Cerca nel blog

domenica 12 febbraio 2017

Revenience - Daedalum

#PER CHI AMA: Power Symph
Formatisi nel 2014 dalle ceneri di precedenti band, principalmente dai Nemoralis, i bolognesi Revenience ci presentano la loro prima fatica discografica, 'Daedalum', uscita per la Sliptrick Records lo scorso anno. Forti della soave voce di Debora Ceneri e di un’inclinazione melodica, la band ci propone con naturalezza un carico symphonic metal forgiato da influenze gotiche, seguendo le fortunate orme di gruppi come i connazionali Soundstorm. Il quintetto bolognese non si fa mancare nemmeno qualche sfumatura più elettronica, che possiamo avvertire fin dall’inizio del disco, già dall’introduzione strumentale: questa, per i nostalgici come me, può richiamare alla mente i vecchi album dei Rhapsody, che si presentavano sempre con la canonica intro composta da cori ancestrali e orchestrazioni da soundtrack. Tuttavia, se allora capitava di perdersi nelle sinfonie provenienti da mondi antichi e fantastici, qua ci troviamo in una terra ben diversa e in un’epoca decisamente più attuale! “Blow Away By The Wind” è forse il pezzo più emblematico, in cui si avvertono un po’ tutte le caratteristiche principali dei Revenience: sound potente a sostegno delle vocals della Ceneri, che qui si destreggia in modo impeccabile, sfoderando la sua padronanza delle corde più alte e alternandosi nel chorus alle growl-vocals del batterista Simone Spolzino. Le tastiere lavorano a tempo pieno, con le onnipresenti orchestrazioni d’archi e gli stacchi “electro” arricchiti da una sovrapposizione di fluttuanti pad. La lenta ballad piano-voice “Lone Island”, molto ben congegnata musicalmente e con vocals ancora vincenti, è seguita dall’irruenta "A-Maze", che racchiude il lato più potente e cattivo dell’ensemble bolognese, ma in cui non può comunque mancare uno stacco di richiamo fortemente melodico (bel lavoro la parte pianistica sul finale!). La traccia conclusiva dell’album, “Shadows and Silence”, dalla struttura leggermente più articolata, rappresenta una degna chiusura per un esordio altrettanto degnamente riuscito: la doppia cassa a sostenere i ritornelli, l’assolo ‘catchy’ di chitarra nella parte centrale, l’ottimo lavoro dietro le tastiere di Pasquale Barile e poi una scordata melodia in fade, lasciano l’atmosfera sospesa in un misterioso sospiro. Possiamo con piacere definire questo 'Daedalum' un debutto discografico decisamente azzeccato da parte della band bolognese che, pur senza introdurre particolari novità, riescono a proporsi con un certo stile, senza annoiare: una piacevole sorpresa nostrana nel campo power/sinfonico, come furono qualche tempo fa anche i Sailing To Nowhere. Speriamo dunque di stupirci ancora! (Emanuel 'Norum' Marchesoni)

