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lunedì 21 marzo 2022

Endless Dive - A Brief History of a Kind Human

#PER CHI AMA: Post Rock Strumentale
'Una breve storia del genere umano', ecco cosa ci vogliono raccontare i belgi Endless Dive in questo loro secondo album. Una storia iniziata nel 2016 con la pubblicazione dell'EP omonimo di debutto e proseguita nel 2019 con 'Falltime' e che arriva oggi a questo 'A Brief History of a Kind Human', un lavoro all'insegna di un post rock strumentale, contaminato da derive elettroniche e ambientali. Come quelle che si sentono nell'apertura affidata a "Blurred", una traccia che raccoglie fondamentalmente tutti i dettami del genere e li fonde in un'unica song, che si muove tra intriganti e arrembanti linee melodiche interrotte da un break ambient nel finale. Tutto molto interessante, ma lasciatemi dire, anche piuttosto scontato, questo perchè capisco già dove la band voglia andare a parare. Attenzione, questo non significa che i brani non siano ben suonati anzi, la title track attacca con sonorità quasi post punk ad esempio, ma poi va a finire nei classici anfratti post rock, quelli sentiti una miriade di volte e che ora stentano a conquistarmi. Il disco si muove su queste coordinate  per tutta la sua durata, evocando nei momenti più pesanti ("Elevator to Silence" ad esempio) i Pelican o pure i Cult of Luna. "Ingeborg" è invece un breve intermezzo acustico, mentre "Archimboldi" divampa con tutta la sua imprevedibile furia hardcore che evolverà dopo 90 secondi in suoni ben più tiepidi e nuovamente votati ad un post rock intimista prima di tornare a ingranare la marcia a 90 secondi dalla sua fine. Ipnotico il gioco di chitarre di "Tropique Triste", ma in tutta sincerità, non mi ha entusiasmato più di tanto. Ancora linee di basso post punk nella conclusiva "Au Revoir" e forse queste finiscono per essere gli elementi che più ho apprezzato in questo disco che necessita di una ancor più elevata dose di personalità per prendere le distanze da un filone che dir saturo è dir poco. (Francesco Scarci)

giovedì 17 marzo 2022

Megadeth - Dystopia

#PER CHI AMA: Speed/Thrash
Un megariffing speed-thrash monocromatico e acefalo infarcito di scale originali quanto una barzelletta raccontata da Malmsteen; cetriolate di basso-batteria praticamente ogni volta che si può e, per incorniciare il tutto, la consueta perizia vocale degna di un camallo portuale scagazzato da un gabbiano. La formula, inspiegabilmente vincente da oltre trent'anni, è destinata stavolta a funzionare (invero egregiamente) per un periodo non superiore ai primi trenta secondi di "The Threat is Real". Il resto di questo scialbo 'Dystopia', verosimilmente assemblato ad esclusivo appannaggio dell'autore, ha l'unico scopo di rendere noti l'opinabilissimo concetto mustainiano di melodia ("Poisonous Shadows"), il discutibilissimo concetto mustainiano di classic rock ("Post American World") e l'eccepibilissimo concetto mustainiano di surf-punk ("The Emperor"). Un lavoro che vi suggerisco di mettere nel vostro lettore come soundtrack della prova finale dei campionati mondiali di sbadigli. (Alberto Calorosi)

