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lunedì 20 aprile 2015

Desert Near the End – Hunt for the Sun

#PER CHI AMA: Power/Thrash, Iced Earth, Kreator
Non conoscendo la band in questione, mi sono addentrato nei meandri della rete per scovare qualche notizia in più; i Desert Near the End (che abbrevierò come DNTE) sono un gruppo greco dedito ad un Power/Thrash bello potente, attivi con questo nome dal 2010 ma i cui membri militavano in altre formazioni già fin dal 2007. Musicisti con una notevole perizia tecnica, i nostri danno alle stampe verso la fine del 2014, questo full lenght (seconda uscita ufficiale della loro carriera) per l'etichetta Total Metal Records. Non posso che iniziare a parlare dell'artwork del lavoro, che a mio parere, poteva essere di gran lunga migliore e soprattutto più curato; vi confesso che ho avuto tra le mani demo con copertine più belle e più originali. Tralasciando comunque quest'aspetto, vorrei parlarvi della musica contenuta in questi 49 minuti; tra le influenze più palesi per il trio ellenico, ci sono sicuramente i grandi (almeno per me, diciamo fino ad una decina di anni fa) Iced Earth, uno dei miei grandi amori nella scena metal. Tutte le composizioni dei DNTE pagano infatti dazio a Matt Barlow e soci, così come in alcuni frangenti si possono scorgere influenze di thrash teutonico (Kreator su tutti) nelle linee melodiche delle chitarre. Da qui giungo subito alla prima conclusione: l'originalità non è certo il punto forte del gruppo greco. Ho ascoltato parecchio il disco, tanto che posso tranquillamente affermare che non si tratta di un lavoro brutto in senso assoluto, ma è altresì vero che non siamo davanti ad un lavoro che ci fa urlare al miracolo. La musica proposta si tiene sulla linea della sufficienza, le mazzate arrivano dritte a bersaglio, il disco è suonato e registrato bene, i suoni sono limpidi e cristallini, ma anche in questo campo ricalcano fin troppo da vicino le produzioni degli americani Iced Earth (in alcuni passaggi sembra di essere alle prese con un loro cd). Le otto canzoni proposte passano via senza colpo ferire, tutte abbastanza innocue sotto il punto di vista compositivo, anche se suonate molto bene e devo ammettere, anche molto potenti. La batteria costruisce tappeti di doppia cassa notevoli, il basso sempre molto presente e il riffing veemente, rendono le tracce però, un po' tutte uguali tra loro. Dal via con “Storm on My Side”, forse il miglior pezzo del lotto, si passa per atmosfere più rilassate con “Morning Star”, per poi continuare con la potenza di “Road to Nowhere”, facendo una pausa per rendere omaggio ai leggendari Blind Guardian con “Easter Path”. La corsa si conclude con gli otto minuti di “A Distant Sun”, sicuramente il mio pezzo preferito. In conclusione, un disco onesto, non certo un capolavoro; ma auspico per gli ellenici si tratti di un disco di transizione. Bisogna assolutamente allontanarsi dagli stilemi compositivi ed esecutivi degli Iced Earth, per non sembrare davvero una loro cover band; non è certo colpa di Alexandros Papandreou se il timbro somiglia così tanto a quello di Barlow, ma per carità, cantare con la sua stessa enfasi e con gli stessi accenti, mi sembra davvero troppo. Per il resto, un plauso ai musicisti che fanno il loro lavoro egregiamente. Aspetto i DNTE al prossimo appuntamento, sperando in una maggiore personalità compositiva, perché se così non fosse, sarebbe davvero un peccato. Tenetevi a debita distanza dalla Terra Ghiacciata!!! (Claudio Catena)

