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martedì 17 ottobre 2017

Ketch - The Anthems of Dread

#PER CHI AMA: Sludge/Doom
Devo ammettere che la cover del digipack dei Ketch mi aveva fuorviato non poco verso lidi black sinfonici: 'The Anthems of Dread' è invece un discreto esempio di alchemico sludge/doom che segna il debutto sulla lunga distanza di questo quintetto del Colorado, uscito originariamente nel 2016 autoprodotto e riproposto nel 2017 in questa versione targata Aesthetic Death, che include peraltro l'EP omonimo dei nostri rilasciato nel 2014. Un bel minutaggio quindi a disposizione la band statunitense (circa 66 minuti) per poterne apprezzare al meglio la propensione musicale. Si aprono i battenti con "Fertile Rites by Sacrifice", una song che parte piano ma poi si muove piuttosto linearmente a livello ritmico, ove poggiano le ruggenti screaming vocals del frontman Zach. Non mancano i momenti rallentati, come nella seconda parte della opening track, cosi come è non strano trovare un riffing oscuro ed ipnotico, caratterizzato comunque da un rutilante incedere (basti ascoltare la seconda "Distant Time"), in cui le vocals del cantante assumono forme diverse, dal tipico urlato ad un growl soffocato. In "En Nomine Dei", emerge il retaggio death doom dei nostri, in una traccia che tuttavia fatica a mostrare i caratteri distintivi per la band, che sembra ancora indecisa su quale forma di musica proporre, viste le derive post metal della successiva "The Monsters of this World", che propone un'altra visione del sound dei Ketch, soprattutto nell'arrembante finale che sciorina un bell'assolo su di una tellurica base ritmica. Un interludio acustico ed è tempo di "Detached and Conquered", song che si fa ricordare per lo più per un uso del basso per certi versi simile a quello di "Heaven and Hell" dei Black Sabbath, in un pezzo comunque caustico a livello vocale e che musicalmente vive di chiaroscuri atmosferici e ritmici, in quello che alla fine risulta essere il mio brano preferito del cd. Con "Shimmering Lights" esploreremo da qui in avanti, l'universo primordiale dei Ketch (l'EP di debutto) in una traccia decisamente più votata ad un doom lugubre e marcescente, complice un impianto ritmico militaresco nel suo flemmatico incedere sludge ed un growling cavernoso. "Counting Sunsets" prosegue su questa linea monocorde permeata di una controversa marzialità che alla lunga rischia di annoiare, soprattutto nelle conclusive ed ormai inerpicabili "Chemical Despondency" e "13 Coils", le ultime fatiche a cui esporsi prima di espugnare il fortino dei Ketch. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2017)
Voto:65

domenica 15 ottobre 2017

Diana Rising - Stars Can't Shine Without Darkness

#PER CHI AMA: Deathcore/Metalcore
I Diana Rising sono un'altra band proveniente d'oltralpe, dedita questa volta ad un metalcore colmo di groove che rischierà di piacere un po' a tutti, giovani e vecchi, amanti degli estremismi sonori ma anche chi certe sonorità cosi corrosive, non le digerisce particolarmente. Una breve intro ci consegna il primo pezzo di questo 'Stars Can't Shine Without Darkness', "Piece by Piece", una song che mostra una struttura tipicamente metalcore a livello ritmico, ma che nelle sue ariose aperture melodiche, si rende appetibile appunto un po' a tutti i gusti. Non necessariamente un difetto sia ben chiaro, ma forse nemmeno un pregio perché alla fine rischia di non accontentare nessuno, se non i soliti fan del metalcore più intransigente. Io mi diverto però, mi faccio coinvolgere dalle ottime melodie dei nostri e anche da una pulizia tecnica affatto male. Il deathcore si mischia al sound dei nostri nella seconda "Get up and Try Again", con i suoi riffoni gonfi di rabbia, ma poi la seconda chitarra si lancia nell'elaborazione di melodie ancora una volta accattivanti e sempre pregne di energia. Poi ecco arrivare i classici ritmi sincopati, i rallentamenti da manuale e le accelerazioni spasmodiche in grado di generare un feroce mal di testa. Fortunatamente, i pezzi non durano poi molto, siamo su una media di tre minuti, quindi ci si può fare anche il callo di lasciarsi investire da un'onda anomala di suoni, atmosfere, montagne di riff, vocioni growl e urlacci hardcore, synth cibernetici e tonnellate di sagaci melodie. Notevoli in tal senso "Infinite Dimensions", la strumentale "The Void" che ci libera dall'eccessivo cantare del frontman (da migliorare questo punto, mi raccomando) e la più oscura e orientaleggiante "Cursed", le tre song che ho individuato all'interno di 'Stars Can't Shine Without Darkness', come le mie tracce preferite. I francesini ci sanno fare, ma suggerisco di staccarsi dai cliché di un genere che tende troppo ad autoreferenziarsi, si corre il rischio di essere troppo ridondanti. (Francesco Scarci)

