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giovedì 26 giugno 2014

Cecilia::Eyes – Disappearance

#PER CHI AMA: Post Rock, Shoegaze, Mono, Joy Division, Loop
Prendete i Boards of Canada, gli Explosions in the Sky, i Mogwai (quelli di 'Come on Die Young'), slavateli con la buia lucentezza dei Joy Division (quelli di 'Atmosphere' – ascoltate il brano "Lord Howe Rise" a tal proposito e ditemi cosa ne pensate) ma non pensate ad un normale post rock. La base new wave fa da padrona ma in realtà dietro c'è una volontà ipnotica, magmatica che esalta doti di apnea emotiva eccezionali e quindi inevitabilmente incastreremo la band belga nell'universo post rock, anche se veramente qui il suono ha qualcosa di magicamente '80s, di psichedelia lisergica ed atmosfere allo zolfo che poche band si possono permettere. Considerando "Lord Howe Rise" un apice irripetibile che vale da solo l'intero album, una sorta di Echo and the Bunnymen calati nei panni dei Joy Division a suonar cover di 'Disintegration' dei The Cure con il soffio orchestrale dei Mono, questo lavoro risulterà devastante a livello emotivo. Una posizione estatica continua, tra il drammatico e il volo angelico, suoni cristallini e distorsioni desertiche dal riverbero abissale, le lunghissime composizioni creano malati cocktail anfetaminici di malinconia che cullano la nostra voglia di evasione; tutto è così sonico e diligente, corrosivo e contenuto, devoto nel trattenere tutta la carica esplosiva interiore in una sorta di luce autolesionista (ascoltate la Pink Floydiana "Swallow the Key"). Ci sono i Loop di 'A Gilded Eternity' solo più liquefatti, nelle chitarre si respira il suono di "Fade Out (Loop)" ma in maniera semplicemente delicata, diversamente docile, in uno stile che lacera lentamente, un dolore al riverbero psichedelico, un mantra all'arsenico che esalta parentela nel sound con i migliori Curve rivisitati a rallentatore. Come una prigione dorata nel cosmo, come un volo verso l'infinito, sette brani per cinquanta minuti circa di pura ipnosi psichedelica. Impegnativo e geniale! Consigliatissimo (quasi obbligato) l'ascolto! (Bob Stoner)

(Self - 2014)
Voto: 80

Vanhelgd - Relics of Sulphur Salvation

#FOR FANS OF: Swedish Death Metal, Entombed, Grave, Fleshcrawl
The third full-length from Swedish Death Metal band Vanhelgd, this is prime-era early-90s worship that manages to be quite faithful to the sound and origin of the scene without doing anything really new or distinguished that would’ve set them apart. This is really Swedish paint-by-numbers style of Death Metal where the band seems to be going through the checklist of what needs to be included, which means we get that unmistakable churning, grinding buzzsaw guitar patterns and loud, thumping bass working throughout the whole album which augments the hoarse, raspy growls quite well which inevitably starts sounding quite similar to the retro-sounding “cavernous” vocal approach that many modern Death Metal bands employ in an attempt to sound “Old-School.” Thankfully, it’s not as common as that approach but remains more faithful to their forefathers which adds a defined old-school approach to their music which really sells their influences quite well and endears them to the old-school crowd if only to really make them devoid of their own identity. This is mostly due to the rather restrained tempos on display here as the band doesn’t really get up in the faster realm all that often and tends to meander around in the mid-tempo more often and only infrequently preferring to speed things up, and while this makes for a fine round of heavy riffing, pounding drum-work and the welcome amount of melody within, the identity of the band tends to get lost in a sea of mid-paced patterns and plodding rhythms that really could’ve come from any band in the genre and don’t really put them through any unique or creative patterns beyond the more Black Metal-influenced melodies it starts playing with the later in the album it goes. This results in many of the songs having a sprawling, churning pace to them that manages to compliment the attack well surprisingly, for the lack of speed in the compositions initially comes to help them in providing a natural foundation to hang the slow, droning crawls that tend to pop up through most of the tracks here and really brings up the album in places as the two elements go well together. Intro "Dödens Maskätna Anlete" pretty much gives the listener what to expect from the outset with grinding buzzsaw rhythms, pounding drums and hoarse screaming vocals that wind through multitudes of tempos from speedier sections to more down-beat, atmospheric patterns that through in some melodic buffers by nature of their downbeat tempo against the faster sections. Follow-up "The Salt in My Hands" is actually one of the better numbers when it slows down the tempo in favor of stylish tremolo-picked rhythms and a chugging rhythm section that plods along quite nicely but knows when to pick up the energy in spurts even if it spends most of the time heavily chugging away. "Where All Flesh is Soil" tends to be even more restrained and down-tempo with a lot of plodding, sluggish sections driven by the tremolo-picked riffs and blasting drum-work that becomes more influenced by Black Metal as it goes along without too much of the traditional Swedish-styled riffing. The sprawling epic "Ett Liv I Träldom" gets it right with a sparkling mixture of chugging riff-work, tremolo-picked melodies and sprawling tempo changes that keep the tight, brutal riffs in check while furthering the attempts at including the faster tempos into the epic, sprawling music and comes off incredibly well because of that. The album’s best track, "May the Worms Have Mercy on My Soul," seems to encapsulate everything about the album in a defined package, offering charging buzzsaw riffing, tight drumming and thunderous paces alongside sprawling tempos and slower melodies, a relatively fine mix that puts everything together in one place for a truly enjoyable track. Many of these elements find themselves repeated in the title track which causes this to become a secondary highlight and form a devastating back-to-back-to-back threesome of great tracks in the middle of the album. As well, "Sirens of Lampedusa" is another mixture track that highlights the more slower sections with fine up-tempo riffs and the final rattling closer "Cure Us from Life" is one of the harder tracks with an absolutely furious approach and stellar assaults. In the end, while it doesn’t really do much to isolate itself from the community their attack manages to sound decent and oddly engaging for many listens, creating a rather enjoyable if indistinguishable mark. (Don Anelli)

