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giovedì 27 aprile 2017

Karma Zero - Monster

#PER CHI AMA: Deathcore/Hardcore
I Karma Zero sono una band francese attiva dal 2008 che ci presenta questo loro secondo lavoro, 'Monsters'. Trattasi di un concept album che propone un interessante parallelismo tra saghe horror e corrispettivi incubi socio-metropolitani del mondo di oggi. A livello tematico direi che l’esperimento è interessante, pur non riscontrando nei testi dei brani un’effettiva analisi profonda del malessere dell’uomo di oggi, cosa che mi sarei aspettato di trovare. O che forse speravo di trovare. Il contesto sonoro in cui la compagine transalpina si muove è quello dell’hardcore-deathcore. Troviamo quindi ritmiche granitiche alternate a sparatissimi riff scavezzacollo (a tratti esaltanti) con voce raschiata e straziata come gli stilemi del genere prevedono. Muovendosi su tali coordinate, il rischio di diventare troppo monolitici e quindi di annoiare è però dietro l’angolo. Tuttavia, i nostri riescono a superare questo limite del “-core” producendo un album invero piacevole, piuttosto cangiante e assolutamente brioso. In primis, attribuirei il merito alle vocals, davvero fiore all’occhiello soprattutto nella modalità harsh magnificamente distorta, che davvero istiga alla violenza e brilla per tutta la durata del lavoro. Le metriche del cantato sono ortodosse rispetto alla consuetudine HC-deathcore ma l’elaborazione/effettazione del suono le rende preziose. La doppia voce (main e quella del chitarrista) mantiene efficacemente viva l’attenzione, anche con variazioni significative. Vedasi ad esempio la title-track, dove un refrain melodico (ma assolutamente non stucchevole) spezza la tensione, pur mantenendo assolutamente brutale il tutto. A livello chitarristico vorrei menzionare la traccia “Horror”: in essa il riff riesce ad essere devastante ma velatamente intimista, cosa che dà alla canzone una profondità ed un’atmosfera che ho particolarmente apprezzato. Buona e coinvolgente la registrazione, seppur avrei personalmente messo più in rilievo le chitarre. La band propone anche la sua versione di "Blind" dei Korn, brano che probabilmente i nostri utilizzano nei live acts per scaldare l’audience. Non male, ma nel complesso superflua. Sugli scudi invece “Trapped”, devastante e paradigmatica del brand-Karma Zero! (HeinricH Della Mora)

Obitus - Slaves of the Vast Machines

#PER CHI AMA: Black Metal, Deathspell Omega, Anaal Nathrakh
Hypnotic Dirge Records atto terzo: in poco meno di un mese ho recensito il ritorno dei Netra, il debutto dei None e ora mi ritrovo fra le mani il comeback discografico degli svedesi Obitus, che arriva a distanza di ben otto anni dal precedente 'March of the Drones' e addirittura a 17 dalla fondazione della band. Se la sono presa con calma i due loschi figuri di Gotheburg: 'Slaves of the Vast Machines' esce per l'etichetta canadese, qui supportata dall'americana Black Plague Records, in un clima di guerra, proponendo un irruente e schizofrenico black metal che ben si riflette nell'unica lunghissima traccia contenuta nel disco. La furia belluina è tradotta in ritmiche assassine, caratterizzate da una violenza cataclismatica anzi, visti i tempi, direi apocalittica. C'è ben poco da scherzare con questi musicisti svedesi che dalla tradizione musicale del loro paese non pescano granché, se non quella nera fuliggine dei Dark Funeral. La musica dei nostri sembra infatti un ipotetico ibrido tra il sound malsano ed esacerbato dei Deathspell Omega miscelato con le ritmiche infernali del post black americano, anche se ammetto di averci sentito un che dei primi Aborym al suo interno, qualcosa in fatto di velocità disumane degli Anaal Nathrakh e un po' di malvagità di scuola Mayhem. Le istruzioni per l'uso e consumo di questo disco devono esser chiare fin dai primi minuti di devastazione totale intessuti dalla band scandinava. I primi dieci minuti sono infatti affidati a ritmiche affilatissime che ben poco spazio lasciano alla melodia e al ragionamento; una prima pausa la si riesce a fare tra l'undicesimo e il quattordicesimo minuto, ma è chiaro che è solo un modo per condurre l'ascoltatore sul precipizio del burrone e spingerlo di sotto senza alcuna pietà. E la promessa è certamente mantenuta in quanto l'act svedese, da li a breve, si riaffiderà a ritmiche serrate, blast beat psicotici e screaming vocals iraconde. Splendido il mood glaciale che si respira grazie a quelle chitarre affilate come rasoi a tessere maestosi riff nordici. Un secondo break tra il 18esimo e il 19esimo minuto, serve più che altro per salvaguardare la salute mentale di chi ascolta e poi giù di nuovo a picchiare come dei fabbri con chitarre tra lo zanzaroso e il tremolante, un drumming che corre a velocità forsennate e le vocals lacerate e raggelanti, per un risultato che, pur non aggiungendo nulla di nuovo al genere, dà comunque modo di rivedere il concetto di velocità all'iperuranio, urla lancinanti e atmosfere diaboliche. Questi sono gli Obitus del 2017, non so quando avremo modo di riascoltarli con un nuovo album, fate quindi buon uso di 'Slaves of the Vast Machines', usando comunque tutte le precauzioni del caso, rischia di essere letale. (Francesco Scarci)

