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domenica 4 marzo 2012

Cronian - Enterprise

#PER CHI AMA: Avantgarde, Epic, Progressive, Borknagar, Vintersorg
Che meraviglia! Per chi, come me è fan di Borknagar e Vintersorg, avrà da che leccarsi i baffi ascoltando il cd degli scandinavi Cronian, che altro non sono, che Andreas Hedlund (aka Vintersorg) e Oystein G. Brun, songwriter dei Borknagar. La direzione musicale del duo? Beh facile intuirlo: prendete il lato più atmosferico dei Borknagar, abbinatelo alla bellissima voce di Mr. V (sia in versione pulita, un po’ meno nella versione gracchiante), aggiungete un pizzico di avantgarde e sonorità molto simili alle colonne sonore e il gioco è fatto. Nove splendide perle musicali, che vi porteranno in un universo parallelo, fatto di suoni epici, orchestrali e ariosi, con gli affondi black che si sono fatti sempre più rari, rispetto al passato. I Cronian hanno preso le distanze dal precedente “Terra” e con questo secondo capitolo si gettano in territori decisamente più progressive, più ricercati, raffinati e più a passo con i tempi, con una costante ricerca della perfezione dei suoni, ben bilanciati nel loro incedere armonioso. Segno della maturazione dei, senza ombra di dubbio, ma indice che il mercato stia diventando sempre più difficile e competitivo e solo se si hanno idee vincenti si può andare avanti. I Cronian hanno grandi idee e classe da vendere, ma questo lo sapevamo già, vedendo le altre esperienze dei nostri. La parte centrale di “Enterprise” regala comunque i momenti più ispirati dell’album con “Project Hibernation” e “Deportation”, due pezzi uniti dall’intermezzo “Cirque”, capaci di sorprendere l’ascoltatore con le sue accattivanti melodie, le sue brillanti orchestrazioni e lo strabordante uso di sintetizzatori. Peccato solo che talvolta la voce di Mr. V si lasci andare in screaming, che ormai hanno ben poco ha che fare con il genere proposto. Grandissimo comeback per i nuovi alfieri del metal d’avanguardia... (Francesco Scarci)

(Indie Recordings)
Voto: 85

sabato 3 marzo 2012

Tears of Mankind - Memoria

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Katatonia
Ennesima one man band proveniente dalla Russia, più precisamente dalla sconosciuta località di Surgut, Khanty-Mansi, con già due album all’attivo per il gruppo Solitude Productions e il consueto sound all’insegna del death doom, quello più orientato verso gli esordi dei Katatonia però, piuttosto che di scuola britannica. Comunque, classica intro ad aprire, prima che il mid-tempo canonico di “In the Embrace of Eternal Sunshine” ci avvinghi e ci faccia sprofondare nel torpore più cupo. Si perché, se devo essere sincero, non ci sono cosi tanti momenti vincenti in questo lavoro, che fa della anonimia delle chitarre la sua, ahimè, nota dolente. Si tratta infatti di ritmiche assai cadenzate, in cui trovano spazio fortunatamente, inserti di tastiere, che, nonostante la loro elementarità, provano a donare quel pizzico di malinconia al tutto, o forse tentano di impreziosire una release che non brilla di certo in termini di originalità. Mi spiace e mi sembra al contempo strano, cogliere in fallo la BadMoodMan Music, con una release non completamente all’altezza. E dire che il pedigree dei Tears of Mankind è di tutto rispetto, con una miriade di demo alle spalle (9!) e “Memoria” che costituisce il quarto lavoro in studio. Le tracce procedono stancamente, sempre prive però di quella verve che un genere simile, dovrebbe avere. Insomma anche la terza “Deadly Desire” si rivela noiosetta, se non fosse per quelle keys che cercano di salvare il salvabile, donando un po’ di interesse alla musica del mastermind russo; pure con la quarta “Passion Blackfathom Deeps” si corre il rischio di affossarci del tutto, con quella sua ritmica rilassata, su cui trovano posto le (poco entusiastiche) growling vocals di Philipp. Insomma neppure il cantato mi soddisfa, lo trovo decisamente poco espressivo e questo può costituire un problema, quando lo scopo del nostro eroe dovrebbe essere quello di emozionarci; fortunatamente la song si riprende nella sua seconda metà, complice un’atmosfera più appassionante che ne riaccende l’interesse e un giro di chitarra che sembra in realtà preso da “Shades of God” dei Paradise Lost. Strano ma vero, l’album inizia a decollare con “Under the Great Dome”, merito di un sound decisamente più fresco e vivace, che si mantiene comunque sempre in territori death doom. Con “So Long and So Recently”, ripiombiamo nella bulimia di suoni, che si limitano ad imitare quanto fatto una ventina d’anni fa dai maestri del genere. Con la settima song, si apre la seconda parte del cd, dedicato a pezzi cantati in lingua madre, le cui liriche sono ad opera di Sergey Terentjev, le quali mostrano un piglio decisamente più introspettivo rispetto alle precedenti: le chitarre sono quasi ovunque arpeggiate e le vocals, spesso pulite, assumono un tono bizzarro nel loro manifestarsi, mentre l’aura che avvolge le composizioni, ora si fa più legata al gothic dark anziché al doom. Peccato non riesca a tollerare il cantato (non proprio intonato) in lingua madre, altrimenti qualcosa in più l’avrei anche concesso. Comunque la prova dei Tears of Mankind non rimarrà certo negli annali della musica death doom, ci sarà da rimettersi a lavorare duramente alla ricerca di un ben più delineata personalità, cercando magari di ripartire dalla proposta della palpitante ultima traccia. (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 60

