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martedì 24 luglio 2018

Progenie Terrestre Pura - StarCross

#PER CHI AMA: Extreme Avantgarde
Il nuovo EP dei Progenie Terrestre Pura (PTP) è un concept album che esce dalla mente di Davide Colladon, mastermind del progetto PTP fin dalla sua nascita e che in questo nuovo 'StarCross' vede il sound della band prendere una piega evoluta in un senso molto cinematografico. Non che questa propensione mancasse nella band fin dalle prime release, ma qui emerge proprio il tratto e la volontà di ragionare in stile propriamente da soundtrack. Sviluppato come in una saga spaziale, qui il protagonista sfida l'infinito all'inseguimento di un segnale sconosciuto, vagando nello spazio alla ricerca di questo contatto, e la sua colonna sonora non poteva che essere buia, sconsolata e cosparsa di momenti terribili e pieni di insidie. Con l'uso sapiente del black metal, l'industrial e alcune soluzioni thrash metal, qui ci si avvicina alla concezione di un metal intergalattico a cui sta stretta la gabbia di metal stesso e che aspira a divenire opera musicale vera e propria. La senzazione di intraprendere un viaggio verso l'ignoto è palpabile e reale, con trame space/horror importanti e l'introduzione di un ambient cupo e dilatato, su tappeti ritmici sintetici cari al settore harsh/EBM, con voci etno/ancestrali in sottofondo ed un cavernoso cantato violento che funge da nero Cicerone che rincara la drammaticità e la sensazione di incapacità verso la giusta scelta da fare da parte del protagonista di quest'avventura. Il disco si ascolta con sommo piacere scorrendo veloce nei suoi lunghi cinque brani (per circa una trentina di minuti) e, a dispetto dei suoi predecessori, porta una vena sci-fi più accentuata, del resto dicevo, è da vedere come vera e propria colonna sonora di un film di fantascienza, anche se l'impronta sonora rimane legata alla logica creativa di Colladon. Altra novità è poi l'abbandono della lingua madre nel cantato, a favore dell'inglese, con l'intento verosimile di raggiungere una platea più vasta, cosa che non stona affatto e rende giustamente più internazionale la proposta dei nostri a livello artistico (anche se li avevo ammirati particolarmente per il coraggio di usare l'italiano nei precedenti lavori). Immancabile la linea di paragone verso progetti sofisticati come Ulver o Solefald e l'insano esistere dei Borgne, ma la musica dei PTP si dimostra più fantascientifica ed il contatto con l'avanguardia è reale e il suono cosmico ben ricercato. Il passaggio tra l'elettro ambient di "Chant of Rosha" e "Toward a Distant Moon" mostra subito la vera identità del disco e l'accuratezza dei particolari, buona la produzione, la capacità compositiva di rendere una musica complessa ascoltabile è poi un segno distintivo nei PTP, una qualità che spinge l'ascoltatore alla voglia costante di sentire e scoprire cosa succederà brano dopo brano, proprio come in un inquietante film ben fatto o in un buon libro che rapisce e fa correre la fantasia. "The Greatest Loss" è la mia song preferita, in odor di Blut Aus Nord che si avvia al termine con la minimale, sospesa e conclusiva "Invocat", che lascia un filo sospeso tirato da un canto gregoriano che assume un'identità sinistra ed oscura. 'StarCross' è un album difficile da assimilare per la massa, ma geniale nel suo complesso, l'ennesimo salto di qualità per la band veneta, un progetto sonoro che si è ormai dimostrato nel tempo essere una garanzia. Da ascoltare indisturbati. (Bob Stoner)

