e francamente più personale e accattivante, anche quando fa stridere le sue corde vocali. Certo, nella prima parte del brano siamo più su di un versante alt rock, ma poi i nostri decidono di pestare sull'acceleratore, tornano death e perdono quel quid caratterizzante che sembrava renderli un po' più diversi da quel milione di band che popola l'underground musicale. Sono confuso, visto che trovo la band canadese ben più particolare nei frangenti alternativi. Date un ascolto anche voi e fatemi sapere qual è il lato che preferite maggiormente degli Anarcheon. (Francesco Scarci)

lunedì 25 ottobre 2021

Haley Bonar - Impossible Dream

#PER CHI AMA: Indie/Folk/Alternative
Un seducente eppure calibrato dream-folk più ("Jealous Girls" – insinuantemente lennoniana, non trovate?) o meno ("Hometown") sonnolento quello della cantante americana di nascita canadese che risponde al nome di Haley Bonar. Forse dalle parti di una Hope Sandoval che s'infila i calzettoni di lana; più ("Kismet Kill") o meno ("Called You Queen") rugginoso, più o meno alla Courtney Love che cerca il barattolo della schiuma da barba. Potreste individuare qua e là un certo fattonz-pop ultramodaiolo tipo Warpaint, specie nei momenti maggiormente guidati dall'elettronica: i Radiohead apotropaici di "I Can Change", i War on Drugs nello spremiagrumni di "Stupid Face". Prestate poi attenzione alla (eccellente) produzione, soltanto apparentemente semplice eppure sovente risolutiva e, spesso, riverberante (prendete ad esempio "Your Mom is Right" o ancora "I Can Change"), a conferire una profondità sonora inaspettata, soprattutto in cuffia. (Alberto Calorosi)

(Gndwire/Memphis Industries - 2016)
Voto: 75

https://haley.bandcamp.com/album/impossible-dream

The Big South Market - Muzak

#PER CHI AMA: Hard Rock
Si esordisce con un groove intimidatorio, compatto e rissaiolo, rintuzzato da semicelate evoluzioni batteristiche da vecchio thrashettone impenitente ("Big Deal"). Nella diametrale "Before (You Make it Deeper") invece languono sensazioni eminentemente alt-metal, forse per via del trattamento distorsivo riservato alla traccia vocale, forse per mero spirito di contrapposizione. Il resto dell'EP dirige la prua nella confortevole direzione di certo magmatico hard rock novantiano ("Moondrink"): a proposito della proposta dei The Big South Market, ve li ricordate ancora i Pride and Glory? Di certo blues suburbano riscaldato sul cucchiaino nella maniera, per esempio, degli Alice in Chains (ascoltate il mood di "Red Carpet" o la anagraficamente desertica "Desert Motel"). 'Muzak' è la musica per ambienti: musica da parrucchiera, da dentista, da ascensore, da centro commerciale. La musica di merda, insomma. Quella finalizzata unicamente a coprire il silenzio. 'Muzak' era una autorevole rivista indipendente di RPI. Segue un estratto dal manifesto culturale pubblicato sul numero 1 della rivista: "Con questa parola gli inglesi indicano la musicaccia. Quella di Orietta Berti. O Engelbert Humperdick. O David Cassidy. / ... / E perché no? Anche i Beatles. Anche quelli disguistosamente muzak di Michelle...". (Alberto Calorosi)

(Red Cat Records - 2016)
Voto: 50

https://www.facebook.com/thebigsouthmarket/

martedì 14 settembre 2021

Teal - Hearth

#PER CHI AMA: Alternative/Progressive Rock
La Bird's Robe Records prosegue la propria campagna di riedizioni questa volta con gli australiani Teal e il loro debut EP, 'Hearth', datato 2013. La proposta del quartetto originario di Sydney si rifà ad un alternative rock assai orecchiabile. Cinque le tracce a disposizione dei nostri per poter dire che, anche se vecchio di otto anni, questo lavoro rimane alquanto attuale. Ottime (e un po' ruffiane) le delicate melodie dell'opener "Solitaires", dove a mettersi in luce sono i vocalizzi di Joe Surgey, uno che strizza l'occhiolino, anzi l'ugola, al frontman dei Muse, con risultati peraltro più che soddisfacenti, e con la musica che si muove anche tra le maglie del prog rock, tra chiaroscuri emozionali, guidati proprio dalla voce di Joe e accelerazioni quasi ringhianti, che rendono la proposta davvero interessante. In "Don't Wake Up" non vorrei prendermi del pazzo, ma su di un tappeto post math rock, ci ho sentito dei vocalizzi addirittura alla Bono, con il sound sempre bello carico ma in continuo movimento tra trame più morbide e altre più potenti. Con "Raptor", il combo del Nuovo Galles del Sud, si propone con sonorità che richiamano ancora Matthew Bellamy e soci, anche se qui i Teal sembrano meno esplosivi che in precedenza, fatto salvo per il comparto solistico, breve ma efficace. Se parliamo di esplosività (ma pure creatività) non possiamo non citare "Voss": partenza acustica stile primissimi Pearl Jam, sound mellifuo guidato dalla voce di Joe e poi accelerazioni belle toste che si alternano a parti più atmosferiche ed intimiste con tanto di tremolo picking alle chitarre. In chiusura, la più oscura e meditabonda "Three Hours", che con i suoi costanti rimandi ai primi Muse, chiude degnamente una release che ai più, sono certo, fosse passata inosservata. Chissà che stanno combinando oggi i Teal, ora mi vado ad informare, voi nel frattempo ascoltatevi 'Hearth'. (Francesco Scarci)