(Pulverised Records - 2014)
Score: 75

mercoledì 25 giugno 2014

Devlsy - A Parade of States

#PER CHI AMA: Post Black/Shoegaze, Neurosis
Che diavolo ci fa una band lituana con un'etichetta giapponese? Segno che la globalizzazione ormai regna sovrana. Oggi vi presento i Devlsy, quintetto di Vilnius, attivo dal 2011, che lo scorso novembre ha rilasciato questa release in formato usb. Si, avete letto bene, 'A Parade of States' è uscito su chiavetta. Il sound della band baltica deve aver poi attratto l'attenzione della MAA Productions, che in questo 2014, ne ha rilasciato il formato fisico. Veniamo al lavoro, un sei pezzi che si apre con "Phases", song mid-tempo che coniuga un black dalle tinte apocalittiche con un sound che strizza l'occhio ai Neurosis. Interessante l'esperimento dei nostri che sicuramente sarà di gradimento sia per chi è un fan del post metal (belle ed inquietanti le linee di chitarra) e chi del nero metallo (arcigno lo screaming). "By Design" ha un incedere grooveggiante, e di black ne resta probabilmente traccia solo nell'acida performance di Vytautas alla voce. Le ritmiche si muovono con grande pigrizia ma con un fare assai minaccioso di grande impatto emotivo. Ascolto dopo ascolto, il mio interesse in questo lavoro aumenta e ne riscopro nuove particolarità, che ad un primo assaggio non avevo colto, indice che i nostri devono avere non poche ambizioni. Tuttavia, questi musicisti non inventano nulla che non sia già stato detto, ma la rilettura offerta dalla band lituana del genere cosiddetto "post-black", si rivelerà non poco accattivante. "You Again" apre arpeggiata, ma sono i suoi cambi di tempo bizzarri a stimolare la mia attenzione. Serve tuttavia un ascolto attento per non etichettare facilmente 'A Parade of States' come uno fra i tanti lavori che escono ogni giorno in questo ambito. Lavorando un po' più sulle vocals (in "I Am no More" i nostri ci provano anche), attenuandone il loro carattere aspro e corrosivo, si potrebbero guadagnare più fan in territori post-, cosi come pure ingentilendo quei suoni più spigolosi dell'album (ascoltare a tal proposito "(Cold Glow of) Her Domani"). I Devlsy hanno grandi potenzialità e mi sorprende che nessuno in Europa abbia puntato su questi ragazzi, c'era la possibilità di ritrovarsi in casa i nuovi Neurosis o gli eredi dei Cult of Luna. Il basso ipnotico di "The Surge(ry)", la sua forza tribale dirompente, il mood shoegaze e la sua anima sperimentale, chiudono un lavoro intenso e quanto mai inatteso, che mi fa ben sperare per il futuro di questi ragazzi. (Francesco Scarci)