(Total Metal Records - 2014)
Voto: 60

Deviate Damaen - Retro – Marsch Kiss

#PER CHI AMA: Goth Sperimentale Identitario
Scrivere dei Deviate Damaen (ex Deviate Ladies), band romana attiva fin dal 1991 con trascorsi eccezionali e un curriculum musicale da far invidia a chiunque, è un compito ingrato che difficilmente riuscirò a portare a termine esaustivamente. La band, capitanata dal geniale vocalist, fondatore storico, G\Ab Svenym Volgar dei Xacrestani, è da considerarsi il modello sonoro che più rappresenta l'avanguardia estrema da più tempo in Italia. Il doppio lungo album dal titolo 'Retro – Marsch Kiss' è un colosso di schizofrenia poetica, spasmi sonici e romantici attacchi sonori a 360 gradi, costruiti con metodi lontani dalla consuetudine, distanti da tutta la musica odierna e basati sulla trasmissione costante di ideologie estreme, trasversali, deviate e perverse, un modo di intendere e fare musica che non esiste più, voluto e ricercato per dare qualcosa a tutti i costi. Ogni singola nota, rumore e parola è usata come un'arma per colpire la psiche dell'ascoltatore e indurlo alla riflessione, sana o insana che sia. La musica è un concentrato di porzioni rubate alla classica, alla lirica, alle canzoni del ventennio, marce militari tedesche, rumori d'ambiente, elettronica, dance wave, gothic rock, black metal sperimentale, tanta poesia, filosofia, storia, il mito dell'Impero Romano, Dante, la musica sacra e quant'altro che forse ora sta sfuggendo anche al sottoscritto. I testi dissacranti, iconoclasti, politicamente scorretti sono violentemente geniali, studiati per ferire, cantati in lingua madre, latino, tedesco e inglese, rispettando sempre quella forma arcaica che trova la sua miglior figura nel classicismo dell'antica Roma. Le liriche si muovono tra rimandi storici per approdare ad un confronto con la realtà durissimo, senza mezzi termini, mettendo a nudo le ipocrisie della società attuale ed il suo modo di vivere odierno. L'album è strutturato come un lungo audiolibro con tante voci narranti, dialoghi e monologhi intervallato da brani veri e propri, epici e ribelli, poco conformi alla normale forma canzone tra elettronica e post punk alla maniera dei Psychic TV e il black metal destabilizzante in odor di certe mitiche sperimentazioni rumorose dei Disiplin. Una veste perennemente teatrale lo rende molto impegnativo all'ascolto, dando comunque modo di focalizzarsi sull'originalità e la poetica dei testi, gustando alla perfezione tutta la trasgressione e la forza delle parole usate. Le composizioni sonore più rock oriented brillano di luce propria e di una prorompente personalità, riportando alla mente i grandi Disciplinatha di 'Adis Abeba', i Der Blutarsch di 'Der Sieg Des Lichtes Ist Des Lebens Heil' oppure i Death in June più sperimentali come quelli del brano "No Pig Day (All Pigs Must Die)" e nei momenti più duri si dividono tra il sound dei Christian Death (quelli di 'Pornographic Messiah'), l'avantgarde metal in stile Aborym, un pizzico punk/ hardcore vecchia scuola, passando per EBM, rumoristica, ambient minimale, recitato e canto militante di casa Ianva (altra band con cui il vocalist G\Ab ha collaborato) e tanti effetti in stile vecchio grammofono sparsi ovunque. Impossibile dunque giudicare 'Retro - Marsch Kiss' se non con il massimo dei voti (cosa quanto mai rara qui nel Pozzo), un'opera unica, che supera il concetto/valore della musica stessa per aprirsi ad un'esperienza espressiva unica che per i più potrà risultare inconcepibile ma per chi si mostrerà propenso a capirla e a condividerla, diventerà una vera chicca. Un'opera ostica, ossessiva, goliardica, crudele, realista, glam, anticonformista, folle, arguta, intelligente e incompresa. Un artwork perfetto e un booklet stracolmo di foto, testi e spiegazioni completano il capolavoro che ha impegnato la band per circa sette anni, licenziato via TSC Records nell'anno del Signore 2015. Concludo riportando una stupenda frase inserita nel booklet che la dice lunga sullo spessore di questo lavoro... "...Quanto alle “licenze poetiche”: i Deviate Damaen sono una licenza poetica vivente e militante. Una musica senza tempo... La continuazione del mito eterno, Roma caput mundi"! Ascolto obbligato! (Bob Stoner)