(Sliptrick Records - 2016)
Voto: 80

https://www.facebook.com/Revenience/

sabato 11 febbraio 2017

Cold Body Radiation - The Orphean Lyre

#PER CHI AMA: Shoegaze/Post Punk, An Autumn for Crippled Children
Al quarto tentativo mi imbatto finalmente nei Cold Body Radiation, one man band olandese affacciatasi nel mondo metal nel 2010 con una proposta blackgaze davvero convincente, che nel corso degli anni si è evoluta, proponendo oggi un sound più etereo e vellutato. Ecco quindi 'The Orphean Lyre', fuori per la nostrana Dusktone Records, un lavoro che include otto tracce che di quel sound originario non conserva ahimè più nulla. Il cambio di rotta era già palese nel precedente 'A Clear Path' e trova consolidamento in questo nuovo album, che può essere accostabile per molti versi alla direzione intrapresa da un'altra band dei Paesi Bassi, gli An Autumn for Crippled Children, ossia un post punk shoegaze (lasciate però perdere gli Alcest), venato di forti influenze che ci riportano alla darkwave. M, il mastermind che sta dietro ai Cold Body Radiation, si abbandona a sonorità estremamente malinconiche, dimenticandosi completamente dei suoi albori black. Con "The Ghost Of My Things" ci si tuffa nell'infinito universo dello shoegaze più intimistico ed onirico, più vicino al dream pop, con tanto di voci melodiche e sognanti, e linee di chitarra poste in secondo piano rispetto ai più preponderanti synth. Solo qualche rara galoppata in stile punk, rappresentano l'unico vero punto di contatto con un passato ormai scivolato nell'oblio, perché anche con "All The Little Things You Forget Are Stored In Heaven" e le rimanenti tracce, fino all'ultima e più convincente "The Forever Sun", si procede nell'esplorare morbide atmosfere ambient, che hanno se non altro il merito di concederci momenti di relax e meditazione. Difficile consigliare questo disco ai fan di vecchia data della band olandese, ma se siete stati in grado già di assorbire il colpo con 'A Clear Path', anche 'The Orphean Lyre' potrebbe meritare la vostra attenzione. Chi invece si avvicina per la prima volta al musicista olandese, ed è in cerca di una qualche esperienza sensoriale, si lasci pure avvolgere dal sound stratificato dei Cold Body Radiation, potrebbe risultare quasi piacevole. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2017)
Voto: 70

PhaZer - Un(Locked)

#PER CHI AMA: Alternative Rock
I PhaZer sono un quartetto portoghese nato nel 2004 con all'attivo due EP e due album nonché una svariata lista di concerti. La vera svolta della band è avvenuta firmando con le etichette Raging Planet, Raising Legends ed Ethereal Sound Works che hanno permesso al quartetto di Lisbona di crescere esponenzialmente ed essere definiti più volte come la miglior rock band portoghese. La loro musica è infatti un concentrato di puro rock con reminiscenze alternative e metal che hanno portato ad ottenere ben quattordici brani per un totale di sessanta minuti di musica. Un lavoro quasi biblico di questi tempi. "Gone", la opener track, ci proietta immediatamente nell'universo musicale della band e lo fa con un bel calcio in culo, una botta di pura potenza neanche fosse una sniffata di metanfetamina blu. I suoni moderni, cosi come le chitarre belle compresse e la precisione di esecuzione strumentale, rendono il sound netto e tagliente, mentre il vocalist ci delizia con il suo cantato potente e dalle grosse influenze thrash metal che si adatta perfettamente all'evoluzione del brano. Questo è arrangiato egregiamente e dalla struttura classica, ma suonato con passione e convinzione, come la seguente "The Last Warrior" che aggiunge atmosfere cupe ed inietta una copiosa dose di rabbia incontrollabile per poi ammorbidirsi sul ritornello. La continua alternanza di fraseggi dalla diversa intensità, rendono la canzone dinamica e piacevole. Bello anche l'assolo verso la fine, giusto per dare respiro al vocalist che può riprendere con la solita enfasi. "Hold Me" si distacca invece dall'intera produzione, con un feeling power/prog rock anni '80/90, e in cui anche i suoni cambiano come il cantato. Praticamente un tuffo nel passato, che ci fa sospettare di una simil forma di bipolarismo insita nella band. Il repentino cambio di inversione si fa apprezzare, anche se per un attimo ho avuto il dubbio che fosse partito un altro cd nel lettore. Andando avanti nell'ascolto di 'Un(Locked)', si trovano altre sfaccettature nello stile dei PhaZer, come "Wake Up To Die" che riprende lo stile desertico delle cavalcate stoner. Riff e pattern cadenzati guidano la potente "muscle car" in stile classico americano con vocalizzi dal sentore più moderno. A circa metà del brano arriva lo stacchetto geniale, un jingle in stile circense che spezza il ritmo e regala la scusa per riprendere la corsa interrotta per poco. L'album chiude con "Locked Out", un pezzo introspettivo ed oscuro che dopo una breve intro arpeggiata e sottomessa, esplode in un tripudio strumentale cattivo e rabbioso che poi si addolcisce quasi a ballata, con una continua alternanza che mantiene alto il livello di attenzione. Non poteva mancare l'assolo finale con conseguente progressione a chiudere in bellezza. Sonorità contemporanee allacciano generi del passato per reinterpretare lo stile e scrivere qualcosa di apparentemente nuovo, già comunque sentito e digerito negli ultimi anni, ma i PhaZer sono bravi, si mettono in gioco e sperimentano con quello che è nelle loro corde. Non saranno sicuramente i paladini dell' avanguardia, ma è un album ben fatto, vario e che merita di essere ascoltato. (Michele Montanari)