Throne - Consecrates

#PER CHI AMA: Sludge/Doom, primi Cathedral
Con incolpevole ritardo, ci arriva sulla scrivania l'ultimo album degli emiliani Throne, ormai datato dicembre 2017 ed uscito per la Black Bow Records. L'etichetta britannica ci ha visto sicuramente bene, mettendo sotto contratto una band di un certo spessore che si traduce nelle note di questo melmoso 'Consecrates'. Dico melmoso perchè l'act parmigiano, ha modo di condensare nelle note di questo loro secondo lavoro, sludge e doom, prodigandosi in uno spesso lavoro di chitarre, che chiamano in causa i primi Cathedral. Notevole a tal proposito l'opener “Sister Abigail” e i suoi super chitarroni che, pur non sfondando completamente nello stoner, evocano un che degli Electric Wizard e dei giri di chitarra più blues oriented che ammiccano ad una versione decisamente più sedata dei Pantera, originale non trovate? Non aspettatevi però le stesse voci della band inglese, qui il frontman sfodera quel suo bel vocione da toro imbufalito in un pezzo che trova comunque conferme nelle successive song. Sicuramente degna di nota è “Lethal Dose”, non fosse altro per quel riffone ipnotico a inizio brano e quei cori puliti che si affiancano al growling possente del bravissimo Samu. La song vede peraltro la partecipazione di Dorian Bones, voce dei Caronte e dei Whiskey Ritual. Lo confermo comunque, i ragazzi ci sanno fare. Non so se sia l'aria di Parma e le prelibatezze che quella terra ha da offrire, ma i Throne si rivelano convincenti e speriamo anche vincenti nella loro proposta, in un ambito dove ormai la competizione sembra essere ai massimi livelli e solo i migliori ce la fanno a sopravvivere. Detto che auspico che i Throne siano tra questi, mi accingo ad ascoltare "Codex Gigas" e il suo liquido flusso sonico che lisergico quanto basta, mi investe con il suo pachidermico incedere. E se parliamo di pachidermia, come non citare la granitica e oscura "There's No Murder in Paradise", song sparata a rallentatore ma che conserva nelle sue linee di chitarra, un'interessante vena blues rock. Questa comunque la ricetta vincente per i nostri, che nelle loro tracce sono abili a intrecciare e miscelare ad arte il groove dello stoner e chitarre più seventies, pur mantenendo la profondità e la potenza del death doom come accade proprio nella quarta traccia che evoca nuovamente i sortilegi dei Cathedral di 'The Ethereal Mirror'. L'essenza doomish della band viene confermata anche in "Baba-Jaga", sebbene suoni ben più canonica rispetto alle precedenti, però l'assolo finale non è affatto male. Anche la più catacombale "V.I.R." ha il suo perchè, anche se alla lunga rischia un po' di perdersi per strada nel suo lento e ossessivo comparto ritmico che ammicca a più riprese allo stoner. A chiudere 'Consecrates', ecco arrivare la riverberatissima "Lazarus Taxon" e il suo classico rifferama stoner a sancire l'amore della band ancora per vecchi classici blues rock. 'Consecrates' alla fine è un buon lavoro che dimostra le grandi doti della band emiliana (seppur alquanto derivative) e prospetta un futuro sempre più positivo per la scena di casa nostra. (Francesco Scarci)

(Endless Winter Label/Black Bow Records - 2017)
Voto: 75

https://thronetheband.bandcamp.com/album/consecrates

sabato 21 luglio 2018

La Scatola Nera - Istantanea Estesa

#PER CHI AMA: Garage/Alternative/Punk Rock
La giovane Brigante Records & Productions continua il suo percorso di crescita nell'ambito delle etichette italiane e oggi propone un'altra band molto interessante, La Scatola Nera e il loro nuovo album 'Istantanea Estesa'. Dopo aver recensito gli ottimi "briganti" Omza, Macabra Moka e Cruel Experience, non nascondo che ero curioso di ascoltare anche questo quartetto brianzolo attivo da quasi dieci anni e devoto ad un garage/alternative/punk rock. Andando a ritroso e ascoltando qualche vecchio pezzo della band (nella loro discografia compaiono anche un album ed un EP), salta subito all'orecchio un sound vicino al Teatro degli Orrori, passando per i Ministri contaminati dai vecchi QOTSA. 'Istantanea Estesa' alza il tiro, cerca meno pacche sulle spalle e sorrisoni dagli amici, mettendoci più introspezione, evolvendo in uno stile proprio e maturo. "Moby" è un'entrée che suona leggera ed eterea, grazie al cantato (in italiano) carico di riverbero, come le chitarre che si sporcano leggermente per dare maggiore enfasi, mentre la sezione ritmica ci mette il giusto groove per avere un brano da ballare in modo lascivo sotto una luna rossa. Dopo essere stati cullati amabilmente, si passa a "Cocktail", che ci agguanta subito grazie alla linea di basso profonda e ininterrotta. In progressione, si arriva al ritornello con chitarre più energiche, ma sempre con quel pathos sospeso tra pop teso e rock rilassato, sensazione che comincia a svanire in "Roche", dove il quartetto comincia a picchiare con più vigore e convinzione. I break e gli arrangiamenti di chitarra convincono e ci regalano il brano più riuscito di 'Istantanea Estesa'. Anche il cantante si sente più a proprio agio ed esprime al meglio la sua rabbia mista a frustrazione. Ci sta pure un bell'assolo finale che non fa altro che confermare il pregio di questa traccia. "51 Pollici" è una bel ceffone in faccia da meno di due minuti di durata che gira all'impazzata con un discreto carico di groove. Una vera e propria sveltina ma fatta con stile e quindi con tanta soddisfazione. In "Scogliera" e "Tringhe", la band si concentra su sonorità soft da dopo sbronza con degli interessanti giochi di voce e strumenti, entrambe delle ballate che potete ascoltare quando il cerchio alla testa non vi concede tregua. La Scatola Nera si è sicuramente evoluta con questo nuovo album, l'impatto sonoro è meno vigoroso a beneficio di atmosfere a momenti rilassate e subito dopo impazzite, con un filo conduttore basato su suoni, riff e cantato. Se prima li si ascoltava con una birra da supermercato in mano, adesso preparatevi un gin tonic di qualità oppure un vino rosso corposo e piacevole. (Michele Montanari)