(TSC Records - 2015)
Voto: 100

domenica 19 aprile 2015

Omainen - Shades of Grey

#PER CHI AMA: Power Thrash, Nevermore, Testament
La Francia è attiva su tutti i fronti: l'abbiamo apprezzata poc'anzi con il math rock dei Quadrupède, in passato con i deliri estremi di Blut Aus Nord e Deathspell Omega, e anche grazie alle sonorità shoegaze di Alcest o Les Discrets. Credo fermamente che il paese dei cugini transalpini, rappresenti oggi come oggi, il luogo numero uno al mondo dove fare musica, musica con la M maiuscola. I ragazzi di oggi arrivano dalla capitale con un sound che si rifà al thrash dei Nevermore. 'Shades of Grey' è il loro roboante debutto, uscito nell'ultimo scorcio del 2014. Nove brani in tutto che vi potranno catturare per lo spessore energico delle loro chitarre. La title track, nonché anche opener del disco, mette immediatamente in chiaro le intenzioni dei nostri: il classico thrash metal melodico e schiacciasassi, grazie all'ottimo rifferama del duo composto da David e Matt, coadiuvati da Damien al basso e Rudy alla batteria. Cyril completa infine il quadro, ponendosi alla voce con la stessa attitudine di Warrel Dane nei già citati Nevermore, ma con risultati non altrettanto eccellenti. Quel che risulterà chiaro è che gli Omainen picchiano come dei forsennati e questo gli piace parecchio, ma ne costituisce un limite. Peccato infatti che un buon assolo non ne arresti la furia; tant'è vero che ho rischiato di cadere quasi immediatamente sotto i ferocissimi colpi inferti dall'ensemble francese. "New Breath" prosegue all'insegna della stessa monoliticità di fondo incontrata nella prima traccia, con un sound forse un po' troppo rigido nei propri confini musicali e con il vocalist a cantare un po' troppo per i miei gusti. Fortunatamente l'act di Parigi capisce la necessità di inserire delle varianti nel proprio sound e un paio di buoni assoli ne spezzano efficacemente la ripetitività. Con "The Great Deceit", la band diventa ancor più dinamica, sembra che impari, brano dopo brano, dai propri errori contribuendo a rendere il suono più variegato e poliedrico, grazie a ripetuti assoli che rendono il tutto più gradevole. Certo, con un Cyril un po' più intonato ed espressivo, le cose funzionerebbero anche meglio, ma si sa, lo spazio per il miglioramento è infinito. Il rullo martellante degli Omainen prosegue anche con le successive tracce, confermando punti di forza (una ritmica granitica e ottimi assoli) ma anche di debolezza (la voce è da rivedere, cosi come pure un'eccessiva staticità all'interno di schemi fin troppo definiti che rischiano di tediare chi ascolta). "When Nothingness Comes" suona al limite del doom, strizzando l'occhiolino addirittura ai Candlemass, "Rest in Violence" ha un'inclinazione più rock oriented, anche se poi il fragoroso riffing spacca che è un piacere con delle spigolose chitarre di scuola Testament. Un fugace intermezzo acustico e tocca a "The Source of All" prendere in mano le redini del disco per una portare a una degna conclusione questo 'Shades of Grey'. I suoni inflessibili della band continuano a collocarsi in un solido thrash metal assai robusto, in cui largo spazio viene concesso al potente drumming. Il disco chiude con altri due pezzi, di cui "Faultless Though Guilty" è la classica semi-ballad in stile Bay Area, che conferma luci ed ombre di una band che ha il dovere morale di migliorarsi, progredire alla ricerca di una propria personalità, sistemando qua e là un po' di cosine nella propria proposta. Coraggio. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 60