(Self - 2017)
Voto: 65

Next Step - Legacy

#PER CHI AMA: Alternative/Hard Rock, Alter Bridge
I Next Step sono un quartetto di Madrid che ha debuttato il 17 Marzo di quest'anno con l'album 'Legacy' per la label Rock Estatal Records. La band nasce però nove anni fa, quando i quattro elementi erano adolescenti ed il progetto era suonare cover divertendosi senza pensare troppo al futuro. Dopo qualche anno però, come spesso accade, la voglia di scrivere pezzi propri diventa forte e nel 2011 autoproducono il primo EP che riscuote un buon successo. Seguono due singoli, tra cui "Eternal", da cui è stato tratto un video che ha regalato visibilità ai Next Step che nel frattempo sono cresciuti musicalmente e non solo. 'Legacy' ha quindi la grande responsabilità di proiettarli verso la fama e notorietà oppure di affondarli e farli cadere nel dimenticatoio. La line-up ha subito nel frattempo vari cambiamenti ma il frontman Guillermo e la chitarrista Irene hanno mantenuto saldo il loro ruolo di mente e cuore del progetto. Il primo degli undici brani contenuti nel jewel case è "Wounds Become Scards", un brano convincente che si muove tra sonorità alternative/hard rock dalla ritmica pulsante e dotato di riff potenti. L'arrangiamento è ben fatto e ne scaturisce un brano solido e bilanciato tra allunghi e break dove non manca l'assolo di chitarra a coronare il tutto. La somiglianza con band del calibro di Alter Bridge e Black Stone Cherry è innegabile e ci fa capire l'amore della band spagnola per il filone rock americano. "Echos of a Life" si tinge di nero e tira fuori il lato più tenebroso del quartetto che si lancia in atmosfere post-grunge alla Puddle of Mudd e Creed, con il vocalist che dimostra il suo alto livello artistico. Guillermo infatti si destreggia benissimo grazie ad una buona estensione vocale e una timbrica fresca e grintosa in grado di trasmettere al meglio l'energia del brano. La sezione ritmica svolge appieno il suo ruolo regalando pattern coinvolgenti e allunghi che danno respiro alla canzone che può elevarsi verso l'alto fuggendo dalle atmosfere opprimenti. 'Legacy' rispolvera le radici hard rock della band di Madrid con passaggi acustici di chitarra che si alternano ad un ritornello graffiante e orecchiabile. Come detto prima, il lavoro di arrangiamento è ben fatto e l'utilizzo di accorgimenti come doppie voci non fa che confermare le impressioni iniziali su questo album. Irene si destreggia con stile e cognizione di causa con assoli da manuale che si sposano perfettamente con la sezione ritmica dell'eclettico frontman. Infine, la bonus track "Eternal" si merita di chiudere questo full length grazie al ruolo decisivo che ha avuto nel consolidare la posizione della band nella scena rock spagnola. La qualità audio del cd è molto buona ed insieme ad un mix in stile americano ci regalano un album che vale la pena di ascoltare, a conferma che il duro lavoro spesso ripaga. Anche se bisogna aver pazienza e dedizione. (Michele Montanari)