(Raging Planet/Raising Legends/Ethereal Sound Works - 2016)
Voto: 70

giovedì 9 febbraio 2017

Dysylumn - Conceptarium

#PER CHI AMA: Post Black/Death, Deathspell Omega
Dysylumn atto secondo... o meglio atto primo visto che 'Conceptarium' è uscito temporalmente prima di 'Chaos Primordial', da poco recensito su queste pagine, ma che ha visto una pronta ristampa targata Pest Productions sul finire del 2016 (con l'aggiunta peraltro di due bonus track, ossia le due parti della title track cosi come erano state originariamente concepite nel 2013). Avevo scritto che i nostri proponevano sonorità black death forti di una certa dissonanza musicale straniante e malsana che chiama in causa i Deathspell Omega. Facciamo un passo indietro e andiamo a scoprire se anche il full length d'esordio è un contenitore di sonorità di questo tipo. "Vide Spatial" e la seguente "Cauchemar" confermano quanto di buono ascoltato nel nuovo EP, con una maggiore propensione verso il death sulfureo, forse ultimo retaggio della precedente formazione brutal death in cui militava Sébastien Besson (vocals, chitarra e basso). 'Conceptarium' si palesa come un disco oscuro, tetro e maligno, che sembra voler rievocare i fasti di un death metal di stampo svedese mai assopito, ossia quello dei primi anni '90, in coabitazione però con sonorità più moderne che solcano l'onda impetuosa del post black o del death ultra tecnico in stile Obscura. Le atmosfere persistono nell'essere rarefatte, a tratti dilatate ma anche in grado di risultare straordinariamente dense ("Esclave Céleste") e nebulose, come garantito dalle due parti della title track. La durata mai eccessiva delle canzoni permette comunque un ascolto più semplice, anche quando le strutture ritmiche si fanno assai più complesse o insane. Ultime menzioni per le strumentali "Voyage Astral"e "Nébuleuse", ultime siderali galoppate nel cosmo più profondo, all'insegna di un post black miscelato a suoni progressivi, a sancire le enormi potenzialità che il duo di Lyon avrà in serbo nell'immediato futuro. (Francesco Scarci)

Methedras - The Worst Within

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Death/Thrash, Dark Angel, Exodus
Inquietante il digipack che mi trovo fra le mani con una copertina orrorifica tipica delle brutal death band americane. Invece questi Methedras sono un quintetto italiano esistente addirittura dal 1996 che suona un death thrash d’annata (e non solo perché il cd in questione risale al 2006). Eh si, perché il primo nome che mi è venuto in mente, già dal primo ascolto, è quello di un gruppo storico del metal italiano, che pochi di voi conosceranno, gli Alligator. Lo stile della band nostrana riprende un certo thrash in voga negli anni ’80; palesi sono i riferimenti, secondo me a band illustri quali Exodus, Dark Angel o Testament dei primi tempi, con qualche incursione in territori death. Dall’ascolto di questi sette pezzi non rimango però così impressionato dalla capacità compositiva del gruppo che ripete pedissequamente gli insegnamenti impartiti quasi trent'anni fa dalle band storiche del genere e da qui non si smuove. Non posso stroncare la band da un punto di vista tecnico perché i ragazzi sono bravi e preparati nel costruire montagne di riffs granitici e saccheggiarci le orecchie con ritmiche martellanti, però da un punto di vista prettamente musicale non riesco proprio a dare la sufficienza ad un cd che stenta decisamente a decollare. Le song sono belle toste ed incazzate, un pugno nello stomaco, troppo poco però per farmi sussultare dalla sedia. Parecchi video live e una sezione multimediale completano questo cd nella versione limitata. Anacronistici. (Francesco Scarci)

mercoledì 8 febbraio 2017

Demogorgon - Dilemma. Revenge. Snow.