Quadrupède - Togoban

#PER CHI AMA: Math/Elettronica/Post Rock, Mr. Bungle
Signore e signori, allacciate le cinture perché la corsa sull'otto-volante sta per cominciare. Si ringraziano i Quadrupède per aver gentilmente offerto la colonna sonora del vostro giro in giostra. E dopo l'intro "Beam Pool Mom", ecco partire a razzo la musica dei francesi di Le Mans. Cosi come per l'omonima gara, il duo formato da Lemien Dacoq e Smaseph Jolley, accende i motori e via si parte per una corsa all'insegna dei suoni più impensabili. A cavallo tra il nintendocore, il math, l'elettronica e ovviamente il rock, "Mambo Pomelo" è un brano totalmente folle, una girandola di polimorfe emozioni che non vi darà tregua per un solo istante facendovi sentire in una centrifuga insieme a carote, mele, banane e altre splendidi frutti colorati, e allo stesso tempo anche nel cockpit di una macchina da corsa a sfrecciare ai 300 km/h. Le influenze dei Quadrupède spaziano dalle varianti della musica rock, alla chiptune, per finire ovviamente alla musica per videogiochi. Ebbro da tali sonorità, il cui unico imperativo è stupire l'ascoltatore grazie a decine di trovate bizzarre, cambi di tempo assurdi e mille altri suoni che varrebbero da soli l'acquisto di 'Togoban', mi lascio condurre nel Paese delle Meraviglie dai suoni sintetici della psicotica "Rhododendron". Qui vengo investito da una frammentata tempesta magnetica che destruttura ogni mio singolo neurone cerebrale con suoni cinematici che si muovono tra reminiscenze in stile Marilyn Manson collisi con il post rock, l'elettronica e sonorità orientali. Confusi? Ascoltate e capirete. Se anche voi nel corso dei sei minuti di questo brano vi sembrerà di aver ascoltato 10 differenti canzoni di 10 differenti artisti, afferenti a 10 differenti generi, non vi preoccupate, siete normali. Un breve affondo noise e ci troviamo catapultati in "ÅSTRØ" e nei suoi delicati suoni, in cui pian piano va palesandosi un nuovo delirio musicale che per certi versi - ma si tratta solo di pochi secondi - può avvicinarsi ad "Again" degli Archive. Non pensate infatti che i due transalpini si accontentino di produrre una song normale; la pazzia è dietro l'angolo e pronta a sfociare in un qualsiasi momento. La band arriva infatti a proporre un avant-rock strumentale, veloce e incalzante, di chiara concezione elettronica, sulla scia dei nostrani Eterea Post Bong Band. La malinconica "Adulthood" chiude questo poliedrico 'Togoban', un disco di 26 minuti che vi lascerà semplicemente a bocca aperta. Incredibili. (Francesco Scarci)