venerdì 2 marzo 2012

Diseaase Illusion - Backworld

#PER CHI AMA: Swedish Death, Dark Tranquillity
Che gran piacere incontrare nuovamente i Disease Illusion, dopo averne recensito positivamente nel 2008 l’EP che segnò il loro esordio sulle scene, averli additati ad essere una promettentissima new sensation del belpaese e ritrovarmeli ora tra le mani con questo nuovo “Backworld”; vuol dire che ci avevo visto giusto, quindi. Il quintetto di Bologna, segnato profondamente dal sound di Gothenburg, dopo quasi quattro anni arriva al tanto sospirato full lenght di debutto, un album che conferma quanto di buono fatto in passato dal combo emiliano, che abbandonati del tutto gli ammiccamenti al melo death dei Children of Bodom, fatica invece decisamente a scrollarsi di dosso quelli dello swedish death. Non che sia grave, però la sensazione che si ha fin dall’iniziale ascolto di “The Last Murder”, è quello di avere fra le mani il nuovo platter dei Dark Tranquillity. Nulla di allarmante direi, dal momento che la fattura del prodotto in questione è davvero buona: ritmiche al fulmicotone, malinconiche linee di chitarra, le vocals incazzate di Fabio, sempre a cavallo tra l’urlato e il growling. Figo, mi piace! Torno nuovamente a scuotere la testa al ritmo, in realtà mai troppo forsennato, dei nostri; “Eyes of Medusa” e “Predator” (già contenuta nel precedente EP) sono due altri begli esempi di come prendere in prestito le idee dei godz svedesi e reinterpretarle, mantenendo comunque intatto il feeling di matrice svedese. Si beh ecco, mettiamola cosi, se avessi inserito “Backworld” nel mio lettore, senza sapere si trattasse dei Disease Illusion, avrei scommesso una sostanziosa somma che la band potesse provenire dalla Svezia. Prendetelo pure come una critica, ancor meglio come un complimento, perché a me, che sono un fedele sostenitore del genere, la proposta del combo felsineo piace e non poco. Si, è chiaro che tra le mani non c’è nulla di originale, ma dove sta scritto che necessariamente si debba proporre un qualcosa di unico, se cosi fosse probabilmente le band in circolazione sarebbero cento anziché un milione, quindi avanti cosi, se le emozioni che i nostri sanno infondere sono quelle di una forte carica adrenalinica, malinconia per quelle chitarre che danzano nella terza “Predator”; ansia per l’incedere minaccioso di “From Ashes to Dust” (anch’essa contenuta nel primo EP); rabbia per le ritmiche tirate di “Denied”. Confermo ancora una volta la bontà in chiave esecutiva dei nostri, che vede sempre nelle due asce, Dario e Federico, degli abili strumentisti. Ultima menzione per un altro paio di brani che mi hanno entusiasmato: “One Last Breath”, che se avesse mostrato delle clean vocals avrei potuto immaginare come estratto di “Projector” e peraltro song da cui i nostri hanno estrapolato un video ed “Everything into Nothing”, per quel suo riffing nevrotico ed il suo struggente break centrale. Davvero un’altra bella prova dei Disease Illusion, che mi fanno ancora guardare fiducioso al futuro, sperando che prima o poi questi ragazzi ottengano tutta l’attenzione che meritano. Non mollate! (Francesco Scarci)