(Tradecraft - 2016)
Voto: 50

https://www.facebook.com/Megadeth

Delirium - L'Era della Menzogna

#PER CHI AMA: Prog Rock
Sensibili oggi come allora a certe suggestioni contemporanee, i Delirium pubblicano un concept sui mali del mondo moderno tematicamente affine a 'Lo Scemo e il Villaggio', forse persino più sdegnoso, ma dal respiro decisamente più ampio e trasversale per stili musicali e riferimenti temporali. Chitarrismi rocciosi Thrak-crimsoniani flirtanti con certo prog-metal alla Tangent e Transatlantic ("L'Inganno del Potere"), trascinanti inni incazz-folk a metà tra la PFM in tour con De André e l'Eugenio Finardi più muscoloso ("Fuorilegge"), ma anche sciagurati scivoloni trip-pop in aroma di BMS anni ottanta ("L'Angelo del Fango"), poi ancora i Toto non-troppo-Lukateriani di "Basta", i Genesis dopo-che-sono-rimasti-in-tre de "La Voce dell'Anima", o la rabbiosa "L'Era della Menzogna" che dà il titolo al lavoro e che suona proprio come suonerebbe una "You Can Leave Your Hat On" eseguita dai King Crimson di 'Red'. Se avete fretta, potete cominciare con la conclusiva "Il Castello del Mago Merlino", che riassume mirabilmente tutto questo, con in più un pizzico di Porcupine Tree e l'immancabile chitarrismo "gilmouriano" a sfumare il maestoso finale. Oppure potete lasciare perdere: il prog italiano non fa per voi, se siete gente che ha fretta. (Alberto Calorosi)

(Black Widow Records - 2015)
Voto: 63

https://www.facebook.com/DELIRIUM-IPG-654167274667891/

domenica 13 marzo 2022

Archvile King - À La Ruine

#PER CHI AMA: Black/Thrash, Windir, Aura Noir
Della serie "quando non so cosa fare creo una one-man-band", ecco arrivare l'ennesima proposta dalla Francia con il classico polistrumentista a offrire la sua visione black del mondo. Lui si chiama Nicolas N. Baurus e arriva da Nantes con il suo progetto Archvile King, supportato dalla ormai super potenza Les Acteurs de l'Ombre Productions. 'À La Ruine' ci spara in faccia otto pezzi nudi e crudi che sembrano rievocare i fasti norvegesi della fiamma nera degli anni '90. Strana la scelta di aprire però con "Chroniques du Royaume Avili", un pezzo fuorviante dove figura la delicata voce di una gentil donzella, per poi lasciare spazio alla furia black di "Mangez Vos Morts" (incentrata sul tema della peste causata dalla perdizione morale del genere umano), sparata a tutta velocità su incandescenti e marcescenti linee di chitarra zanzarose che disegnano trame elementari piuttosto melodiche nel loro incedere travolgente. La cosa si ripete anche nella successiva "Celui Qui Vouvoie le Soleil", con un black thrash che certamente poco aggiunge al panorama odierno, ma che francamente trovo gradevole per le sue melodie ed un equilibrato uso di violenza e di una certa epicità. Magari le grim vocals del frontman non saranno il massimo ma il disco si lascia ascoltare con una certa facilità, complice anche qualche break acustico qua e là che ci consente il tempo di rifiatareo e rigettarci poi nella mischia. "Atroce" attacca con una certa placidità tra un riffing in sottofondo pronto ad esplodere dopo un minuto di attesa. Poi, solo furia estrema che in questo caso ammetto non mi abbia granchè conquistato. I ritmi continuano ad essere vertiginosi anche in "Dans la Forteresse du Roi des Vers" (interessante l'epico ma breve assolo in chiusura di scuola Windir) e, saltata la semiacustica e strumentale title track, anche nelle tumultuose (e dal piglio post-black) "Vêpre I" e "L'Artisan", altri due esempi di melodia messa a disposizione di una ferocia inaudita che pecca, a dire il vero, di carenza di originalità. Se i brani sin qui erano stati cantati in francese, c'è spazio anche per una bonus track in inglese, "Cheating the Hangman", un pezzo che a livello ritmico potrebbe essere accostabile ai Megadeth con lo screaming black, stile Aura Noir per intenderci. Insomma, in 'À La Ruine' sento buone idee (soprattutto nella prima metà del disco) che trovano però più di qualche limite in fatto di originalità, un tema su cui lavorerei maggiormente nel prossimo futuro per evitare di essere risucchiati in quel vortice infinito di band che propongono un canovaccio più o meno simile. (Francesco Scarci)