(Black Plague Records/Hypnotic Dirge Records - 2017)
Voto: 70

https://hypnoticdirgerecords.bandcamp.com/album/slaves-of-the-vast-machine

lunedì 24 aprile 2017

Eyes Wide Shot - Back From Hell

#PER CHI AMA: Alternative Rock, Lostprophets, Papa Roach
Eyes Wide Shot, ovvero come una band francese (proveniente dalla regione della Lorena) riesce ad attingere dal grande maestro del cinema Kubrick. Dietro questo nome troviamo quattro musicisti che si sono incontrati nel 2012 e l'anno successivo hanno dato alla luce il loro primo EP che gli ha permesso di essere notati dal produttore dei Falling In Reverse. Capirete quindi come questo 'Back From Hell', vero debutto della band, possa avere una produzione da non sottovalutare, essendo stato registrato a Los Angeles e poi seguito dall'agenzia francese Dooweet Agency. Iniziando dal packaging, questo è un jewel case dalla grafica accattivante, un tripudio di schizzi di colore in una stanza, che vede il frontman Florent accasciato mentre rigurgita un fiume di liquido multicolore. Le quattro facciate dell'artwork mostrano gli altri elementi della band ricoperti a loro volta di colore, una trovata interessante che non permette di capire cosa si ascolterà in seguito. Le tracce inserite sono dieci per un totale di trentasette minuti e si articolano tra alternative rock/post-hardcore/emo che ci riportano alla mente band come i Lostprophets, Hoobastank e Papa Roach. Come detto, l'investimento è elevato e lo si capisce subito da "Waiting in Vain", prima traccia dell'album. I suoni sono perfettamente in linea con il genere, dal taglio moderno e accattivante, cosi come la composizione che rispecchia molto (pure troppo) la produzione delle band che hanno aperto i cancelli a questo brand. Le ritmiche sono incalzanti, precise e veloci, la grancassa buca il mix come un missile terra-aria mentre i riff di chitarra si avvicendano con stop&go a profusione e utilizzo del killswitch. Una nota di merito al cantante che si destreggia bene sfruttando la sua timbrica squillante e aggiungendo passaggi screamo che aumentano l'impatto sonoro del brano. "My Redemption" segue la stessa strada, con innesti elettronici sia ritmici che melodici che svecchiano il brano, caratterizzato poi da molteplici intrecci vocali, cambi di ritmo e giri armonici che renderanno felici anche quei metallari più ligi alla tradizione. La seconda metà della song cresce e porta l'ascoltatore verso la conclusione con un certo senso di soddisfazione. La title track inizia in sordina con la voce che si libera su una breve intro di drum machine per poi esplodere come di consueto, ma in chiave più rilassata, come fosse una sorta di ballata post moderna simil 40 Seconds to Mars. Un buon album quindi: i nostri amici francesi hanno saputo prendere il meglio del genere ed interpretarlo con perizia e impegno facendosi apprezzare per gli innesti elettronici e le doti dei singoli musicisti che di sicuro non potranno essere accusati di essersi rilassati sugli allori di una produzione ad alto budget. (Michele Montanari)