#PER CHI AMA: Black Ambient, Burzum, Enslaved
Il numero di band provenienti dalla Cina sta iniziando a crescere di giorno in giorno, merito anche della superpotenza dell'etichetta di Nanchang, la Pest Productions. Francamente, ritengo che questa ondata proveniente dall'estremo oriente sia cosa assai positiva, perché porta una ventata di freschezza ad una scena a tratti stagnante, grazie ai folklorici suoni della tradizione cinese. I Demogorgon sono una delle ultime realtà che compaiono sulle pagine del Pozzo, ma a dire il vero, alcuni suoi membri li abbiamo già incontrati in passato, in quanto l'ensemble include musicisti provenienti dai Zuriaake, Holyarrow e dai Destruction of Redemption. Ma entriamo più in profondità in quello che è il debut EP di questa band. Due le canzoni a disposizione, la lunghissima "Dilemma. Revenge. Snow." e la strumentale "Sadness Moon", per un totale di 25 minuti. Si inizia con le sonorità nordiche della title track, fatte di chitarre in tremolo picking, atmosfere fantasy, chorus epici, che potrebbero far pensare ad una qualche band scandinava dedita al viking metal, in stile Einherjer o Manegarm. I testi arrivano addirittura da una novella cinese sugli eroi marziali, "Fox Volant of the Snowy Mountain". Il risultato è ragguardevole, sebbene la produzione non sia proprio delle migliori. Quelle aspre cime innevate in copertina poi, la spada della back cover, i synth in stile Burzum con harsh vocals annesse, mi spingono a idealizzare la opening track come la melodia perfetta per le 'Cronache del Ghiaccio e del Fuoco', in un brano che tra passaggi ambient e stridori black, ha ancora modo di citare Enslaved e Windir. La seconda traccia si affida completamente al tepore dei synth, un po' come se il Burzum più minimalista, ipnotico e visionario, si mettesse a suonare una musica della tradizione cinese e con la melodia dell'ambient, riuscisse addirittura a dipingere le terre sconfinate di quella terra. Sicuramente l'esperimento riesce, grazie alla solennità dei suoi suoni e ad un incedere che va via via in crescendo, in un brano che altrimenti rischierebbe di suonare troppo ripetitivo. La colonna sonora per un qualche film epico in grado di ritrarre la Cina, la sua magia ed i suoi segreti. (Francesco Scarci)