(Brigante Records - 2018)
Voto: 70

Love Machine - Times to Come

#PER CHI AMA: Psych/Krautrock 
Entrare nel mondo dei Love Machine è come fare un passo indietro di quasi mezzo secolo, guardare il loro look e la cover di copertina del nuovo album è tornare al tempo del "flower power", della "summer of love", della folk psichedelia acustica e di tutti quei colori fluorescenti che hanno fatto grande un'epoca musicale divenuta culto tra i '60 e i '70. Diciamo subito che la band di Düsseldorf è irresistibile, terribilmente perfetta, tremendamente a stelle e strisce, esagerata nel ricreare quelle atmosfere vintage, luminosa e abbagliante ma al contempo introversa e cupa, esattamente come un brano dei The Doors, dove rabbia, voglia di cambiamento e ribellione, uscivano da ogni nota in forma lisergica e allucinata. Capitanati da un vocalist spettacolare (Marcel Rösche) e da un sound spiazzante per il suo non essere contemporaneo, la compagine teutonica riesce a sembrare veramente una band di quell'epoca. Senza emulare o copiare i loro maestri, i Love Machine si ritagliano, in un settore quello del vintage rock, uno splendido spazio di originalità da far impallidire band come gli ottimi Church of the Cosmic Skull, con composizioni assolutamente inaspettate, mescolando rock, psichedelia, folk pastorale e il country di sopravvivenza alla Johnny Cash, unendo storie da crooner solitario alla Leonard Cohen, con un velato gusto musicale latino ed il magico spirito acido dei Jefferson Airplane, l'immancabile krautrock, un tocco hawaiano alla Elvis, quello più sperimentale, senza mai dimenticare il salmodiare del re lucertola che rende più sofisticato ed attraente l'intero 'Times to Come'. Alla loro terza prova discografica, i nostri risultano una band stratosferica, al di sopra della media, con una fantasia retrò davvero invidiabile per coerenza, stile ed un fascino incredibile nel sound e nella composizione, musica liquefatta altamente allucinogena. Un'erudizione sul genere pazzesca, un'indole oscura su note abbaglianti e luminose, aprire la mente pensando, musica stellare senza tempo, i Love Machine meritano veramente un altare a due passi dall'olimpo musicale, grazie ad un album formato da brani che sono gemme assolutamente luminose! Due i brani top, "Blue Eyes" e la velvettiana "Times to Come". Nostalgici ma geniali. (Bob Stoner)

(Unique Records - 2018)
Voto: 80

giovedì 19 luglio 2018

Hertz Kankarok - Make Madder Music

#PER CHI AMA: Avantgarde/Experimental/Prog, Tiamat, Riverside, Meshuggah
Non so assolutamente nulla di questo progetto solista a nome Hertz Kankarok, se non che la band arriva da Acireale e questo 'Make Madder Music' rappresenta il secondo EP per l'artista siciliano (qui coadiuvato da Andrea Cavallaro alle chitarre, al basso e ai synth, e dal fido Dario Laletta). La proposta dei nostri conferma quanto di davvero buono è stato fatto nel precedente 'Livores' e ancora mi domando per quale assurdo motivo non esista una release fisica di questo e del precedente lavoro (li vorrei quanto prima, in quanto delittuoso). Questo perchè la musica di Hertz Kankarok è davvero intrigante, in quanto collettrice di molteplici umori, sapori e profumi provenienti dalla cultura sicula che si vanno a incontrare con una tradizione metallica di più ampio respiro. L'opener "Deceive Yourself!" miscela infatti sonorità derivanti dal djent, con il prog e la musica etnica mediterranea per un risultato straordinariamente notevole. La seconda "Cargo Cult" ha una ritmica più devota ai dettami di Meshuggah ma ovviamente, quando subentra una certa tribalità/ritualità soffusa, non posso che rimanere del tutto spiazzato, prima di essere ributtato nella centrifuga avvolgente di un suono le cui trame risuonano apparentemente estreme. Il gioco si ripeterà per oltre otto minuti fatti di stop'n go, rilassamenti, melodie accattivanti, fughe lisergiche e quant'altro. Spettacolare. "Who is Next" sancisce la genialità di un artista che ha ancora modo di passare attraverso influenze che chiamano in causa i Tiamat di 'A Deeper Kind of Slumber', in una song dal piglio cinematografico, in cui mi sembra avvisare in sottofondo, anche l'eterea voce di una gentil donzella. Con "The Great Whirlpool" si torna solo inizialmente al ritmo graffiante di scuola Meshuggah/Gojira, con la voce del mastermind catanese a muoversi tra uno stile urlato, voci cibernetiche e altre  delicate e più pulite, che ben si adatterebbero ad un disco dei Porcupine Tree o dei Riverside. La sfuriata black a metà brano e un finale strettamente progressive chiudono quest'incredibile, in quanto inatteso, 'Make Madder Music'. Maestosi, geniali, sognanti, semplicemente italiani. (Francesco Scarci)