(Bird's Robe Records - 2013/2021)
Voto: 73

https://tealband.bandcamp.com/album/hearth-ep

lunedì 13 settembre 2021

De Press – Block to Block / Product



#PER CHI AMA: Punk/New Wave
Parlare di una band che in un solo anno di attività ha lasciato il segno nella storia del post punk europeo non è compito facile. I detrattori potrebbero dire che non era tutta farina del loro sacco, che dentro alla loro musica, in un periodo temporale a cavallo tra la fine del punk e la nascente scena post punk/new wave di primi anni '80, c'erano mille richiami stilistici di altri gruppi ben più noti e le correnti che attraversavano le composizioni di Andrej Nebb (Andrzej Dziubek) e compagni si cullavano tra riferimenti punk alla The Blood, tensione esistenziale alla Warsaw, punk oi!, ska, dark rock, art punk berlinese emiliano alla CCCP, new wave alla Theatre of Hate e per l'appunto, tutto il nascente fenomeno post punk. La musica dei De Press del primo album, 'Block to Block', era evidentemente debitrice di tutte queste band ma con una particolarità stilistica che li rendeva padroni di una formula musicale unica di quel periodo, ossia un'attitudine naturale e una singolare capacità di inglobare in ogni loro composizione, tutti assieme i dogmi e i modi di fare più consoni, di tutte le altre band appartenenti a questo genere musicale tanto trasversale al tempo e tanto diverso da quello che oggi viene chiamato erroneamente post punk. I primi due dischi della loro sterminata discografia, sono stati ristampati e rimasterizzati con cura e ottima qualità, anche in formato vinile, dalla Apollon records. Per festeggiare il quarantesimo anniversario di 'Block to Block' ed il secondo 'Product', del 1982, registrato con la band ormai già sciolta e che vedeva il trio spostare il suo sound verso lidi new wave ancor più convincenti e vicini alla musica di The Sound e Joy Division, vengono oggi riportati alla luce nella loro totale bellezza, due album che sono entrati nella leggenda e che rendono il giusto omaggio ad un gruppo imperiale. Nato e cresciuto nel panorama sotterraneo norvegese, la band ha lasciato un segno indelebile nella storia musicale dell'epoca, in Norvegia e Polonia ma anche nel resto d'Europa. La band resa famosa anche dal canto inusuale in lingua pseudo inglese/polacco/norvegese, dal bassista e vocalist, musicista e rifugiato politico dalla Polonia in Norvegia, con 'Block to Block' ha ottenuto, in terra scandinava, il riconoscimento di miglior album rock del XX secolo. Due dischi fondamentali, colmi di rabbia, immediatezza stilistica, impegno sociale, politico e tanta ribellione, che non possono mancare negli scaffali di un estimatore del post punk tout court, alla pari di 'Hymns of Faith' dei Crisis, 'Always Now' dei Section 25 oppure 'Westworld' dei Theatre of Hate. La prima incarnazione dei De Press chiude la propria discografia con l'ottimo epitaffio discografico live, del 1983, dal titolo 'On the Other Side', che depone le armi del trio e ne affossa definitivamente l'attività artistica di quel periodo. L'attività musicale riprenderà solo un decennio più tardi, per continuare fino ai giorni nostri senza interruzioni, con una nuova formazione capitanata sempre dall'instancabile Andrej Nebb, che nel 1991 fa rinascere la band sotto una nuova veste musicale a metà strada tra musica folk della tradizione polacca, reminiscenze rock e protesta sonora alla The Fall, confezionando ad oggi un'infinità di opere musicali. Ma questa è un'altra facciata della storia dei De Press su cui poter ancora scrivere diverse pagine. Una band che è stata un culto dell'underground, un fenomeno venuto dal grande nord che pochi ricorderanno, ma che vale la pena rispolverare e ammirare ancora una volta. (Bob Stoner)