(Black Basset Records - 2014)
Voto: 90

giovedì 16 aprile 2015

Eibon - II

#PER CHI AMA: Sludge/Death/Black/Doom
Un vento torrido mi brucia la faccia quando il primo magmatico riff irrompe nelle casse del mio stereo, facendole vibrare in modo assai pericoloso. Ecco il preludio inferto dai transalpini Eibon e dal loro secondo disco, 'II', uscito nel 2013 sotto l'egida della Aesthetic Death. 'II' come le due tracce contenute in questo platter di quasi 43 minuti, fatto di profondi riff di chitarra che si muovono tra momenti sludge, parentesi black e abissali digressioni funeral doom, il tutto però impreziosito da un'impensabile dose di groove tipica dell'hard rock anni '70, in grado di rendere godibile questo disco anche a chi mostra qualche remora nell'avvicinarsi a sonorità cosi estreme. Non so se sia merito delle lunghe parti strumentali, o di un'intrinseca capacità del quintetto parigino, che di classe ne ha a fiotti, nell'offrire la propria musica sul piatto d'argento, ma con le psichedeliche partiture di "The Void Settlers", mi sento conquistato senza alcuna esitazione, ingurgitato in scalcinati anfratti di decadenti quartieri di Parigi, ubriacato da un sublime vino rosso e allo stesso modo mi ritrovo inebriato dalle vibranti linee di chitarra dei nostri che mi conducono ipnotizzato fino al termine della opening track, in cui è l'impetuosa ritmica a prendermi a schiaffoni senza nemmeno che io me ne renda conto. Magistrali non c'è altro da dire. Eccellente è pure la voce di Georges Balafas, non troppo esuberante nella sua performance, a cavallo tra un acido screaming e un growling profondo. A dir poco stordito dall'incipit devastante dell'ensemble francese, arrivo alla seconda e ultima traccia, "Elements of Doom", titolo che la dice tutta su quanto mi troverò davanti da qui a poco. L'inizio è affidato a rumori indistinguibili che creano una certa suspance. Il brano parte cattivo, e anche abbastanza anonimo, palesando tuttavia una palpabile tensione di sottofondo. Della lisergica matrice affidata alla prima song non vi è più traccia nemmeno dopo i suoi primi dieci minuti. Un lunghissimo (e splendido) assolo in tremolo picking, rivela la natura bizzarra della seconda parte del pezzo, in cui i cinque musicisti si rincorrono attraverso claustrofobici meandri, in cui il black dei nostri invoca nella mia mente un'insana follia omicida. Quando gli animi si placano, cala il sipario su una notte senza stelle ove la pioggia cade copiosa e il disco si chiude languido nei suoi rimanenti sei minuti di suoni lontani. Sublimi. (Francesco Scarci)

(Aesthetic Death - 2013)
Voto: 85

Woebegone Obscured - Deathscape MMXIV

#PER CHI AMA: Death/Doom/Avantgarde, In The Woods
Prosegue la ricerca quasi spasmodica in casa Solitude Productions per trovare new sensations in ambito death doom. Ormai non le contiamo più le band sotto l'etichetta russa e quest'oggi ci fermiamo in Danimarca per conoscere i Woebegone Obscured e la loro proposta di musica funerea di morte. Tre i pezzi nuovi, più due cover di cui diremo in seguito. L'Ep si apre con la title track che mette in luce una proposta assai mutevole nel suo evolversi. Il quartetto di Midtjylland infatti, non è il classico gruppo dedito a infauste sonorità oscure e asfissianti, ma c'è una certa dinamicità nelle note dei quattro, con un sound che si muove tra death, doom, black (ma solo per alcune linee vocali che dal growl sconfinano nello scream) e ovviamente funeral, senza tralasciare i classici frangenti acustici. Vi ho trovato anche un'inconsueta teatralità nelle clean vocals, quasi alla Warrel Dane dei Nevermore per intenderci, il che non guasta, e permette l'ascolto del lavoro anche ad un pubblico più ampio. L'inserimento poi del violoncello rende il tutto ancor più stuzzicante e a tratti originale. In "Catharsis of the Vessel" si intravedono addirittura tracce di un death progressive avanguardista, il che è quasi un fatto inedito in casa Solitude Prod. Si tratta di una spruzzata di sonorità bizzarre che donano una veste più intrigante a 'Deathscape MMXIV', oltreché eterogenea. Difficile comunque la digestione di questa seconda traccia, viste le ritmiche sghembe e visionarie, che in taluni frangenti mi hanno rievocato gli ultimi In the Woods. "While Dreaming in the Ethereal Garden" è l'immancabile traccia in cui trovano posto sonorità eteree, ma che in questo caso funge un po' da riempipista, prima delle conclusive cover. Appunto le cover: la prima è "Call From the Grave" dei Bathory, estratta nientemeno che da 'Under the Sign of the Black Mark' e riletta in una chiave decisamente doooom. La seconda è la famosissima "Xavier" dei Dead Can Dance: la revisione è vicina alla commovente versione originale, con il vocalist che si trova molto a proprio agio nelle tonalità alte mentre la musicalità mette in luce una vena poetica nel sound dei Woebegone Obscured. 'Deathscape MMXIV' alla fine è un lavoro interlocutorio che lascia comunque intravedere ampi margini di crescita per il futuro di questi giovani danesi. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 70