(LADLO Productions - 2022)
Voto: 66

https://archvileking.bandcamp.com/album/la-ruine

sabato 12 marzo 2022

Koffinsurfer - S/t

#PER CHI AMA: Doom Acustico
Avete mai sentito parlare di doom acustico? Io prima di oggi francamente mai mi ero imbattuto in questo genere di sonorità, ma grazie ai Koffinsurfer, ho avuto la fortuna di sperimentare questa musicalità controversa. Di che cosa si tratta? Banalmente, di una porzione acustica su cui si collocano le growling vocals del mastermind dei nostri, con qualche effetto dronico a corollario della proposta di questa band (un duo a quanto pare), di cui ho trovato poco o nulla sul web, fatto salvo che sembrerebbe essere un side-project di un'altra entità, i Cikuta, di cui non ho trovato nulla, quindi siamo punto e a capo. "Barndomsminne fra Nordland", l'angosciante "With Hooks and Hammers" e la sussurrata "When The Grey Storms Fall" costituiscono alla fine il trittico di pezzi che fanno a capo a questo elegante 7" omonimo. Il pezzo che più ho gradito di questo inedito trio, è stato quello che chiude il dischetto, complice una interessante progressione acustica ed una certa vena selvaggia nel dare i colpi di plettro alla chitarra, quasi ad evocare i Nirvana più incazzati del loro 'Unplugged in New York', con una voce che però arriva direttamente dall'oltretomba. Riuscite solo ad immaginarli? Dubito, pertanto fareste meglio a dare una chance ai Koffinsurfer. (Francesco Scarci)

(Bad Road Records - 2016)
Voto: 70

https://badroad.bandcamp.com/album/koffinsurfer

Juice Oh Yeah - S/t

#PER CHI AMA: Prog/Psych Rock
Con un moniker del genere, era quasi lecito aspettarsi una proposta all'insegna dello psych stoner rock. Ci pensano i Juice Oh Yeah a prenderci per mano e trascinarci nel loro visionario mondo di questo secondo disco omonimo che giunge a sette anni di distanza dalla precedente release. L'album consta di cinque song che esplodono con l'iniziale "Rels" in un riffing ipnotico con una dinamica intrigante e avvolgente, fatta anche di vocalizzi antemici e pulsanti linee di basso, con la chitarra che sembra guidare questa cavalcata in costante progressione sonica. "Dnaa" parte invece decisamente più soffusa, con una melodia che sembra provenire dall'estremo oriente. Il brano si presenta comunque assai variegato, con break atmosferici dove compare una misteriosa voce in sottofondo e accelerazioni stralunate che alterano, in modo positivo, l'incedere musicale. Se la durata dei precedenti pezzi oscillava fra i quattro e i sei minuti, con "Mane" si arriva a superare i 12, grazie a sonorità prese in prestito questa volta dalla tradizione medio-orientale. È lungo l'incipit che introduce il cuore di una song che ha più le movenze di una danza a lume di candela piuttosto che di un brano elettrificato, con tanto di vocals in grado di adattarsi a tali sonorità. Poco prima del quinto minuto, finalmente fanno la loro apparizione le chitarre elettriche, mentre il drummer si sbizzarisce in una fantasiosa percussione. Ma il ritmo del brano è costantemente altalenante, visto che al settimo minuto sembra che uno spettro funeral doom si impossessi del duo di musicisiti, originari di San Pietroburgo. Ma da qui alla fine le cose avranno modo di cambiare ancora, con quell'organo che sembra evocare The Doors e compagni. Arriva anche il momento di "Poleno" e sulle note strafatte dell'intro, ecco una vocina in falsetto a fare la propria comparsa, mentre il sound deve sempre compiere un paio di giri di lancette d'orologio, prima di decollare questa volta con un volo che ci porta direttamente in mondi distorti e psicotici. La conclusione del cd è affidata alle note di "Vnyz", un pezzo che non fa certo della scontatezza il suo verbo, semmai sembra più il frutto di una jam session tra artisti appartenenti a più scene musicali, dall'heavy metal al doom, passando dallo stoner e dal prog di scuola King Crimson (con tanto di tromba in primo piano a metà brano), il che sottolinea la stravagante originalità della proposta di questi Juice Oh Yeah. (Francesco Scarci)