(Rock Estatal Records - 2017)
Voto: 80

sabato 14 ottobre 2017

Endless Sundown - Make Sense

#PER CHI AMA: Alternative Indie Rock, System of a Down, Muse
Si sa che io sia un grande supporter della scena francese, e quanto io la incensi per originalità, varietà ed elevata qualità, ma non sempre tutte le ciambelle escono col buco. Ecco arrivare gli Endless Sundown e il loro EP di cinque pezzi, intitolato 'Make Sense'. La proposta del combo di Lyon? È un alternative rock ruffiano che pensa di conquistarci con l'opener "Down the Rabbit Hole", una semi-ballad che mi fa storcere il naso per il suo abbinare momenti di dolcezza con altri più incazzati fuori luogo. Non mi convince appieno la voce del frontman, un ibrido tra il vocalist dei The Cult, Ian Astbury e un qualche cantante di band più orientata al versante pop rock (forse i Muse). Con l'attacco arrembante di "Dirty Feed" ero già pronto a rivedere la mia posizione nei confronti dei nostri, ma il fatto che durante le parti vocali, tutti gli altri strumenti sembra si assentino per farsi un riposino, mi disturba non poco, soprattutto perché il disco perde di ritmo e dinamicità. Certo che quando c'è da spingere sull'acceleratore, i nostri ci riescono con convinzione, forti di chitarre ruggenti e un frontman che sembra trovarsi più a proprio agio su tonalità alte che in un tentato growl presto boicottato. "A Need" è una song un po' piattina, che nulla aggiunge alla proposta della compagine transalpina, se non un discreto assolo conclusivo, poca roba però. "Homeless" è già più interessante per le sue altalenanti suggestioni sonore, sebbene il suono impastato delle chitarre mi convinca poco, mentre piuttosto notevole è il lavoro al basso e un cantato che per certi versi, mi ha ricordato i System of a Down. L'influenza dei SOAD ritornerà anche nell'ultima "Come(b)ack", una traccia oscura che risolleva le sorti di un disco che fatica tuttavia ancora a trovare una propria collocazione precisa nella scena. Da risentire con un album più strutturato. (Francesco Scarci)

(Self - 2017)
Voto: 55

TarLung - Beyond The Black Pyramid

#PER CHI AMA: Stoner/Sludge/Doom, primi Cathedral
Ci siamo svegliati un po' tardi l'ammetto, e per un attimo ci eravamo quasi persi il secondo album degli austriaci TarLung, 'Beyond the Black Pyramid'. Il terzetto viennese torna alla carica, dopo l'EP 'Void' uscito lo scorso anno, con un lavoro mastodontico (66 minuti) di stoner-sludge intinto in una cupa salsa doom, uno di quegli album in grado di stritolarci nelle proprie spire ritmiche grazie ad un sound fosco e bieco. Lo fa però con eleganza il nostro combo viennese, con otto song (più intro) che ammiccano con le loro chitarre ultra distorte e ribassate (a supplire peraltro l'assenza del basso) ad uno sludge melmoso di stampo americano. È chiaro fin dalle note di "Dying of the Light", quanto nella successiva "Mud Town" (e se lo afferma già il titolo, c'è da fidarsi), in cui emerge il lato più stoner oriented della band austriaca. La voce del frontman Philipp è arcigna quanto basta, ma ben si colloca sul tappeto ritmico costruito dalla sua chitarra, dal suo socio alla sei corde Clemens e da un batterista, Marian, puntuale nei suoi attacchi, come un orologio svizzero (ops, mi perdonino i ragazzi). Una cosa che ho apprezzato molto durante l'ascolto del cd, sono stati quegli inserti di chitarra solista a spezzare la monoliticità di fondo di un album dotato di spessore, parecchio spessore, direi quasi paragonabile a quello di un muro di cemento armato di un paio di metri. Insomma se ci si schianta ad una certa velocità, si rischia anche di farsi parecchio male. E cosi capita anche durante l'ascolto di 'Beyond the Black Pyramid': i nostri provano ad edulcorare la propria proposta con qualche arpeggio delicato ("Kings And Graves", nella successiva "Resignation" e nella title track), ma i quasi dieci minuti di brano sono belli tosti da affrontare, soprattutto se i rimandi musicali (e vocali) mi spingono verso quel 'Forest of Equilibrium' dei Cathedral, che ha rappresentato un'influenza forte per tutta una serie di band venuta dopo quel mitico album. Dopo una simile scalata, ritrovarsi di fronte ad un pezzo come "The Prime Of Your Existence" non è assolutamente facile: altri undici minuti di sonorità lanciate al rallentatore ingabbiano la mente e i sensi, neppure ci fossimo fatti una bevuta del peggior mezcal di uno dei peggiori bar di Tijuana. Il sound dei TarLung arriva ormai annebbiato al cervello, distorto, estremamente compassato e a tratti lisergico. E non bastano gli interventi strumentali (peraltro ammantati da un'aura decadente) a ribaltare le sorti di un disco dalla forte e rigorosa connotazione sludge-doom. Un lavoro sicuramente interessante per gli amanti del genere, ma forse un po' troppo chiuso per chi non è proprio avvezzo a questo genere di sonorità. (Francesco Scarci)