mercoledì 15 aprile 2015

My Shameful / Who Dies in Siberian Slush - The Symmetry Of Grief

#PER CHI AMA: Funeral Doom
Russia e Finlandia non sono mai state cosi vicine. Grazie ai My Shameful, da poco recensiti su queste stesse pagine e a chi ormai è un veterano del nostro sito, i russi Who Dies in Siberian Slush, ci andiamo a gustare uno split cd di 4 pezzi all'insegna di sonorità scure e contrite. Ovviamente sto parlando di funeral doom, tra l'altro di quello di pregevole fattura. Si parte con i venti minuti a disposizione della band moscovita, guidata dalle profonde growling vocals del suo frontman, Evander Sinque. "The Tomb Of Kustodiev" è la prima lunga e asfissiante traccia dell'album che mantiene tutti i caratteri distintivi dei nostri sia a livello della decadente e dolorosa musicalità che a livello solista, dove l'axeman Flint si diletta nell'uso del flanger, creando quel tipico effetto spaziale alle chitarre. La traccia è ovviamente permeata da un profondo senso di solitudine che si esplica attraverso un moto ondoso lento e flessuoso che sul finire del pezzo trova modo di sfociare in una danza bucolica, grazie all'utilizzo del flauto. Flauto che apre anche la seguente "And It Will Pass", song resa ancor più interessante, per l'uso marcato di un sinistro trombone che si posiziona tra le plettrate disarmoniche dei due chitarristi. Il sound è ovviamente lento e cadenzato, addolcito però dalla presenza costante della flautista A.Z.. Con i My Shameful si cambia registro pur rimanendo in un contesto funeral: il terzetto finlandese, come avevamo avuto modo di vedere, è fautore di un death doom meno evocativo e decisamente più ruvido. "The Land of the Living" e "Downwards" graffiano con un infingardo e malefico suono di chitarre, su cui il caustico Sami Rautio esplode la sua ferocia vocale. Fortunatamente le keys trovano modo di equilibrare un sound che altrimenti rischierebbe di peccare in indolenza. Cosi come pure le linee melodiche della seconda traccia, rendono la proposta dei My Shameful decisamente più digeribile. Se dovessi fare un confronto fra le due band, direi che i Who Dies in Siberian Slush si rivelano meno convenzionali e più attrattivi alle mie orecchie. Comunque i 35 minuti di 'The Symmetry of Grief' sono sufficienti per soddisfare i palati degli amanti del funeral doom in toto. (Francesco Scarci)