Rossometile - Alchemica

#PER CHI AMA: Gothic Rock, Nightwish, Lacuna Coil
La band di oggi arriva (con notevole ritardo) da Salerno: si tratta dei Rossometile e l’album in questione è il loro ultimo lavoro in studio, 'Alchemica', ormai datato 2015. Trattasi di un disco prevalentemente hard rock con delle pesanti influenze gotiche e pop-melodiche, senza farsi mancare nemmeno qualche sprazzo progressive. Ciò è il risultato dei diversi cambiamenti di direzione musicale intrapresi nel tempo dalla band, attiva sin dal 1997. Con l’ingresso in line-up della cantante Marialisa Pergolesi e grazie alla sua soave voce, i Rossometile sembrano essersi stabilizzati su questo gothic-rock di 'Alchemica', senza abbandonare comunque le sonorità pop che caratterizzavano i precedenti lavori, 'Tirrenica' e 'Plusvalenze'. Il risultato è un richiamo a certi mostri sacri come i primi Nightwish o i nostrani Lacuna Coil, certo un po’ meno aggressivi e senza grandi artifizi sinfonici. Qualche sfumatura dai toni più pesanti la si avverte nel brano “Le Ali Del Falco”, che con i pregevoli assoli di Rosario Runes Reina, contribuisce ad aumentare il tiro dell’album. Il lavoro dei Rossometile è sicuramente impreziosito dalle vocals di Marialisa, che si destreggia egregiamente anche su registri quasi lirici inseriti nei pezzi (cito ad esempio “Nel Solstizio d’Inverno” ). Le liriche sono tutte cantate in italiano, quasi insolito in questo contesto, molto rischioso più che altro. La band salernitana tuttavia, riesce nell’intento di non cadere nella banalità dei testi, proponendo anche qualche passaggio davvero ispirato, focalizzandosi su temi introspettivi e di interiorità complesse. Quest’ultimo lavoro dei Rossometile è un disco adatto a chi predilige sonorità più leggere, con le componenti melodiche e pop-eggianti che sovrastano spesso e volentieri quelle più dure: l’album scivola via avvolgendosi nelle sue atmosfere gotiche, senza intoppi ma senza nemmeno lasciare un segno particolarmente evidente. (Emanuele "Norum" Marchesoni)

sabato 22 aprile 2017

Path of Desolation - Where The Grass Withers

#PER CHI AMA: Melo Death, Dark Tranquillity
Although theirs sounds more like a monicker for a doom or a depressive black metal band, the guys of Path of Desolation are far from those styles. Coming from the Swiss city of Lausana, this melodeath quintet (at least, they were a quintet when they recorded this album) has been playing since 2013, and they had their first studio experience with their 2014 EP 'Soaked Jester'. 'Where The Grass Withers' is their first LP, and is a more than a decent demonstration of melodic death metal, in the vein of Dark Tranquillity, with their heavy use of synths although lacking the clean vocals. The album shows all the other elements that we’ve come to associate with this genre, like the Maiden-esque riffs mixed with more thrashy ones, nice acoustic guitars and the use of more traditional song structures. Everything is in the proper place, and the band shows that they’ve have studied every trick known in the “Gothemburg’s Guide To How To Melodeath”. The problems with the album start to show when you play it in full a couple of times. For example, the production lacks some strength, sounding clean and nice but kind of generic, and although there isn’t any truly bad song, it’s hard to point out real standouts. Nevertheless, this isn’t really a tedious album: singer David Genillard delivers great death growls and there are a couple of nice moments in this album, like the opening “The Crown and the Empty Hall”, the piano in “The Hunting Prey”, the featuring of Anna Murphy (ex member of fellow Swiss folkmetallers Eluveitie) in “The Uninvited” or the mixing of acoustic guitars and electric guitar melodies in “Exit Nightmares”, a nice closer for the album. But this is an album that prefers to use what it’s already known to success than trying to capitalize in its unique traits, which isn’t really a bad thing: we all like to watch action or horror movies, even if there are a lot of storytelling tropes that we’ve seen a hundred times and maybe more. But sometimes the repetition of elements will only appeal to fans of that particular genre, as it’s the case with the debut LP from this Swiss band. Having said that, Path of Desolation have the potential to release truly great albums if they manage to develop their strengths, which they’ve, and find a sound that they could call their own. (Martin Alvarez Cirillo)