martedì 7 febbraio 2017

Penfield - Parallaxi5

#PER CHI AMA: Electro/Prog Rock/Jazz
Al primo ascolto di questo secondo full length degli svizzeri Penfield, c’è da sentirsi disorientati. Dentro 'Parallaxi5' c’è un po’ di tutto: fusion, lounge, prog rock settantiano alla Pink Floyd, funky, dub, elettronica asciutta come nella moda contemporanea, post-rock nella gestione dei crescendo. Eppure – per strano che sembri – c’è una coerenza di fondo che è innegabile. I Penfield hanno le idee chiare, eccome, anche quando mescolano insieme generi solo apparentemente distanti tra loro. “Rosen” è l’apertura strumentale (in realtà, solo in tre degli otto pezzi appare la voce: il resto sono spoken words campionate) che muove le sue basi da una cassa reversed sulla quale si alternano soli di sax e chitarra che non possono non ricordare il David Gilmoure di 'Echoes'. C’è del funky nella seguente “La Physique Anarchique”, tinto di prog da un interessante partitura di moog, appena prima di approdare in territori più soft-jazz, dove resterà fino ai quasi 13 (lunghissimi) minuti di durata, lasciando peraltro il dovuto spazio all’improvvisazione degli strumentisti. La voce teatrale dell’ospite Walther Gallay guida “Apax 34 002”, che ha il sapore dei King Crimson di 'Islands' frullati da James Blake; ed è sempre Robert Fripp o persino Brian Eno a fare eco nella dilatatissima “Abyss”. MC Xela rappa su “Fashioned Wonderland” ed è subito r&b da club d’alta classe, in stile Fun Lovin Criminals (ma immaginateli mentre sorseggiano champagne, anziché tequila). C’è giusto il tempo per la veloce elettronica ballabile di “DNA”, ed ecco che anche Capitaine Etc. rappa su “L’Anonyme” – ma il brano è inquieto, più riff-based (ma è il moog a svolgere il grosso del lavoro), decisamente più rock prog dei precedenti. Chiude una stranissima “Les Sentiers Goudronnés”, col suo arpeggio quasi scolastico che apre a territori dub conditi da delay sul rullante, basso in sedicesimi e organo in levare. Difetti? Ce ne sono, beninteso. Troppi mid-tempo, forse. Alcuni brani troppo prolissi, ma senza manierismi fini a se stessi. Passaggi non indimenticabili (anche per l’assenza di vocals) e, in generale, un genere che non può essere ascoltato con leggerezza. Solo al secondo o terzo ascolto di 'Parallaxi5 'diventa più chiara la definizione che i Penfield danno del loro genere: cinematic prog o new prog. Una colonna sonora solida, colorata, organica, suonata e registrata impeccabilmente. Non un sottofondo da ascensore o supermercato, intendiamoci – una colonna sonora vera, parte integrante di ciò che vediamo. (Stefano Torregrossa)

Decknamen - Obsidian Scriptures

#PER CHI AMA: Post Black Strumentale
Formatisi solamente un anno fa, gli statunitensi Decknamen, dopo aver rilasciato un paio di demo nel 2016, escono con l'EP di debutto 'Obsidian Scriptures', in questo primo scorcio di 2017. Cinque tracce contenute in questo enigmatico lavoro all'insegna di sonorità post black strumentali. Lo si evince con l'introduttiva "Epos", poco più di due minuti di arrembanti sonorità estreme, in cui il trio a stelle e strisce, suona apparentemente distruttivo. A dissipare le nubi che nel frattempo si stanno già accumulando nella mia testa, ci pensa "Shrine of Amenti", un pezzo che mette in luce pregi e difetti della band. I punti di forza riguardano una certa freschezza a livello ritmico da parte del combo americano, con una certa predilezione poi nel mettere in primo piano il lavoro pulsante del basso. Tuttavia, c'è da sottolineare una certa carenza in fatto di precisione a livello strumentale, cosi come quella sensazione che la registrazione, non del tutto professionale, penalizzi il risultato conclusivo. L'apparato ritmico si conferma devastante e parecchio cupo all'inizio della successiva "Omniregency", song che trova modo di rallentare ed accelerare con una facilità disarmante. Quel che emerge però forte arrivati alla terza traccia, è la mancanza di un ultimo fondamentale strumento, la voce. Sebbene i tre musicisti siano bravi a celare la carenza di un vocalist, utilizzando in modo vivace synth e programming, e creando stridolii vari con le chitarre, la necessità di un urlatore, arriva a farsi quasi impellente verso la conclusione del disco. Sono apprezzabili le fughe post rock sul finire della terza traccia o nella prima metà di "The Black Land", segno di una certa apertura mentale e della voglia di sorprendere da parte del trio, però anche in questo caso poteva essere utile una voce, un lamento, un parlato in sottofondo che rendesse la proposta più completa. Ecco, sembra che la musica dei Decknamen sia monca, che il trio arrivi fino ad un punto ma non riesca ad andare oltre perché evidentemente c'è una lacuna profonda, un solco difficilmente superabile, a meno che non si trovino delle soluzioni alla falla. Di potenzialità ce ne sono anche parecchie, vista una rilettura abbastanza originale del genere post black, ma di strada da percorrere in futuro, ce n'è assai di più... (Francesco Scarci)