(Black Bow Records - 2017)
Voto: 70

giovedì 12 ottobre 2017

Disco-Nected - Vision/Division

#PER CHI AMA: Alternative Rock
Esce in questi giorni il secondo EP dei parigini Disco-Nected, 'Vision/Division' dopo il positivo 'Family Affair' uscito nel 2015. Il genere proposto dal power trio transalpino è piuttosto trasversale, riuscendo a convogliare nel proprio sound influenze derivanti da Foo Fighters, Pantera, Incubus, Kings Of Leon e Biffy Clyro, in una proposta certamente carica di grande energia. Lo si evince immediatamente col rifferama rabbioso ma stracolmo di groove di "Here to Stay", che accompagna la voce calda e ammiccante di Aziz Bentot in una song breve, melodica ed efficace quanto basta per catturare la mia attenzione. Nessuna invenzione particolare, zero orpelli stilistici, solo tanta voglia di divertire ed intrattenere i fan con melodie ficcanti, come accade nella seconda "Unity", traccia che strizza l'occhiolino anche ai System of a Down. Un riffone incazzato apre "Dead Inside", un'altra song da hit parade, che ha le qualità per intrattenere il pubblico con una ritmica più controllata e un cantato che per tecnica ricorda il frontman dei SOAD. Dicevo, non siamo al cospetto di chissà quale innovazione musicale, ma il dischetto si lascia ascoltare piacevolmente, complici anche tutti quei chorus che popolano l'EP. Ecco, avrei evitato la ballad della quarta traccia, "Waves and Lies", una palla da laccio emostatico al braccio che mi spinge a skippare all'ultima "The Wolf Returns", una song che mi spinge ad un headbanging sfrenato e che sancisce la conclusione di un lavoro che probabilmente non ha grandi aspettative se non far conoscere il proprio alternative rock ad un pubblico più vasto. Coraggio. (Francesco Scarci)