(Self - 2016)
Score: 65

venerdì 21 aprile 2017

Swans - The Glowing Man

#PER CHI AMA: Post Rock/Folk
Una duplice apostatica invocazione (“preghiera”, la chiama Michael Gira), stigmatizzante i tumori sociali: la droga e la morte come soluzione ("Frankie M"), l'abuso (sessuale) e la sua ossessiva ricorrenza ("When Will I Return?"), fino a profetizzare una sorta di apocalisse della civiltà, scorticata ("The World Looks Red / The World Looks Black"), onirica ("People Like Us"), cangiante ("Finally, Peace"). Sparute evanescenze soniche ("The World Looks Red / The World Looks Black" è una sorta di re-cover dei Sonic Youth di "Thurston Moore", già occasionalmente militante nei Swans inizio carriera), post rock (le black-heart-dissonanze di "People Like Us"), aural-folk ("Finally, Peace"). Panorami musicali circolari. A lungo termine, una progressiva aggregazione sonora, ma anche lirica, per generare, alimentare e sublimare tensione emotiva: le tre monstre-track "Cloud of Unknowing", "The Glowing Man" e "Frankie M", settantacinque minuti in tutto, potranno ricondurvi dalle parti del Von Trier inizio novanta. Fascinazione, empatia, minimalismo, epica, auto indulgenza, ipnosi, (dis)soluzione finale. 'The Seer', 'To be Kind', 'The Glowing Man'. Tre album tripli in quattro anni, sei ore complessive, un unico profetico, ossequioso, scintillante, monumentale opus sonoro. Prendere o lasciare. (Alberto Calorosi)

(Young God Records - 2016)
Voto: 85

https://swans.bandcamp.com/album/the-glowing-man

giovedì 20 aprile 2017

The Chasing Monster - Tales

#PER CHI AMA: Post Rock, If These Trees Could Talk
Non mi capita spesso che un album colpisca la mia attenzione esclusivamente per la sua copertina: in questo caso però, essendo un appassionato di astronomia, non potevo non rimanere affascinato dalla cover dei The Chasing Monster, che vede la silhouette di due persone con uno splendido cielo stellato in background, peraltro con colori viranti ad una tonalità arancione per l'uscita digitale e verde-blu per il cd. Ma veniamo ad analizzare gli aspetti più contenutistici che puramente estetici. 'Tales' rappresenta il disco di debutto dei The Chasing Monster, quintetto di Viterbo che narra qui la storia di Emm e Oliver all'alba del loro ultimo giorno sulla Terra, attraverso sette gemme dedite ad un sognante post-rock. Chi siano i due personaggi non mi è dato di saperlo, però la passione del combo italico per sonorità criptiche e decadenti, si palesa immediatamente nell'opener "Itai", che ci consegna un suono cristallino, un must per questo genere. La song, interamente strumentale, lascia trasparire tutta la vena malinconica che imperversa nelle note dei quattro laziali con suoni dilatati e nostalgici, una sorta di colonna sonora per quando il nostro sguardo volge verso un panorama all'orizzonte ma in verità non lo sta realmente guardando, è da tutt'altra parte, raccolto con i suoi pensieri. E questo sarà il filo conduttore di un disco che cresce attimo dopo attimo, si gonfia, innescando un caleidoscopico ventaglio di emozioni. Lo si evince dalla successiva traccia, "The Porcupine Dilemma", una song che, oltre ad affidarsi a delle interlocutorie spoken words, con i suoi arpeggi va salendo d'intensità, e in modo inversamente proporzionale, la sua elettricità va dirigendosi verso un mood più disperato, provando a trascinarci in un vortice emozionale in bilico tra il depressive e il post rock (alla fine si rivelerà la mia song preferita). Solo il parlato conclusivo ci salva da una commovente esplosione di lacrime. "The Girl Who Travelled the World" affida il suo incedere alla narrazione di una voce femminile - chissà se si tratti proprio della ragazza che ha viaggiato per il mondo e chissà se quella ragazza è Emm, - a chitarre tremolanti e ad un drumming lento, a tratti tribale, in un mix tra post rock e shoegaze che, seppur in una forma molto (ma molto) più leggera, mi ha evocato addirittura sentori proveniente da 'Brave Murder Day' dei Katatonia. La narrazione, questa volta maschile, prosegue in "Albatross", un pezzo in cui il ruolo di protagonista accanto alla chitarra, è assunto da una batteria profonda che scandisce il tempo del brulicare dei nostri pensieri, ma che apre prima ad un etereo cantato e poi ad un bell'urlaccio, in grado di innescare un riffing più pesante, orientato al post-hardcore (retaggio degli esordi della band), permettendo poi al sound di aumentare il proprio vigore energetico. "La Costante" è un breve brano strumentale che vede comparire come guest star alla chitarra, Theodore Freidolph degli inglesi Acres, nell'ennesima scalata emozionale di quest'intrigante 'Tales', la cui edizione digitale ingloba peraltro i dialoghi completi tra i due protagonisti. "Creature" affida il suo flusso emotivo al basso e poi alla voce femminile, con il tremolo picking in sottofondo che va ad armonizzarsi successivamente e offrendo calde melodie avvolgenti, pregne ovviamente di quella malinconia che preannuncia l'arrivo consapevole della parola fine, la fine di un amore, di un'amicizia, di una vita, non lo so. Quel che è certo è che quella consapevolezza sembra conferire una certa serenità che con "Today, Our Last Day on Earth" va a concretizzarsi attraverso un ultimo malinconico atto, l'ultima parola, l'ultima carezza, un ultimo sorriso, "l'ultimo addio come la fine di un viaggio", esaltando definitivamente la prova di questi cinque musicisti di casa nostra, pronti a prendere il volo come l'albatro da loro narrato. Bravi, bravi davvero. (Francesco Scarci)