(MAA Productions - 2014)
Voto: 75

sabato 21 giugno 2014

Der Weg Einer Freiheit - Unstille

#PER CHI AMA: Black/Epic, Windir
Black metal di una certa caratura quello dei Der Weg Einer Freiheit (la cui traduzione sta per La Via della Libertà); mi spiace solo essere arrivato con incolpevole ritardo (2 anni) alla scoperta di questo 'Unstille', ma si sa che l'underground è sconfinato e io non riesco a monitorarlo completamente. Mi limiterò quindi ad informarvi che esiste un terzetto bavarese, di Würzburg per l'esattezza, che a luglio 2012 ha fatto uscire un lavoro per la Viva Hate Records, appunto il qui presente 'Unstille'. Album che consta di 6 tracce, che partendo da "Zeichen" fino a "Zerfall", propongono una personale visione del genere estremo, feroce, glaciale ma dotato di un certo feeling sperimentale e malinconico. La lunga opening track (12 minuti), dopo un flebile intro, irrompe con il selvaggio drumming di Tobias Schuler, una sassaiola massiccia, accompagnata dalle harsh vocals di Tobias Jaschinsky e dalla chitarra di Nikita Kamprad in tremolo picking, stile Windir. Dodici minuti in cui dovrete essere abili a districarvi tra assalti furiosi di blast beat, ferali vocals, intermezzi acustici, splendide linee di basso e malinconiche melodie. "Lichtmensch" ha un impatto ancor più devastante della precedente traccia, dove ben poco spazio viene lasciato ai frangenti più soft, per cosi dire, della band. "Nachtsam" è una song strumentale che evidenzia pregi e difetti della band teutonica, uno su tutti la mancanza della voce in un pezzo di questo tipo. "Zu Grunde" ci offre altri quattro minuti di debordate furiose che mantengono tuttavia una componente epica nella linea delle sue chitarre, mentre le ritmiche rischiano a più riprese di deragliare dai binari. Con "Vergängnis" ci avviciniamo al lato più introspettivo dell'ensemble bavarese, con un'intro acustica e una song che, su un pattern tipicamente black, inserisce rarefatti passaggi post, segno che c'è un discreto margine di manovra nella proposta dei Der Weg Einer Freiheit, che potrebbe spingerli verso nuovi orizzonti nell'immediato futuro. E arriviamo ai 10 minuti finali di "Zerfall" che mostrano ancora una volta come si possano abbinare divagazioni post rock con la furia cieca del black; il tutto mi lascia presagire che con il prossimo album, ne potremo sentire davvero delle belle. E per questo motivo, lascio volutamente il voto di 'Unstille' mezzo punto più basso, pur trattandosi di un album consigliatissimo, di cui esiste anche una versione con ben due bonus track, tutte da scoprire. (Francesco Scarci)