(Ultimhate Records)
Voto: 75
 

domenica 26 febbraio 2012

Northwail - Cold Season

#PER CHI AMA: Black Death Progressive, Lux Occulta, Behemoth, Akercocke
Storicamente la Polonia, musicalmente parlando, è sempre stata caratterizzata da band che hanno saputo mischiare una certa brutalità sonora, guidata da eccellenti linee melodiche di chitarra, con ambientazioni atmosferiche; penso ad act quali Behemoth, Vader, Vesania o Decapitated, tanto per citare i nomi più famosi, band da sempre sulla cresta dell’onda per la coerenza che li contraddistingue. L’underground pullula anche di altre eccezionali realtà e i Northwail sono una grande scoperta per il sottoscritto, in questa ottica. Dirompenti già dalla prima “Where God Ends…”, song che ci sbatte fin da subito in faccia la genialità di questo quartetto, che ha saputo conquistarmi non solo a livello di musicalità assai travolgente, ma anche per il messaggio di cui si fanno portatori e che può essere semplicemente riassunto con la frase posta in fondo al booklet, relativa alla fondamentale differenza tra la religione, basata sull’autorità e la scienza basata invece sull’osservazione e la ragione e come tale, in grado di vincere perché funzionante. Ma torniamo ad analizzare i nostri da un punto di vista meramente musicale, perché l’attacco frontale a cui si viene sottoposti con la opening track, è da lasciare basiti: chitarre funamboliche si rincorrono lungo i nove minuti e mezzo della sua durata, mentre la ritmica tonante, martella come un ossesso. Mi vengono in mente i Mithras o gli Akercocke e la loro fantastica imprevedibilità, quando in mezzo a tutto questo marasma sonoro, ecco un improvviso break acustico, a cui segue un ennesimo uragano di follia. Ed è ecco venire a galla lo spettro ormai scomparso una decina di anni fa dei connazionali ed emblematici quanto mai schizofrenici, Lux Occulta, miscelati a qualcosina anche dei nostri Ephel Duath, in un risultato che ha del miracoloso. Sono rapito, vi si sembrerà strano che un cosi selvaggio connubio tra black e death, che si ripeterà anche nelle successive tracce, possa conquistare alla grande il buon vecchio Franz. Ma dovreste ascoltare con le vostre orecchie quello che questi scalmanati polacchi hanno partorito. Cinque tracce di magniloquente e dinamitardo black death dalle tinte progressive. Si prosegue con “Faith and Hope are Fodder for the Blind” e il risultato non cambia poi tanto: l’avvio è un po’ più canonico, ma si sente che la pentola è li li per bollire e la furia minacciosa pronta ad esplodere e un flusso di fuoco a innalzarsi verso il cielo, come nei film. Ed eccola, veemente e maligna, la fiamma bruciare il cielo e chiazzarlo di rosso sangue. Il ritmo è nevrotico, e si traduce in un riffing sincopato in stile Infernal Poetry, con cambi di tempo repentini e le growling vocals di Morph ad accompagnare egregiamente il tutto. Il cielo “sanguinolento” tende ad assumere sfumature più plumbee, quando nel mezzo del brano, l’atmosfera si incupisce e nuvole cariche di pioggia appaiono lontane. Ragazzi miei, che tecnica, che precisione chirurgica, che mazzate nei denti, i Northwail hanno rilasciato un lavoro da lasciare le bocche spalancate, non solo aperte, specialmente quando ad aprire “Rediscovered Beauty of the Internal Evil”, ci pensa un attacco tipicamente brutal accompagnato da tocchi di pianoforte, vocals arcigne e suoni articolati, iper tecnici. Ancora una volta il quartetto di Szczecin si rivela imprevedibile in ognuna delle sue scelte, e si conferma tale in tutti i 51 minuti di questa brillante release, ahimè autoprodotta. “White Noise Ghosts” e la conclusiva “Path to the Black Lodge is Opened by Fear”, confermano la vena dei nostri e quindi quanto scritto di buono sino qui; auspico pertanto di iniziare a leggere un po’ più spesso il nome di questa esaltante nuova realtà della scena polacca, i Northwail, non ve li dimenticate! (Francesco Scarci)