(MLF Records - 2014)
Voto: 70

martedì 14 aprile 2015

Invalids – Strengths

#PER CHI AMA: Math-rock, Emo, Tapping guitar
Pete Davis è forse un genio, più probabilmente un pazzo, di certo un musicista dal talento smisurato. Trent’anni, chimico nell’industria alimentare, fiero portatore di una barba folta e lunghissima, Pete Davis è quello che molti definirebbero un nerd senza speranza, avvitato nella sua passione per le strutture chimiche e lo studio virtuosistico della chitarra. Fosse tutto qui, non ci sarebbe null’altro da dire, se non che Davis ha anche una straordinaria creatività e una disarmante facilità nel produrre musica e canzoni degne di essere ascoltate e approfondite, se è vero che, ad oggi, ha pubblicato qualcosa come una quindicina di titoli (tra EP e album veri e propri) tutti ascrivibili interamente alla sua inesauribile vena creativa. Al momento sono tre le incarnazioni della sua espressione artistica, tre “progetti”, per dirla con un termine che oggi va per la maggiore: c’è il Pete Davis cantautore, ci sono i Surface Area e gli Invalids, sua più recente creatura e quella che lo ha portato maggiormente alla ribalta negli ultimi tempi, da quando cioè, nel 2012, è uscito il folgorante esordio 'Eunoia'. Strana, stranissima formazione, quella degli Invalids, potendo contare sul solo Davis alle chitarre e drum programming e Nick Shaw al basso. La stranezza sta nel fatto che Davis e Shaw non si sono mai incontrati di persona durante la lavorazione dell’album (e mi risulta che nemmeno oggi, quattro anni e due dischi dopo, ciò sia ancora avvenuto), ma si sono scambiati i file audio e le (complicatissime) partiture via e-mail, e ditemi voi se questa non è una cosa da nerd allo stadio terminale. Eppure, la cosa incredibile e, in fondo, la sola cosa importante è che la formula funziona e che si rimane sbalorditi di fronte a questo intricatissimo math-rock ipercinetico con forti componenti emo (soprattutto nel cantato di Davis). A lasciare a bocca aperta è prima di tutto la strabiliante tecnica chitarristica sviluppata da Davis, un tapping estremo e incessante, mutuato da band quali Maps & Atlases e TTNG e qui portato all’estremo. Non deve però passare in secondo piano l’ispirazione di Davis come songwriter, in grado di realizzare canzoni accattivanti e spesso memorabili, pur se decisamente complesse tanto nella struttura musicale quanto nei testi chilometrici. 'Eunoia' raccoglie tali e tanti consensi che è naturale pensare ad un seguito. A ottobre 2014 vede quindi la luce 'Strengths'. La formula non è cambiata, anche qui ci sono 10 brani lunghi e complessi, ognuno dei quali contiene (o almeno potrebbe contenere spunti per) almeno altre tre canzoni. Le acrobazie della sei corde sono sempre strabilianti (e lo sono anche quelle del basso, abile a seguire il leader nelle sue peripezie), anche se cercano meno il colpo ad effetto. Rispetto ad 'Eunoia' però, 'Strengths' appare più maturo e capace di rallentare, laddove l’esordio aveva il pedale dell’acceleratore costantemente tenuto a tavoletta. In definitiva un disco forse meno impressionante ma più compiuto. Non mancano i brani in cui il virtuosismo sfiora vette parossisitiche ("Sherwood is Connector", "The Horse Raced Hardest Lost") ma ci sono anche momenti più pacificati, come "Satellite", "Ironic Dysphemism", "Halo Brace" e anche canzoni che sarebbe perfino possibile canticchiare sotto la doccia (l’accattivante "Tiny Coffins"). In generale i brani hanno un respiro maggiore e si registra un interessante lavoro sulle armonizzazioni delle voci, che se da una parte va a discapito dell’immediatezza, dall’altro aggiunge fascino e profondità, anche grazie al timbro di Davis, simile in qualche modo a quello di Peter Gabriel. Che dire, un album e un artista che per sua natura può attrarre o repellere con la stessa intensità, ma che, a mio avviso, riesce ancora a rimanere un passo al di qua della linea di demarcazione con il virtuosismo sterile e autocompiaciuto. Visto che i risultati finora gli hanno dato ragione, Davis continua nella sua opera di divulgazione social, rendendo disponibili versioni strumentali di tutti i brani e perfino i tab per chi volesse provare a impararsi le parti di chitarra. Qualcuno (evidentemente dotato di talento e pazienza) l’ha fatto, ma solo per la batteria, tanto che pare che quest’estate vedremo all'opera una versione live degli Invalids. Non so cosa darei per poter assistere a un loro show, anche solo per puro spirito voyeuristico... (Mauro Catena)

(Friend of Mine Records- 2014)
Voto: 80