(Viva Hate Records - 2012)
Voto: 70

Lucertulas - Anatomyak

#PER CHI AMA: Noise/Rock
Nel lontano 2003 nasce a Venezia un trio (che si arricchirà anche di un secondo chitarrista per live) che ha all'attivo tre album e che dopo vari cambi di line-up finisce per perdere il prefisso "Super" per arrivare all'attuale nome della band. Insomma, come una lucertola che perde la coda per sopravvivere ai predatori. I Lucertulas navigano tra mari noise/punk/rock con sfumature psichedeliche, ammorbando la mente di chi li ascolta e trascinandolo in una mirabolante corsa contro il tempo. I suoni sono curati, la parte ritmica ha un taglio standard e permette di cogliere tutte le sfumature del bravo batterista, gran percussore di fusti e piatti. Le chitarre hanno distorsioni volutamente noise e scariche di basse frequenze che vengono lasciate al buon vecchio basso, ogni tanto vittima dello stesso trattamento stilistico. Azzeccato per il genere, non fraintendetemi. Il cantato è sempre bello tirato e furioso, quel giusto mix che per non perdere la folle corsa dei colleghi musicisti, non manca comunque di momenti più melodici che danno tregua a chi ascolta. "A Good Father" esplode immediatamente e in poco più di tre minuti ci presenta lo stile furibondo e velocissimo della band, un biglietto da visita difficile da dimenticare. A metà della traccia c'è spazio per un breve break che serve a scatenare nuovamente il muro sonoro e un cantato ansioso e ripetuto. Uno spruzzo di elettronica (leggasi synth) avrebbe forse personalizzato ulteriormente il brano, ma se non è nelle corde dei Lucertulas, non c'è problema. Non potrete non amare "Sickness" dove il cantato prende libero spunto dai Beastie Boys di 'Sabotage' e i primi RATM, un brano che dal vivo deve sicuramente causare distruzione ed esaltazione. Un riff introduttivo costituito da un basso distorto e da chitarre smembrate a livello molecolare e ricostruite ad hoc, rendono il sound caratteristico. Nota di merito al Dirtysound Studio e al fonico per aver creato il giusto mix musicale senza snaturare troppo gli strumenti. Un pezzo carico di groove e che ha tiro da vendere, "7" è un brano strumentale ben articolato, che inizia con un crescendo pieno di angoscia e smarrimento, spazzati via violentemente da un'esplosione sonica, che diventerà il tema della restante traccia. Ogni singola battuta e nota trasmettono la forza e il vigore insito nel trio veneziano. Le nostre lucertole si rivelano un'ottima band che non ha mollato la presa nei momenti difficili, sopravvivendo ai tempi con una continua crescita personale e artistica. Quindi massimo rispetto da supportare acquistando il vinile o il cd. Quest'ultimo è peraltro disponibile in versione limitata con case in alluminio; anche questo fa intuire la voglia di distinguersi dei Lucertulas. Bravi! (Michele Montanari)

(Macina Dischi / Robotradio - 2014)
Voto: 85

venerdì 20 giugno 2014

Blastasfuk - Super Fun Happy Slide

#FOR FANS OF: Grind, Nasum, early Napalm Death
The second release from this Australian act, this is a rather typical output and really serves to be appealing for the hardcore fans of the genre. As is typical of the kind of music usually produced here, it’s a blinding wall of noise that rips through intense, chaotic patterns that usually recall the early hardcore punk scene in terms of sheer chaotic energy and random guitar wailing is being undertaken. Still, the focus on the Death Metal roots here in terms of the rhythm section and how dexterous the rhythms become allows this one to stay more in tune with the truer side of Grindcore than most other types of bands like this, as there’s a rather more profound attempt at incorporating blastbeats and guttural Death Metal growls into the music that are a part of the general Grindcore scene. In this sense, the band certainly sets out on notable paths accomplishing this feat pretty well, but there are several problems with the album. The DIY approach to the production leaves the whole thing sounding way too thin and under-produced in comparison to more traditional Grind acts, making it plainly obvious in regards to the drumming that this is an amateur effort by clattering away on what sounds like a homemade drum-kit instead of professional-sounding equipment. There’s no power or punch in the blastbeats, which should be the most extreme part of the whole album but come nowhere close to the devastation wrought by upper-echelon bands. The repeated samples that have nothing to do with the track as a whole is another big issue, making them seem distracting rather than integral to the song as a whole, and the croaking-frog like vocals that repeatedly show up here are nothing more than a general embarrassment that it made it to tape and thought it sounded good. That just leaves the fact that the whole album is barely a half-hour with none of the tracks reaching a minute and half and having so many on here to begin with that it really could’ve gone through longer stretches of extending the songs since hardly any of them stand-out at all and don’t leave much of an impression at this excessively short length. This one really could’ve been given the time and space to stretch itself out instead of just constantly blaring through the indecipherable patterns through the awful production and then a minute later you’re stuck on another track and you can’t tell where you’ve been as the whole thing is so scattershot and disorganized that it leaves the feeling of bewilderment rather than out-and-out pummeling. As for Grindcore fans in general, this is good stuff and plays into the scene quite well with all these points about the genre proving the there’s still quality old-school Grindcore still being made, and should therefore add onto the total score below. That’s mainly for the more mainstream metal fans to follow. (Don Anelli)