Cult of Luna - Somewhere Along the Highway

#PER CHI AMA: Sludge, Post Metal
A volte quello che può scatenare l’ascolto di un disco ha dell’incredibile: emozioni profonde, distorte, talvolta in grado di turbare l’ascoltatore, di gettarlo in una profonda paranoia o generare ansia, paura, malinconia e angoscia. Direi che questo gioiello degli svedesi Cult of Luna, raccoglie un po’ tutti questi elementi e li proietta nella mente e nell’anima di noi ignari fruitori della loro musica. “Somewhere Along the Highway” è un piccolo capolavoro di Post-Core o come preferisco definirlo io, di “semplice” post rock. Sette tracce monolitiche, che mi tolgono assolutamente il respiro, per il loro incedere pachidermico, lento ma inquieto; sette brani introspettivi, psichedelici, strazianti e malinconici, dove le chitarre doom si fondono alla perfezione con il growl tormentato di Klas Rydberg, amalgamandosi poi con atmosfere estremamente rarefatte, cupe ed impenetrabili. I Cult of Luna sono dei pittori: con la loro musica pennellano paesaggi desolati, lande ghiacciate del Nord Europa, tenui luci crepuscolari e lo fanno con una naturalezza disarmante. 64 minuti di musica da vivere tutta di un fiato, musica che ci trasporta in un vortice d’insana follia, ci catapulta in un mondo parallelo fatto di suoni gelidi ma accattivanti, lenti ma potenti, violenti ma rilassati, aggressivi ma romantici... difficile descrivere un album così complesso come questa tappa inquieta dell’act svedese, tante e tali sono le emozioni che ne scaturiscono dal suo ascolto. I brani, sebbene la loro notevole durata, scorrono come il placido fluire di un fiume nel suo letto e io mi abbandono a questo scorrere, mi lascio sopraffare dalle lisergiche atmosfere create abilmente dalla mente di questi sette ragazzi. Notevoli le ultime due song del cd, “Dim” e “Dark City Dead Man”, vero apice dello spleen emozionale dei nostri, per le loro oscure ambientazioni su cui si innestano intriganti inserti elettro-noise. Nella discografia della band svedese, “Somewhere Along the Highway” rappresenta sicuramente il picco artistico mai raggiunto e l’unico consiglio che posso darvi è di acquistare questo disco se già non è custodito gelosamente nella vostra raccolta di dischi, per non perdervi ancora a lungo le suggestioni che questa perla rara nel marasma musicale, può suscitare... (Francesco Scarci)

