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lunedì 17 dicembre 2018

Nereide - S/t

#PER CHI AMA: Post Metal
Solo quattro pezzi per farsi notare e giocarsi le proprie carte. Ecco i Nereide e il loro EP d'esordio omonimo. Un dischetto che si apre col parlato di "Mindful", una traccia che sottolinea immediatamente le qualità del trio pugliese che si muove con disinvoltura attraverso un post rock intimista, caldo quanto basta per abbassare le nostre difese e farsi avvolgere dalla strumentalità di una song che gioca e successivamente soggioga, con un bel lavoro alla sei corde, prima tra riverberi e ridondanti giri di chitarra, e poi punisce con accelerazioni improvvise dal forte sapore post black. In "The Wave", compare la voce del frontman Roberto Spels, un ibrido tra Fernando Ribeiro dei Moonspell e Peter Steele dei Type O Negative, a fare da contraltare ad una ritmica melodica e dal forte impatto darkeggiante, in cui a guidare il tutto c'è sempre la chitarra ben ispirata del buon Roberto, accompagnato in questo viaggio da Cosimo Barbaro (basso) e Giacomo Scoletta (batteria). La musica qui non va mai oltre i confini del dark/post rock e risulta alla fine assai gradevole. Di ben altra sostanza invece "Surmise", che sembra scollegata dagli altri due pezzi, e mostra sia a livello ritmico (decisamente più pesante) che vocale (qui Roberto canta con un growl graffiato), le potenzialità del combo italico nel cimentarsi in territori post metal ma anche dotati di venature progressive, come palesato nella sezione solista del brano stesso. A chiudere i giochi arriva "Polars", una song strumentale, meno sognante della prima metà del cd, che sembra riflettere il carattere più nervoso sostenuto dalla precedente "Surmise". Diciamo che 'Nereide' alla fine è un buon modo per affacciarsi nel mondo musicale e che quello dei Nereide per il momento sembra un cantiere aperto alla ricerca dei giusti incastri da offrire in futuro. (Francesco Scarci)

(Karma Conspiracy Records - 2018)
Voto: 70

https://nereide.bandcamp.com/album/nereide-3

Bölthorn - Across the Human Path

#PER CHI AMA: Viking/Death, Amon Amarth, Manegarm
Pronti a sfoderare la vostra spada e a brandirla in cielo? Col debut album dei parmensi Bölthorn, 'Across the Human Path', dovrete prepararvi infatti ad affrontare la battaglia insieme ai nostri nuovi amici vichinghi. E quando si parla di viking, il primo nome che viene alla mente è inevitabilmente quello degli svedesi Amon Amarth, fonte d'ispirazione numero uno per il trio di Parma. Nove le tracce a disposizione per convincerci della bontà della loro proposta che da "Sentinel" (tralascio la battagliera intro) alla conclusiva "The Kaleidscope", ci terranno compagnia per tre quarti d'ora di musica, che pur non proponendo novità alcuna, si lascia comunque ascoltare con piacere. Dicevo di "Sentinel", una song ritmata di scuola svedese, costituita da ottime melodie e da un dualismo vocale che si muove tra il growling e il cantato epico nei cori. Più thrash/death oriented a livello ritmico è invece "For Honor", un pezzo che vanta una bella melodia dotata di un certo piglio malinconico in sottofondo, sorretta da un muro di chitarre che trova anche improvvise accelerazioni furibonde, ma che continua comunque a solleticarmi i sensi per quel suo epico refrain. "Thor", come preannuncia il titolo, deve essere un omaggio alla divinità della mitologia norrena. La musica è potente quanto il dio del tuono e l'arrembante lavoro di chitarra, batteria e basso, rende merito ad una song davvero interessante. Un po' meno convincente, almeno nella prima metà, è invece "Curse of Time", song che suona un po' sconclusionata sebben vada lentamente migliorando in un finale un po' più guerreggiante. "Warriors" parte in modo più cauto, anche qui c'è una bella melodia dalla forte vena malinconica, che mi ha rievocato per certi versi, la title track di 'Once Sent From the Golden Hall' dei già pluricitati Amon Amarth, certo manca la classe che contraddistingue la band svedese, ma i tre emiliani sono decisamente sulla strada giusta. Sia chiaro che sarà necessario lavorare su una maggior ricerca di originalità, è il minimo richiesto d'altro canto per poter emergere dalla massa. Il disco va un po' calando la propria qualità verso il fondo: se "Midgaard" è un brano ancora apprezzabile per robustezza (e per le sue melodie parecchio orecchiabili), è con le conclusive "The Lair of the Beast" e "The Kaleidscope" che i nostri perdono un po' di verve: la prima secondo me merita esclusivamente per quell'accelerazione post black che il trio si concede a metà brano, mentre nell'ultima, la band sembra arrivare svuotata di idee. Alla fine 'Across the Human Path' è un buon disco per appassionati di battaglie, mitologia vichinga e de 'Il Trono di Spade': tuttavia le sue note riportano ancora la dicitura "lavori in corso". (Francesco Scarci)