mercoledì 18 luglio 2018

Finis - Visions of Doom

#PER CHI AMA: Black/Death, Celtic Frost
'Visions of Doom' è l'EP d'esordio dei teutonici Finis, che arrivano a questo traguardo dopo aver rilasciato un demotape nel 2016, intitolato 'At One with Nothing'. La band tedesca, di cui poco si sa a livello di line-up e città di origine, si affida a tre pezzi per provare a conquistare l'audience. Il genere è un seminale black death che partendo dagli albori dei Celtic Frost sembra poi abbracciare la produzione degli anni '90. Niente di nuovo quindi sotto il sole in questi tre pezzi, tuttavia l'opener, "11 Temple Stones", offre un sound atmosferico all'insegna della cinematografia horror. Splendido infatti il lungo break centrale in cui su una ritmica lisergica, s'instaurano vocals demoniache e delle chitarre dal forte sapore esoterico. Convincenti, davvero. Altrettanto non si può dire della title track, selvaggia e priva di personalità, potrebbe essere infatti un brano di una qualunque band uscita a cavallo tra gli anni '80 e '90, sebbene la band provi a metà brano a sparigliare le carte, aumentando il senso di disagio e di maligno che si percepisce nell'aria, affidando al basso la guida negli oscuri meandri ritualistici della band, raddoppiato poi da delle chitarre tremolanti. Questo è il reale punto di forza per la band, che in "Fosforos" sembra trovare la propria consacrazione attraverso un pezzo strumentale e le sue ipnotiche melodie. Mezzo punto in meno per la sporcizia di suoni che avrebbero reso molto ma molto di più se maggiormente curati. (Francesco Scarci)


martedì 17 luglio 2018

Pa Vesh En - A Ghost

#PER CHI AMA: Raw Black
Della serie one-man-band crescono, ecco arrivare dalla Biellorussia il nuovo EP del misterioso Pa Vesh En: due tracce per una quindicina di minuti scarsi dediti ad un black ambient minimalista. Si parte con la spettrale e rumoristica "Haunting and Mourning" per arrivare alla più doomish "Gruesome Exhumation". I suoni dell'opener sono impastati e di pessima qualità con la proposta del musicista biellorusso che si alterna tra il raw black, un suicidal black mid-tempo (grazie anche a delle scream vocals disperate) e rari intermezzi ambient. Il problema sta tuttavia nell'ascoltare una simile accozzaglia di suoni che probabilmente, se registrati come dio comanda, avrebbero potuto suscitare un minimo interesse. Qui invece è tutto caotico, nemmeno fosse il più scarso dei demotape. La storia si conferma anche con la seconda traccia, più orientata ad un sound abissale anche se qui non mancano delle velenose scorribande black. Capisco l'underground, non comprendo invece l'Iron Bonehead Productions che rilascia una simile release. Mah, scelta quanto meno discutibile. (Francesco Scarci)

lunedì 16 luglio 2018

Ruxt - Behind the Masquerade

#PER CHI AMA: Hard Rock, Whitesnakes
Fin dalle prime minacciosissime note di chitarra di "Scare my Demons", il singolo al cui confronto ascoltare 'Holy Diver' sembrerà di sentire "Another Day in Paradise" di Phil Collins, l'album d'esordio dei RuGGGine (nel GGG si leggano quelle G dure che generalmente fuoriescono, per esempio, dalla chitarra di uno come Eddie Van Halen) naviga navigato tra consolidati melodic-flutti Frontiers-like più (la svolazzante "Where Eagles Fly") o meno (la roboante "Between the Lies") epicheggianti, molto ("Spirit Road") o moltissimo ("Soul Keeper") coverdaleggianti (anche, anzi, soprattutto il ballatonzo strappareggiseni "Forever Be") librandosi alto, fuggitivo e rocchenroll ("Soul Keeper") nella luminescente e boccolosa galassia-Coverdale, soltanto accidentalmente sfiorando i Rainbow di Biondino Bonnet ("Daisy"), fino a raggiungere in chiusura quella svettante, quintessenziale spremuta di Coverdale che è "Soldier of Fortune", qui in una versione più agiografica che soltanto devota. (Alberto Calorosi)