(Earache Records)
Voto: 90
 

Icon & the Black Roses - Icon & The Black Roses

#PER CHI AMA: Love Metal, Gothic, HIM, The 69 Eyes
Gli Icon & The Black Roses, al loro esordio discografico per la label tedesca Dark Wings, si candidarono a diventare la nuova sensazione gothic-metal "made in Finland", se solo non provenissero da Lisbona! Un'affermazione al limite dell'assurdo, me ne rendo conto, ma anche la più schietta e veritiera, se si pensa all'effettiva fonte d'ispirazione di questi cinque ragazzi. Il filone del metal "romantico" inaugurato da HIM, To/Die/For e The 69 Eyes non è solo un semplice punto di riferimento per il gruppo portoghese, ma un'influenza da cui attingere a piene mani, nel tentativo di carpire ogni aspetto più intrigante del genere e assimilarlo nelle proprie composizioni senza risultare mai sgradevoli o pacchiani. Vorrei precisare che, non essendo un grande sostenitore del cosiddetto "Love Metal" (definizione che, per giunta, trovo orribile), non sono nemmeno la persona più adatta per recensire un disco che si rifà in modo così appassionato a queste sonorità. Devo ammettere però che i ragazzi sono in gamba e l'ascolto del cd si è rivelato comunque piacevole. Di "zucchero" gli Icon & the Black Roses ne usano in gran quantità ma sanno anche suonare molto bene e scrivere delle belle canzoni, due prerogative che non sempre sono così diffuse tra le band in erba intente a seguire i passi dei propri colleghi più famosi. Per il resto, il gruppo possiede tutte le caratteristiche per fare innamorare ogni ragazzina gotica dal cuore inquieto e dalla lacrima facile, vale a dire melodie vellutate, purpurei fraseggi di tastiera, robuste chitarre che rimandano subito al suono potente dei To/Die/For e infine una prova vocale fortemente debitrice dello stile "Valo", con tanto di quei respiri interrotti, quei sussulti e quelle esitazioni che fanno apparire la voce di Ville così sensuale. Non è da meno João Silva (ovvero Johnny Icon), che, oltre a dimostrarsi un "clone" apprezzabilissimo del cantante degli HIM, nell'album dà prova di notevoli doti interpretative. Resta un ultimo appunto: tentare a tutti i costi di cavalcare il successo di un genere musicale fortunato è sempre un arma a doppio taglio, per cui non so immaginare se in futuro i cinque portoghesi sapranno emergere dall'anonimato. Certo, i nostri hanno giocato al meglio le loro carte anche se dovrebbero liberarsi dalla pesante influenza HIM, unendo alle proprie capacità tecnico-compositive delle forti dosi di personalità, che per ora sembrano ancora mancare. (Roberto Alba)

(Darkwings)
Voto: 65

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sabato 25 febbraio 2012

Soul of Steel - Destiny

#PER CHI AMA: Power/Progressive, Dragonforce, Sonata Arctica
Una band totalmente italiana, salentina per l’esattezza, che si mantiene nel filone del rock/metal: questi sono i Soul of Steel, composti da Gianni Valente (voce), Nicola Caroli (chitarre), Valerio De Rosa (chitarre), Daniele Simeone (tastiere), Nicola Logrillo (basso), Nicola Chiafele (batteria) e Roberto Tiranti (voce principale). “Destiny”, il loro primo lavoro ad un primo ascolto risulta orecchiabile ed energico con un sound che ricorda il power metal degli anni passati: la prima immagine però che mi è venuta in mente è stata quella dei Beehive, mentre suonano questo album. Apre la classica “Intro” fatta di suoni campionati, che tentano di creare una certa suspense, tuttavia non riuscendoci. Con “Swordcross” la vena power di cui parlavo pocanzi emerge totalmente, dapprima con un riff di chitarra accompagnata dalla batteria, poi anche con la tastiera e la voce. È grazie ai cambi di melodia e di velocità, se la canzone non risulta noiosa: se il cantante si mettesse a giocare sulle varie tonalità, il lavoro sarebbe più accettabile. “Running in the Fire” si apre più melodica, con le keys che danno il via libera agli altri strumenti: rispetto alla precedente song, questa tende ad essere più lenta e in certi tratti anche ripetitiva sia a livello lirico che musicale. Di buono c’è la parte solista, tutto il resto è poco più che accettabile. “Reborn” è caratterizzata da un ritmo incalzante e dalla preponderanza del connubio chitarra-batteria-tastiera. Il ritmo continua sulla falsariga degli altri pezzi, mentre la voce cerca di essere più energica. Dalla metà del brano in poi il ritmo rallenta, fino a creare un’aria più malinconica. Chiude il tutto un assolo di chitarra. Arrivati finalmente a metà album: “Wild Cherry Trees” è una delle tracce più melodiche di tutto l’album: la chitarra è per lo più acustica, il che associato alla tonalità dolce del cantante, crea un risultato apprezzabile. Solo verso la fine fa la sua comparsa la chitarra elettrica, come una specie di toccata e fuga. Lasciamoci alle spalle l’acustica, arriva “Till the End of Time”: sulla falsa riga di “Reborn”, ne sembra quasi la sua continuazione. L’unica cosa diversa è l’ausilio dei cori nel ritornello; per il resto, come già detto, sembra la gemella della quarta traccia. “Endless Night” si avvale della collaborazione di Roberto Tiranti dei Labyrinth: già dalle prime note, si può sentire un tentativo di lasciare in parte la melodia e dedicarsi maggiormente ai suoni power, con chitarre elettriche e batteria portati ad una velocità maggiore. Persino il cantato risulta più sperimentale, più energico: la flemma che presentava nei brani scorsi viene un attimo lasciata indietro. Merito della voce del Labyrinth? Probabile. Lentamente ci si avvicina alla fine dell’album, incontrando sul cammino “Wings of Fire”: portando avanti quella carica nata dalla canzone precedente, risulta anche gradevole, se non fosse per un assolo di chitarra un po’ troppo lungo: per il resto segue il leit motiv di tanta tastiera, batteria in secondo piano e tanta, tanta chitarra. Leit motiv del power metal, insomma. Con “Destiny”, title track, si chiude questa prima fatica dei Soul of Steel: melodica, ma sfruttante più le note elettriche anziché quelle acustiche, ne esce una canzone ricca di cori, con la tonalità vocale portata ad un livello più alto (ideale per il pubblico ad un ipotetico concerto, con le braccia ondeggianti e mani munite di accendini). Ciò che traspare da subito è un senso di malinconia così profondo che fatica a lasciarti persino dopo la fine del disco. In conclusione, c’è da dire che la voce nel complesso è poco incisiva e poco melodica (accomunandoli a due delle band power metal in circolazione – Sonata Arctica e Dragonforce – siamo molti gradini più in sotto): essendo però il primo lavoro, non resta che aspettare ed augurarci che il prossimo cd sia più energico e che trasmetta anche delle sensazioni più vere. (Samantha Pigozzo)