mercoledì 19 aprile 2017

Trollband – In the Shadow of a Mountain

#PER CHI AMA: Pagan Black/Folk, Wardruna, Otyg, primi Vintersorg
Senza togliere nulla al lavoro più recente dei Trollband, datato 2013, ritengo che l'ispirazione che ha portato alla creazione del loro primo full-length, sia di quelle folgoranti, che non capitano sempre nella carriera di un artista. Di quest'album se ne è già parlato a suo tempo, quando uscì nel 2011, e oggi vede la luce in ristampa tramite la Vegvisir Distribution, che saggiamente ha pensato di rimetterlo sul mercato per non farlo finire nel dimenticatoio. Infatti, questo disco merita molto rispetto, perché pieno zeppo di riferimenti cari a generi come il pagan metal, il folk metal, il black metal sinfonico e, il suo carattere istrionico all'interno di queste vesti del metal estremo, lo rendono originale e dinamitardo. Seppur ovviamente derivativo dal sound di band più blasonate, bisogna ammettere che di personalità questo pugno di canzoni ne ha da vendere e su tutte spunta il fatto che l'album si faccia ascoltare senza remore né lacune, in un continuo sorprendere l'ascoltatore con il suo profilo cinematografico, ideale per essere la colonna sonora per un documentario sui vichinghi. Lo scambio tra strumenti moderni, melodie e suoni antichi rappresenta un'apoteosi mistica (da ascoltare la title track "In the Shadow of a Mountain" degna dei Wardruna). L'atmosfera è quella sciamanica della divina Hagalaz Runedance: ancestrali leggende senza tempo si fondono con la ferocia di un tipico combo black metal (complice una voce affascinante e maligna) quando c'è da far tremare le menti assopite del mondo moderno e farle tornare ad un passato crudo e violento ("Heathen Blood") con il tutto che rimanda ai bei momenti dei Forsth, degli Otyg, dei Waylander o di Vintersorg della prima maniera. Nel loro sound c'è spazio per alcune forme di classic metal ed è una cosa che si sposa perfettamente con la componente black più veloce e guerriera, i brani sono molto variegati e niente è lasciato al caso, ben curate le ariose parti di tastiera e le suite folk pensate alla perfezione e ben suonate ("We Live"), con la voce narrante e un suono generalmente grezzo ma avvolgente e stranamente caldo, che risultano centratissimi. La copertina è perfetta per il loro stile mitologico e fantastico, bisogna poi sottolineare che a dispetto della comunanza del genere, la band canadese non ha nulla a che vedere con il sound festaiolo e alcolico dei Korpiklaani (senza nulla togliere al mito della band finlandese) ma vive di musicalità più introspettiva e sinistra. Riascoltato a distanza di qualche anno, quest'album suscita ancora tante arcaiche emozioni offrendo una proposta variegata e assai valida nel vasto ed inflazionato mondo del folk metal mondiale. Ascolto consigliato. (Bob Stoner)