(Broken Bones Records - 2018)
Voto: 70

https://www.facebook.com/Bolthornband

domenica 16 dicembre 2018

Svältfödd - King of the Burial Mound

#PER CHI AMA: Black/Death, Sarcasm
Si sa ben poco di questi Svältfödd, se non che arrivino dalla Svezia, da una cittadina non troppo distante da Stoccolma, chiamata Eskilstuna, che ha dato i natali a Daniel Gildenlöw, vocalist dei Pain of Salvation. A parte queste nozioni generali, 'King of the Burial Mound' rappresenta l'EP d'esordio dell'act scandinavo, che nelle cinque tracce qui contenute, si fa promotore di un black/death melodico. La title track, posta in apertura di cd, parte incalzante con le classiche ritmiche serrate, coadiuvate da diaboliche vocals ed un'impianto ritmico che va via via normalizzandosi, trovando anche dei rallentamenti piuttosto insoliti. Diciamo che non siamo di fronte a nulla di sensazionale, un pezzo che si lascia ascoltare e che raccoglie forse maggiore attenzione in un epilogo più rilassante. Molto meglio "Bloodsoaked Invocation", sempre bella tirata ma con le harsh vocals del frontman qui più convincenti e le linee di chitarra melodiche in linea con gente del calibro di Sarcasm o Dissection, anche se si sente più forte una venatura death metal che si farà più rimarchevole nella terza "Suicidal Rites" Quest'ultima è una song che sta in bilico tra thrash, death e black metal, in cui i gorgheggi del vocalist si fanno più cupi, proprio per essere in linea con la matrice sonora della band. "To Question the Word of God" vanta qualche richiamo alle linee di chitarra di Arch Enemy o Amon Amarth, anche se nelle scorribande più feroci, il black torna a farsi largo spazio, con lo screaming ad affiancare il growl. Diciamo che la band mi convince maggiormente però quando si lascia andare in mid-tempo o come accade in questa song, dove sembrano addirittura dar spazio ad una porzione solistica. Il disco volge al termine e lo fa con "Pestilential Whore", l'ultima scorribanda death black di una band che deve assolutamente crescere perché ha tutti i mezzi per poterlo fare e lo testimonia anche l'assolo con bridge annesso, che va a rievocare anche qualcosina dei Death, mica poco. Alla fine la proposta degli Svältfödd non è male, va semplicemente meglio inquadrata e messa più a fuoco, le potenzialità ci sono testimoniate dalla buona capacità tecnica dell'ensemble scandinavo. Serve coraggio però, il compitino rischia di non bastare più. (Francesco Scarci)