(Lesstalk Records - 2014)
Score: 40

Mechanigod - Realms

#PER CHI AMA: Death/Thrash/Alternative, Meshuggah, Tool
Sbang!! Una sonora botta in pieno viso: ecco le prime parole che mi vengono in mente parlando di questo full lenght, prodotto dagli Israeliani Mechanigod. Forte di una produzione davvero impeccabile, frutto del lavoro di Daniel Strosberg ai KEOSS studios di Tel Aviv e di un mastering in pieno stile scandinavo di Jens Bogren in quel di Orebro, Svezia, 'Realms' si presenta in tutto il suo splendore. Davvero difficile far di meglio, per una band semisconosciuta; sicuramente d'impatto le note qui prodotte vanno, senza dubbio, sparate al maggior volume possibile. Sfido qualsiasi combo, anche ben più blasonato, ad aprire le danze con la magnificenza di “I Shall Remain” indiscussa perla del lotto proposto. Dopo un brevissimo intro, la sopracitata ci scarica addosso una tale quantità di potenza da restarne storditi e piacevolmente sorpresi; cosi come è successo al sottoscritto. Si continua con la maestosità di “The Serpent's Greed”, a tratti quasi progressive, in altri punti degna dei migliori Machine Head, anche se l'ombra dei Meshuggah resta sempre in agguato per tutti i 53 minuti del lavoro. Rimango senza parole. Sbalordito. Stiamo sfiorando vette che potrebbero far parte di un album capolavoro; l'intro di “SilverHaze” mi ha subito rimandato ai Tool di 'Lateralus', quando scopro uno strumentale che mi riporta in pieno ai Metallica di 'Master Of Puppets' del mai troppo lodato Cliff Burton (ascoltare le linee di basso per credere...). Come avrete capito, la varietà compositiva è una qualità che ai Mechanigod non manca di certo, così come l'abilità tecnica; col passare dei pezzi ci si rende infatti conto della qualità “totale” di questa fatica, con chitarre che poche volte hanno reso così bene l'idea di ciò che vuol dire suonare metal “moderno”. Qui dentro c'è quello che io intendo "suonare metal nel 2014", con una certa dose di paraculaggine verso il passato ma con i piedi ben piantati al giorno d'oggi; ma alla fine non si può creare un disco come 'Realms' senza essere molto, ma molto bravi. Un disco che, dopo un paio di ascolti, è già talmente entrato nel cuore di chi lo ascolta da non poterne fare a meno per diverse settimane (l'ho ascoltato ovunque...), non può che meritare la palma di miglior release da mesi a questa parte; non voglio dimenticare di citare altri pezzi assolutamente sugli scudi, quali “Mirror's Aspect” e la finale “Silent State of Mind” che sembra ancor di più omaggiare quei gran bravi ragazzi dei Tool, degno finale per un disco di questo livello. Caldamente consigliato a chi sta cercando dal metal qualcosa che non sia per forza rumore incomprensibile, a chi cerca quei gran bei chitarroni grassi, o a chi cerca riff che non siano un'inutile alternanza di plettrate su due corde, sempre quelle. Anche per chi cerca nel metal, un po' di poesia. Un disco che merita un voto altissimo; un disco che merita rispetto e un occhio di riguardo da chi ama questo “nostro”, stupendo, genere musicale. Da avere. (Claudio Catena)