Worselder - Paradigms Lost

#PER CHI AMA: Heavy/Thrash, Pyogenesis
La Francia continua nella propria missione di produrre solide certezze: quest'oggi sotto con i Worselder e il loro mix heavy thrash unito alla brutalità dell'hardcore, cosi come dichiarato nel loro messaggio promozionale. In realtà nei solchi di questo 'Paradigms Lost', i riferimenti che ci sento sono molteplici. Partendo dall'opener "Infighting" infatti, non è cosi difficile percepire un sound che chiama in causa i Pyogenesis del periodo di mezzo, unito a sonorità hard rock che evocano invece i gloriosi anni '80, con dei riffoni che se stessero su un disco thrash death, nessuno avrebbe da che ridire. Insomma di carne al fuoco, avrete intuito, ce n'è parecchia e allora andiamo con ordine, visto che dopo il bell'assolo della prima song, ecco il suono di un didjeridoo a braccetto con la batteria, esordire nella title track a offrire un sound dapprima tirato e poi stracarico di groove in un'altalena inattesa di cambi di tempo, di umore e generi in un pezzo alla fine davvero convincente. Con "Seeds of Rebellion" torniamo a suoni più retrò che un po' mi fanno storcere il naso ma che in pochi secondi riescono a trovare comunque un loro perché: nell'hard rock di questa canzone ci sento addirittura un evidente e palese richiamo ai Pink Floyd di "Another Brick in the Wall". Ancora una bella ritmica granitica con "Idols" che si chiama in causa sonorità stile 'Load' dei Metallica e influenze più heavy, con la voce che si muove tra porzioni pulite, urlate in stile power, e momenti più ruvidi. Ribadisco, difficile collocare i Worselder in un genere ben definito, lo dimostra anche l'incipit "The Sickening" dove delle chitarre più graffianti trasformano la song in una sorta di semi-ballad che in pochi secondi avrà modo di regalare belle aperture melodiche colanti enormi quantitativi di suoni ruffiani che cattureranno la vostra attenzione quanto la mia, in quella che è la mia song preferita, soprattutto in un finale che ci ricorda che i nostri hanno suonato con gente del calibro di Dagoba, Gojira e compagnia cantanti. Ancora rock'n roll con "Severed", almeno nei suoi primi novanta secondi, poi i nostri si divertono a suonare un po' come diavolo gli pare, votandosi completamente all'anarchia di un suono sempre imprevedibile e con parecchio da dire, seppur siano palesi le innumerevoli influenze che arrivano da qualsiasi decennio degli ultimi 40 anni di musica. Bravi, perché non è proprio cosi facile e scontato coniugare cosi tanti generi in un flusso musicale che non vive evidenti momenti di stanca o cali di tensione. Nell'inizio di "Home of the Grave" ci sento anche gli Eagles che in pochi secondi si ritrovano a suonare death metal ed evolvono ancor più velocemente in un ibrido tra nu metal, metalcore e thrash metal. Bravi Worselder, non era facile portare a termine l'obiettivo che si erano prefissati senza cadere in tranelli pericolosi. Missione compiuta. (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2017)
Voto: 75

https://www.facebook.com/worselder

Paolo Spaccamonti & Paul Beauchamp - Torturatori

#PER CHI AMA: Sperimentale/Drone, Ulver
Paolo e Paul, due musicisti particolari, il primo torinese (ma di origini lucane), il secondo americano ma trapiantato nel capoluogo piemontese. Un album, due brani, "White Side" e inevitabilmente anche un "Black Side", a definire i due lati del vinile (in vinile rosso) e le due facce della stessa medaglia di un disco tutt'altro che facile da ascoltare. Una proposta musicale in cui s'incontrano due amici e le loro anime sperimentali che si traducono in questo condensato musicale intitolato 'Torturatori'. Non conosco la ragione di questa scelta, posso solo dire che il loro torturare in realtà si svela dapprima in raffinate linee di chitarra acustica di stampo neofolk coadiuvate successivamente da una svalangata di suoni apparentemente improvvisati che ci accompagnano per quasi quindici minuti di musica minimalista, ipnotica e surreale, un ambient dronico, un'ipotetica colonna sonora per un film come 'Blade Runner 2049' anche se verso il decimo minuto, i nostri tornano a lanciarsi in un altro oscuro arpeggio di chitarra. Una proposta quella del duo italo-americano, che per certi versi mi ha ricordato quello di t.k. bollinger, anche se l'artista australiano può vantare nelle sue composizioni, anche un cantato che qui manca totalmente. Pertanto, spazio alle chitarre, ai synth, ad atmosfere rarefatte e oniriche, soprattutto nella seconda song, in cui il suono della sei-corde è decisamente più ribassato, e molto più spazio viene concesso ai suoni cibernetici affidati ai sintetizzatori di Paul Beauchamp, qui emulo di quelle sonorità alla Vangelis che popolavano il primo 'Blade Runner'. Un disco alla fine parecchio sperimentale per le nostre orecchie e i nostri sensi, per quanto in realtà, i due musicisti non offrano proprio sonorità avanguardistiche. Un'esperienza simile all'ascolto degli album strumentali degli Ulver, un ascolto da provare in rigoroso silenzio e nel buio più assoluto. (Francesco Scarci)