(Addicted Label - 2020)
Voto: 75
 

venerdì 11 marzo 2022

Pia Fraus - Now You Know It Still Feels The Same

#PER CHI AMA: Shoegaze/Dream Pop
Dovevano celebrare i 20 anni passati dal debutto del loro primo full length e così hanno pensato bene di cimentarsi in una nuova compilation di brani che furono semplicemente scritti, qualche tempo prima di quell'album che gli fece iniziare una splendida carriera musicale. Il dream pop è un genere astratto, amato da persone miti e tenaci che vogliono raccontare e ricercare altri stati di coscienza, è psichedelia a tutti gli effetti, con la costante sentimentale sempre in prima linea e se poi riuscite ad immaginarne un punto di contatto con il post rock e le teorie del rock alternativo, come risultato otterrete la formula sonora dei Pia Fraus, a mio avviso la band estone più anglosassone che esista in Estonia. La musica di questa band ha sempre mantenuto nel tempo i suoi elevati standard di fantasia e composizione, una buona originalità, un lato sognante assai spinto e dopo un cospicuo numero di uscite di carattere, sono approdati a questa compilation di brani intitolata 'Now You Know It Still Feels The Same' che aiuterà il pubblico a conoscerli meglio, anche se credo che capolavori come 'That's Not All' o 'Nature Heart Software' del 2006, non si possano proprio ignorare in ambito shoegaze, dream pop o soft psichedelia. Il mix proposto dalla band è frutto di numerose associazioni sonore tra i quali i My Bloody Valentine, di cui si appropriano il suono delle chitarre, i Cocteau Twins degli ultimi lavori da cui traggono un'attitudine cristallina ed eterea, gli immancabili Medicine con un pizzico di Lush, ed anche una velata ammirazione per l'ipnosi elettronica dei Seefeel di 'Quique' ed il pop incantato dei Broadcast. Con un'orecchiabilità da far invidia, i Pia Fraus si rendono capaci di atmosfere surreali che si espandono tra chitarre lisergiche, distorsioni di scuola Kevin Shields e doppia voce, maschile e femminile, di carattere estatico che ci accompagnano in un viaggio a ridosso del sole. Questa compilation li rappresenta bene, anche se il loro repertorio è talmente vasto e sfaccettato, che un insieme di canzoni così, può solo dare una piccola idea di quella che è la reale portata di questa band, nata dalla voglia di un gruppo di adolescenti, che hanno deciso di fare musica indipendente partendo dal nulla. 'Now You Know It Still Feels The Same' è un gran bel disco, con tutti i connotati che servono ad un album shoegaze per essere ben accolto dagli ammiratori di questo tipo di sonorità ed i tre brani che fanno d'apertura al disco, "How Fast Can You Love", "Obnoxious" e "Moon Like a Pearl" sono uno splendido biglietto da visita per questa band tutta da riscoprire. Ascolto consigliato. (Bob Stoner)

mercoledì 9 marzo 2022

Crawl - 30 Year Suicide

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Ancora suoni marcescenti, un altro 7" con cui giochicchiare nel mio giradischi, un'altra band dagli US e un'altra manciata di pezzi marchiati Bad Road Records. Questo giro ce ne andiamo ad Atlanta a conoscere i Crawl e il loro '30 Year Suicide' del 2017. Dicevo della marcescenza della proposta e il side A del dischetto propone la funerea "Pornography of Grief": ritmica doomish, lenta e ossessiva, sorretta da uno screaming bestiale per un sound minimalista almeno fino a quando a scoccare la freccia è un brillante assolo che rende il tutto quasi più accattivante e digeribile. Sul lato B, la title track e una chitarra super riverberata apre un'altra indolente discesa negli inferi, con il Caronte di turno (e una voce qui dalle sembianze gutturali) a guidarci nel viaggio. Il tutto è davvero flemmatico e poco avvincente a essere onesti, fino al quinto minuto quando finalmente la ritmica aumenta il passo quasi a deflagrare, ma siamo ormai a poco più di un minuto dalla fine. Troppo tardi e un'occasione sprecata, considerata l'esigua (11 minuti) durata del disco. (Francesco Scarci)