(Self - 2013)
Voto: 90

giovedì 19 giugno 2014

Ea – A Etilla

#PER CHI AMA: Funeral doom, Ahab, Monolithe
È con estremo piacere che mi cimento nella recensione di questa quinta fatica in studio degli Ea. Al solito, per chi già li conosce (altrimenti mi permetto di farlo presente a coloro che ignorano l’esistenza di questa creatura oscura), i ragazzi non lasciano trapelare nulla che vada appena al di fuori delle note registrate in questo disco. Gli Ea (ma per quanto ne sappiamo potrebbero essere pure una one man band, chissà…) negli anni ci hanno abituati ad un suono votato alla terra, possibilmente adombrata e, tutt’al più, appena rischiarata da sfuggevoli raggi di luce crepuscolare. Criptici (dicono di provenire dalla Russia, sempre ammesso che questo corrisponda al vero), adornano le loro composizioni con sintetici testi scritti in un misterioso idioma antico, ricavato e ricomposto sulla scorta di studi archeologici, ed anche a tal proposito qualche dubbio può lecitamente sorgere. Quale che sia lo scopo ultimo di tutto questo mistero, di assolutamente pacifico e, per una volta, ben illuminato dalla luce del sole c’è un talento non comune emerso sin dal primo lavoro e maturato album dopo album. Notevole la capacità della band di affrontare (trionfalmente) il ben difficile salto da una struttura basata su lunghe ma separate composizioni ad un’unica suite, e questo è il secondo monolite che i Nostri partoriscono, segno di una ormai confidenza raggiunta in tal senso. Ci troviamo di fronte, per lo meno per chi scrive, al loro miglior lavoro ed, in ogni caso, a quanto di più accessibile faccia parte della loro discografia (il che è tutto dire!). Ciò che di ostico poteva essere ritrovato nei precedenti capitoli qui è stato adeguatamente smussato e levigato, senza perdere una virgola di quegli elementi di solennità ed epicità sonora che ne rappresentano senza dubbio il marchio di fabbrica. Il songwriting maturo ci dà in pasto un unicum scevro di quei momenti (per fortuna pochi) a volte vuoti, o lungaggini, che potevano essere riconosciuti specialmente nei lavori d’esordio. Di pregio l’utilizzo più marcato e convinto della doppia cassa, portando il disco a muoversi su granitiche ritmiche capaci di accelerazioni ed improvvisi rallentamenti, continuando quanto intrapreso già nel precedente album. Il riffing delle chitarre non ha subito grandi variazioni rispetto al passato, sempre portante nell’intrecciare la struttura di ogni singolo passaggio; immancabile il tappeto melodico-onirico delle tastiere a fare da supporto, nonostante un’evidente ridimensionamento dato a questo strumento rispetto agli esordi, il che non è affatto un demerito. Qua e la fa capolino l’onesto growling del vocalist, sicuramente non il migliore in circolazione, ma ben oltre la sufficienza. Solo un rapido accenno al finale, molto diverso dal loro solito in quanto quasi “tronco” rispetto alle abitudinali lunghe scie tastieristiche. Ma al di la degli aspetti tecnici, ciò che conta nell'intraprendere l’ascolto di un qualunque disco degli Ea è l’atmosfera che sono in grado di creare, capace di trasportarci in un mondo buio e meraviglioso ma non terrificante, lento ma non opprimente, epico ma non vagheggiante e dove la sensazione di smarrimento non si connota negativamente, perché alla fine si ritrova la strada di casa quasi d’improvviso. Gli Ea sono una realtà nel panorama funeral doom che ormai non si può più ignorare… se mai decideranno di mostrarsi, saranno accolti e acclamati a gran voce dal popolo delle odissee musicali. Sicuro. (Filippo Zanotti)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 85