(Underground Symphony)
Voto: 50

Ceremonial Perfection - Alone in the End

#PER CHI AMA: Swedish Death, In Flames, Children of Bodom
Voi non avete neppure idea quanto meraviglioso sia avere delle aspettative ed essere certi che non verranno mai tradite. Questo per dire che quando ricevo un album da una di quelle tre minuscole repubbliche baltiche, so per certo che tra le mani qualcosa di interessante e che stuzzichi i miei sensi, c’è sempre. E oggi, l’album che mi accingo a recensire, ha tutte le carte in regola per suonare accattivante, emozionarmi e farmi scuotere il capo al ritmo grooveggiante delle sue facili melodie. I Ceremonial Perfection provengono dall’Estonia, suonano uno swedish death, stracolmo di groove, che riprende gli insegnamenti provenienti dal sound degli In Flames, capiscuola di questo filone. Nove le tracce contenute in questa brillante prova, “Alone in the End”, che sin dalla seconda “Symbols and Processes” (tralascio l’intro), ha il pregio di conquistarmi con la potenza del suo suono, la purezza della produzione, i chorus ruffiani, le melodie orecchiabili, le chitarre a la Dark Tranquillity, i suoi break in stile Children of Bodom, le vocals arcigne di Vitaly e quanto mai di meglio i nostri potessero rubare alla tradizione scandinava. La band mi ha già soggiogato con questa prima traccia, pur non avendo inventato nulla di nuovo. Abili strumentisti, i Ceremonial Perfection si rivelano anche eccellenti rifinitori e ottimi compositori, in grado di tracciare splendide melodie avvolgenti su una base ritmica sempre galoppante, anche se talvolta il quintetto estone si concede delle pause, per lasciarci prendere fiato: break acustici, mid-tempos, intermezzi tastieristici contribuiscono infatti a rendere “Alone in the End” un lavoro d’ampio respiro, vario e che decisamente non rischia di scadere nella noia totale. Tra le mie tracce preferite, vi voglio segnalare oltre all’opening track, “My Labyrinth”, la song più ricercata e differente del lotto e quella che prende anche maggiormente le distanze dallo swedish death; “Asymmetry”, roboante, frenetica, violenta e fresca come il vento di marzo nelle prime tiepide giornate di primavera. Questa in soldoni, la proposta di questi giovani ragazzi; non lasciatevela scappare! (Francesco Scarci)

(Fono)
Voto: 75