The Subliminal - Relics

#PER CHI AMA: Metalcore, Gojira
Dall'Olanda con furore, mi verrebbe da dire. A crearci qualche fastidio sonoro oggi, ci pensano i The Subliminal (da non confondere con gli ecuadoreñi omonimi) e il loro EP d'esordio, 'Relics', che segue un paio di singoli rilasciati tra il 2016 e il 2017. Finalmente è arrivato il momento di dimostrare la pasta di cui sono fatti questi quattro ragazzi di Utrecht, spesso indicati come epigoni di Gojira o Lamb of God. E allora cerchiamo di dissipare un po' di nubi e dire che i cinque pezzi contenuti in questo disco, pur soffrendo di qualche influenza proveniente dalle band sopraccitate, e penso all'opening track "Lowlife", mostrano, rispetto agli originali, un sound marcatamente più cupo. Certo, molti avranno da obiettare che la proposta dell'ensemble olandese è ancora un po' acerba, ma mio nonno diceva che "nessuno nasce imparato". E allora facciamoli crescere questi quattro musicisti e noi accompagnamoli nella loro crescita personale, godendo delle melodie e del groove, che comunque permeano i loro brani. "Defiance" è più roboante dell'opener, complici le chitarrone trituraossa e il vocione in formato growl di Milan Snel, ben più efficace però - e dove peraltro lo preferisco - nel cantato pulito. I nostri martellano che è un piacere, trovano tuttavia modo di spezzare il loro incedere feroce con un bel break melodico accompagnato dalle vocals a tratti ruffiane, ma estremamente accattivanti del frontman, che vanno via via migliorando nel corso di un brano che gode di notevoli cambi di tempo. Più dritta, ma in realtà solo nella prima parte, la terza "Unforeseen Demise", visto che la band si dimostra più intrigante nella seconda metà del pezzo, laddove ad un sound in your face, privilegiano un bel po' di cambi di ritmo (qui quasi dal sapore deathcore), ma c'è ancora tempo per lavorare e smussare gli angoli. Come quelli che ritroviamo in "Sleepwalkers", un altro pugno nello stomaco, che parte direttissima per poi divenire decisamente più ritmata, manco fossero i Pantera di "Walk". E poi giù di nuovo di mazzate, per un lavoro dietro la batteria davvero notevole. Ribadisco però che l'act tulipano riesce meglio dove i tempi sono più ritmati e il suono più ricercato. In chiusura, "Final Ordeal" è un'altra cavalcata dal forte sapore thrash metal in stile Testament/Exodus, rotta da ambientazioni melodiche e da un bel chorus che funge da ciliegina sulla torta per un EP che merita un po' della vostra attenzione, non fosse altro che potreste scaricare un po' della rabbia che questi giorni di festa inevitabilmente generano. (Francesco Scarci)

venerdì 14 dicembre 2018

Haiduk - Exomancer

#PER CHI AMA: Black/Death
Gli aiduchi erano formazioni di combattenti mercenari dell'area balcanica che furono impegnati nella resistenza contro l'impero ottomano a partire dal XVI secolo. C'è chi crede che la parola derivi dal turco haiduk per indicare i soldati di fanteria dell'esercito d'Ungheria o chi pensa che derivi dal magiaro per definire i mandriani. Ringraziando come sempre wikipedia, ci avviciniamo alla band di oggi, che ha scelto proprio questa parola come moniker. Si tratta della one-man band canadese degli Haiduk appunto, guidata dal factotum Luka Milojica, guarda caso un cognome che rimanda inequivocabilmente a quell'area geografica. E in assonanza col tema trattato, anche la musica di 'Exomancer', sembra voler ricalcare la veemenza dei temi bellici con un sound all'insegna di un oscuro death black. La contraerea sparata dall'opener "Death Portent" ne è la prova: ritmiche frenetiche, instabili e discordanti, con stop'n go che sembrano dettare i tempi di marcia dell'esercito contro il nemico. Le soffocanti growling vocals sono episodiche, largo spazio infatti è lasciato alla musicalità debordante del mastermind di Calgary. Lo stesso dicasi della seconda "Unsummon", ma più in generale di tutto l'album: la song è breve e sotto l'impianto estremo, mi sembra di captare un che di folkish mediorientale che potrebbe, ma solo lontanamente, evocare i vari Melechesh, Akhenaten o Arallu. Le progressioni di chitarra (contraddistinte da suoni ribassati) sono assai interessanti cosi come i tecnicismi messi in atto dal frontman canadese a stupire l'ascoltatore con il suo tumultuoso lavoro ritmico. "Evil Art" e "Subverse" ne sono chiari esempi: song dalle brevi durate che sembrano descrivere la furia della battaglia, e l'altalenante sviluppo dei brani a delinearne l'esito da una parte o dall'altra delle forze in campo. Sicuramente c'è uno studio dietro a questo flusso sonico continuo che non dà tregua e sembra voler imporre l'ascolto del disco tutto di un fiato. Sarebbe in effetti un peccato interrompere l'incedere distruttivo di tale lavoro. "Icevoid Nemesis", "Doom Seer" e via via tutte le altre, arrivano come una grandinata nel deserto, con le melodie del buon Luka (a cui suggerirei solo un aggiustamento a livello vocale) sempre in primo piano a dipanarsi tra accelerazioni paurose, trame dissonanti quanto mai tremolanti e momenti più claustrofobici, come nella morbosa "Once Flesh". Esausti, con le ossa triturate, si arriva alla conclusiva "Crypternity" che chiude con le sue ipnotiche chitarre un lavoro sicuramente interessante. Non ho ancora avuto modo di ascoltare i precedenti album degli Haiduk per stabilire pregi e difetti di 'Exomancer' rispetto al passato, però mi posso permettere di dire che l'album numero tre del musicista canadese, merita sicuramente una possibilità. (Francesco Scarci)