lunedì 16 giugno 2014

Abstraction - End of Hope

#PER CHI AMA: Power Progressive, Dream Theater, Evergrey
Uno scenario post-apocalittico si delinea innanzi allo sguardo. In copertina sembrano rimaste solo le vestigia di un mondo distrutto e abbandonato dall'umanità. Uomo capace sia di questo che di creare un simbolico album, come gli Abstraction han saputo fare con il loro eloquente 'End of Hope'. Il singolo "Wolf" mette a confronto l'uomo con la bestia, la quale è molto meno crudele con i suoi simili di quanto esso non lo sia con i propri. Una città corrotta in cui l'uomo divora l'uomo con la voracità di un lupo, una foresta nella quale la bestia accoglie l'umano che sappia ascoltare il suo libero canto. La chitarra acustica di Kiril Yanev si fa portavoce del tema di una canzone tradizionale bulgara, mentre la leggenda narrata sembra scaturire da antiche storie mai obliate. Una breve sinfonia orchestrale introduce questo pezzo, che si distacca molto stilisticamente dal resto dell'album, richiamando alla mente band quali gli ultimi Wintersun e Blind Guardian. Ma resta un'impressione superficiale, dato che il sound appare più pulito e asciutto e l'organico più minimale, innestando di fatto la band in un genere che sta a metà strada tra il power e il progressive metal. Il pezzo ruota attorno al tema esposto dalla voce narrante di Mladen Medarov nelle sezioni acustiche, contrapposto ai fraseggi di chitarra elettrica di Pavel Serafimov armonizzati dall'altra di Danail Karjilov nelle sezioni strumentali. Interessante è il gioco contrappuntistico tra flauto e cembalo sul tema acustico. A metà brano un coro interpreta la parte del branco di lupi sulla base a marcia già esposta nella strofa precedente, prima dell'arrivo di un virtuosistico assolo di chitarra che anticipa la ripresa, terminante a sua volta con un finale strumentale dalla ritmica serrata e delle code. Allo scattare del secondo brano l'ascoltatore è catapultato negli anni ottanta, con un incipit che sembra un tributo alla celebre "Two Minutes to Midnight" dei Maiden. "Wondering" si presenta come un pezzo dal testo contemplativo, nel quale è manifesta solo in seguito l'amarezza lasciata da un incolmabile vuoto. Una celata rabbia non sfogata ma interpretata dalla musica con una struttura a blocchi e poi triplette nei chorus con tastiere nello sfondo e una sezione di cori nella parte centrale e finale che rappresenta, a causa dell'incerta intonazione, il vero neo del pezzo. Un brano che a tratti ricorda i Bon Jovi degli esordi, in particolare nelle vocals, nel quale viene inserita una sezione strumentale prog che riprende temi ritmici caratterizzanti lo stile dei Dream Theater, complici però un forzato connubio di stili, un cantato non abbastanza sostenuto ed esplosivo e un songwriting non in linea con le atmosfere musicali, si tratta di un capitolo dell'album poco riuscito. La scacchiera è pronta, le pedine di "The Game" cominciano a muoversi. Le prime a spostarsi sono tre e corrispondono ad altrettante stanze nelle lyrics, le quali esplorano sia il punto di vista dei vincitori che dei vinti, nell'eterna lotta tra chi ha potere e chi non ce l'ha. La terza stanza è un chorus, nel quale è interessante lo scambio tra la voce e un contrastante cembalo synth. Questa struttura ripetuta due volte cede il posto, dopo un intermezzo di cembalo, a uno strumentale che ha molti punti in comune con le sonorità e le ritmiche degli Iron ma strizza l'occhio anche al prog nell'uso di controtempi e poliritmie. Il pezzo si chiude dopo un significativo "GAME OVER" che riporta trama e musica all'inevitabile fato. "The Last Man On Earth" è forse una delle immagini più belle ed evocative dell'opera. E proprio di opera metal si tratta, l'intro riporta potenti alla mente le suggestioni dei Rhapsody of Fire. Chitarra acustica e flauto precedono un coro, questa volta dal sapore epico. I neoclassici fraseggi di chitarra solista strizzano l'occhio a Luca Turilli. Le vocals molto dirette e ruvide qui non disturbano perché ogni riff e ogni sezione strumentale risulta perfettamente incastonata, per un pezzo che sicuramente brilla in quest'album come un gioiello. Samples tratte dalla serie tv 'Kingdom Hospital' dialogano attivamente con la musica in questo strumentale "Piece of Life". Non è necessario dilungarsi sulle prime sperimentazione in tal senso da parte di mostri sacri come i Pink Floyd, nei quali musica e suoni diventavano un tutt'uno; precisando che uno tra i primi brani a introdurre registrazioni vocali parlate e attive nella musica fu "Space-Dye Vest" (Dream Theater, Awake, 1994). "Shattered Pieces" incarna appieno nelle tematiche il concetto espresso dal titolo dell'album. Difficile non pensare a band quali gli Evergrey ascoltandone le idee musicali, dove ad atmosferiche linee di piano e archi son contrapposti potenti e decisi blocchi ritmici. E così i pezzi del puzzle che compongono i sogni vengono sparpagliati a ogni scarica strumentale e la voce si fa portante nell'esporre questa rassegnazione, in modo talvolta troppo monocorde. Ottima la sezione solistica di chitarra centrale che anticipa un parlato accompagnato dal piano, punto di luce che trafigge i nembi di un brano vagamente monodico. Le lyrics di "The Righteous Path" abbandonano sentieri piani e sgombri per seguire vie più anguste e simboliche, cosa che finora mancava nel songwriting dalla band, in cui la bellezza delle tematiche veniva troppo spesso impoverita da un'espressione troppo diretta e prevedibile. Inaspettato è il pizzicato introduttivo e il ritmo ad accentuazione irregolare che ne consegue, per uno dei pezzi più progressivi dell'opera e uno dei più caratterizzanti. Spiazzano i ritmi a singhiozzo di Antonio Velkov, essenziale e magistrale dietro le pelli della batteria da inizio a fine album. Stupisce il primo vero intervento solistico di Ivaylo Rashev al basso, che confeziona un intermezzo con imitazione a due voci alle estremità del campo uditivo e un giro ammaliante su una base calma e suadente che ricorda un suo gemello marchiato John Myung nella multiforme "Breaking All Illusions". Questi a loro volta racchiudono una parte vocale doppiata una una voce parlata distorta, che allarga il campo dei narratori del testo. Ma le sorprese non finiscono, alternati al riff tematico più volte esposto in modo ubriacante, vi sono un assolo di tastiera e un altro intermezzo dal sapore contrappuntistico e questo contrasto da equilibrio compositivo al tutto. Ora è il turno di uno dei capitoli concettualmente chiave del concept, "Requiem for a Dead Planet". Poche parole cariche di significato trasportano attraverso futuro e passato, attraverso una musica graffiante, introdotta da acustica e samples create con autentiche registrazioni della NASA. L'inizio è una grande rullata, che si fa portavoce dei singulti di un pianeta morente, le vocals sono dirette ma questa volta supportate da un coro di milioni di voci che l'atmosfera creata dalle tematiche fa credere di percepire, lamenti di esseri morenti. Mai più espressivo è stato un silenzio, quello strumentale, che lascia il posto nei suoi vuoti a una voce, carpita da trasmissioni radio distorte, dialogandovi attivamente. Questo e molto ancora in un brano che crea un alone lunare profetico, sublime come l'immagine sibillina della tragica sorte del mondo nelle ultime pagine de 'La Coscienza di Zeno'. Quando la narrazione musicale e tematica sembra arrivata al culmine della tensione ecco "Same Again", stelo d'erba accarezzato dal vento, affacciato a un precipizio. L'unica ballad dell'opera acquista ancor maggior forza, nel suo esser conclusiva e solitaria. La voce ruvida e diretta del vocalist acquista qui una commovente morbidezza e assieme alla prima traccia costituisce una delle prestazioni migliori di Medarov, che qui duetta con una bella base di piano pad firmata Serafimov, che si apre assieme alla sua voce ad armonie vaste e irraggiungibili da voce e piano presi singolarmente. Un testo d'amore, distanza e separazione, ispirato al film di Danny DeVito 'The War of the Roses' da cui sono estrapolati dialoghi a creare una samples che accompagna tutto il brano. Un episodio che fa pensare, perchè il contesto rende questo brano speciale e in un certo senso dal taglio inaspettato. Gli Abstraction hanno dimostrato in questo lavoro grande maturità compositiva, una non comune capacità strumentale e una sensibilità viva e lungimirante nelle tematiche. Davvero notevole il lavoro di mix e master, come la qualità della registrazione e la pulizia di esecuzione e sound nella parte strumentale. La sezione vocale si presenta spesso non all'altezza di quella strumentale, in intonazione e impatto d'insieme per quanto riguarda i cori; in sostegno ed espressione per quanto riguarda la solista, che suona spesso troppo di gola e poco agile nel muoversi nel suo registro. La band deve ancora trovare un proprio stile, in quanto le varie e variegate idee musicali risentono spesso di troppo manifeste influenze di altri gruppi. Ciò ha però reso possibile un album davvero ricco di idee e pure ben sviluppate. Anche il songwriting possiede questa varietà, tanto da dover precisare come impropria la definizione univoca di concept per quest'album. Simbolico ed evocativo è l'artwork firmato da Ivan Maslev. Non è un caso forse che il nome "Ninfa" che appare sulla nave riporti alla mente il mito greco di Dafne, trasformata in alloro per sfuggire alle lusinghe amorose del dio Apollo. E in albero è tramutata anche questa barca volante, attraccata a un molo fantasma al di sopra del volo dei gabbiani, tema che rimanda alla moderna arca di Noé di cui tratta "Requiem for a Dead Planet", la cui rotta è lo spazio, la conquista di nuove terre da consumare e l'inevitabile fine dell'umanità, fino a un ultimo e definitivo apocalisse. (Marco Pedrali)

(Self - 2014)
Voto: 80