mercoledì 12 dicembre 2018

Opera IX - The Gospel

#PER CHI AMA: Esoteric Black Metal
Quando penso al black metal in Italia, mi vengono in mente tre band: Mortuary Drape, Necromass e Opera IX. Oggi siamo a celebrare l'agognato come back discografico di questi ultimi, che per rilasciare un nuovo album, ci impiegano da sempre, un bel po' di tempo. Avevamo aspettato otto anni dal poco ispirato 'Anphisbena' a 'Strix - Maledictae in Aeternum'; questo giro, ci accontentiamo di soli sei anni per dare il benvenuto a 'The Gospel'. Per chi si fosse distratto nel frattempo, sappiate che dietro al microfono di questo disco non c'è più Abigail Dianaria, che bene aveva fatto nel corso della sua militanza nell'ensemble piemontese. È approdata infatti negli Opera IX, Dipsas Dianaria, all'anagrafe Serena Mastracco, cantante romana (peraltro di molteplici formazioni black), di indubbio talento. E allora diamo un ascolto a come si è evoluto il sound dei nostri in questo lungo lasso di tempo. Le danze si aprono con la title track che mi riporta in un qualche modo agli esordi della band, complici quelle atmosfere orrorifiche che popolavano i miei incubi notturni ai tempi di 'The Call of the Wood' o 'Sacro Culto'. L'impatto non è affatto male, soprattutto perchè quella primigenia aura sinistra della band, pervade l'intero brano, mentre la voce maligna di Dipsas Dianaria, accompagna quelle esoteriche orchestrazioni che caratterizzeranno tutto il lavoro. Il clima si fa più tetro nella successiva "Chapter II", con un sound che ammicca alle vecchie composizioni dei nostri ai tempi di 'The Black Opera', e un riffing qui più nervoso e meno melodico rispetto al passato, che in taluni passaggi sfiora addirittura il post black nel suo infernale avanzare, e che arriva a toccare anche le partiture gotiche tanto care ai Cradle of Filth. Non mi dispiace affato, anche se per forza di cose, suona come già sentito. Peccato poi che la feroce cantante non riesca ad offrire, almeno fino a questo momento, variazioni alla sua voce, come era invece solita fare l'ineccepibile Cadaveria. Certo non si vive solo di passato, però francamente il pulito della storica cantante, aiutava non poco a caratterizzare il sound di Ossian e compagni. Ora ci troviamo di fronte ad un sound arrembante, estremo, con meno sbavature rispetto al passato e che dà maggior risalto alla porzione sinfonico-vampiresca con "Chapter III", dove finalmente emerge la peculiarità della vocalist, con una preziosa prova in pulito che rende qui la proposta degli Opera IX decisamente più ammaliante e magica, e dando contestualmente più ampio spazio ad ambientazioni mistiche ed arcane. La sacerdotessa alterna uno screaming ferale ad un cantato quasi cerimoniale, mentre le ritmiche si confermano tesissime, quasi un black primordiale, la cui irruenza viene stemperata dalle sempre invasive keyboards. "Moon Goddess" è la riprova che certifica l'adeguatezza vocale della neo arrivata all'interno della band: la musica si muove su linee di black sinfonico che mantengono comunque inalterate le linee serrate di chitarra, che molto spesso sembrano virare verso lidi death metal. Un assolo a metà brano aumenta il mio interesse per la release che ora suona anche più varia. Più lenta e poco originale "House of the Wind", una traccia anonima di cui avrei fatto volentieri a meno. Ben più interessante invece "The Invocation" e le sue tastierone in apertura, sparate a mille all'ora nel roboante impianto ritmico dei nostri, che vanno lentamente ritraendosi per lasciar posto ad un approccio ritmico dal sapore quasi militaresco. "Queen of the Serpents" è un inno dedicatao alla dea Diana che nel suo fosco e disarmonico incedere black doom, si lascia ricordare più che altro per il il chorus in italiano, e per l'utilizzo di strumenti ad arco, a cui avrei dato francamente più spazio, un esperimento alla fine mezzo riuscito. Arriviamo agli ultimi due episodi del disco, "Cimaruta" e "Sacrilego". La prima apre con i bisbigli della vocalist che torna ad incantarmi col suo cantato pulito, e ad una ritmica che si muove sui binari di un black death melodico ed orchestrale. La seconda è l'ultima tirata black di questo 'The Gospel', un rito negromantico, un incantesimo, un inno funerario (che chiama in causa anche il buon Chopìn) che sancisce il ritorno di una grande band sulle scene, da cui però è sempre lecito aspettarsi molto di più. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2018)
Voto: 75

https://dusktone.bandcamp.com/album/the-gospel

martedì 11 dicembre 2018

Hazards of Swimming Naked - Take Great Joy

#FOR FANS OF: Post-Rock, Godspeed You! Black Emperor, Mogway
This melodic Australian post-rock album is a joy for the people who like to dream during their listenings, a delightful piece of harmonious music, a work almost wordless except for the nostalgic and sweet remake of the Icelandic lullaby "Sofðu Unga Ástin Mín" where a female voice lulls fear and anger, letting us dive into a lake of peace and hope. Hazards of Swimming Naked reveal in this 2018 their second album, almost nine years after their debut ‘Our Lines are Down’ and promise to launch a tour starting apparently from the 15th of December 2018. This latter release is one of those albums that make me thankful to write music reviews, in a bunch of unknown artists this Brisbane’s collective switch a light on and illuminate my boring afternoons, a breathing proof that a singer is not necessary to compose a great rock album. What I liked the most is for sure the sensation of resonance and nostalgia played by the brilliant arpeggios, the feeling of an enjoyable sadness orchestrated by pieces of trombones, arches and bells. ‘Take a Great Joy’, in conclusion, is a sweet electric fable, one of these tales that we never want to stop listening: an epic announcement in "There Was Never a Right Time", an adventurous development in "Waiting for 5120", a breakdown in "Curtis", a mysterious ascent in "I Don’t Know This Road", a reflexion in "This Common Thread" and, in the end, an inevitable advice: "Accept the Mystery". Well done mates! (Pietro Cavalcaselle)

Rings of Saturn - Embryonic Anomaly

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Deathcore/Techno Death
Il vocalist Peter Pawlak passa dal growl simil maiale-sgozzato-con-un-grosso-fermacarte allo screaming tipo pitbull-malauguratamente-attaccato-al-tuo-polpaccio con la medesima disinvoltura con la quale il giallino diventa marronechiaro nelle mutande di un metallaro accampato da quattro giorni al Wacken Open Air. Il batterista Brent Siletto passa con altrettanta animalesca disinvoltura dal trrrrr velocissimo al trrrrr ancora più velocissimo al trrrr ancora più veloce dell'ancora più velocissimo. Il chitarrista Lucas Mann passa dai ghghgh-ismi ai laserchitarrismi con la disinvoltura con la quale il sottoscritto, notoriamente afflitto da sindrome di Tourette, passa dall'espressione "colgo l'occasione per porgerle i miei più cordiali saluti" appena prima di riattaccare all'espressione "mavaffan*ulo stron*odim*rda porcodun*io di quella puttanama*onna" subito dopo aver riattaccato. L'alien-prog "Seized and Devuored", in apertura, risulta l'unica canzone vagamente intelligibile. Il deathcore manieristico di "Grinding of Internal Organs" è inopinatamente introdotto da un suono dichiaratamente ottobìt. Forse reminscenze di una vecchia versione di Guitar Hero che girava su Commodore 64? (Alberto Calorosi)

(Unique Leader Records - 2011)
Voto: 45

https://www.facebook.com/RingsofSaturnband/