#PER CHI AMA: Power/Progressive, Dragonforce, Sonata Arctica |
Una band totalmente italiana, salentina per l’esattezza, che si mantiene nel filone del rock/metal: questi sono i Soul of Steel, composti da Gianni Valente (voce), Nicola Caroli (chitarre), Valerio De Rosa (chitarre), Daniele Simeone (tastiere), Nicola Logrillo (basso), Nicola Chiafele (batteria) e Roberto Tiranti (voce principale). “Destiny”, il loro primo lavoro ad un primo ascolto risulta orecchiabile ed energico con un sound che ricorda il power metal degli anni passati: la prima immagine però che mi è venuta in mente è stata quella dei Beehive, mentre suonano questo album. Apre la classica “Intro” fatta di suoni campionati, che tentano di creare una certa suspense, tuttavia non riuscendoci. Con “Swordcross” la vena power di cui parlavo pocanzi emerge totalmente, dapprima con un riff di chitarra accompagnata dalla batteria, poi anche con la tastiera e la voce. È grazie ai cambi di melodia e di velocità, se la canzone non risulta noiosa: se il cantante si mettesse a giocare sulle varie tonalità, il lavoro sarebbe più accettabile. “Running in the Fire” si apre più melodica, con le keys che danno il via libera agli altri strumenti: rispetto alla precedente song, questa tende ad essere più lenta e in certi tratti anche ripetitiva sia a livello lirico che musicale. Di buono c’è la parte solista, tutto il resto è poco più che accettabile. “Reborn” è caratterizzata da un ritmo incalzante e dalla preponderanza del connubio chitarra-batteria-tastiera. Il ritmo continua sulla falsariga degli altri pezzi, mentre la voce cerca di essere più energica. Dalla metà del brano in poi il ritmo rallenta, fino a creare un’aria più malinconica. Chiude il tutto un assolo di chitarra. Arrivati finalmente a metà album: “Wild Cherry Trees” è una delle tracce più melodiche di tutto l’album: la chitarra è per lo più acustica, il che associato alla tonalità dolce del cantante, crea un risultato apprezzabile. Solo verso la fine fa la sua comparsa la chitarra elettrica, come una specie di toccata e fuga. Lasciamoci alle spalle l’acustica, arriva “Till the End of Time”: sulla falsa riga di “Reborn”, ne sembra quasi la sua continuazione. L’unica cosa diversa è l’ausilio dei cori nel ritornello; per il resto, come già detto, sembra la gemella della quarta traccia. “Endless Night” si avvale della collaborazione di Roberto Tiranti dei Labyrinth: già dalle prime note, si può sentire un tentativo di lasciare in parte la melodia e dedicarsi maggiormente ai suoni power, con chitarre elettriche e batteria portati ad una velocità maggiore. Persino il cantato risulta più sperimentale, più energico: la flemma che presentava nei brani scorsi viene un attimo lasciata indietro. Merito della voce del Labyrinth? Probabile. Lentamente ci si avvicina alla fine dell’album, incontrando sul cammino “Wings of Fire”: portando avanti quella carica nata dalla canzone precedente, risulta anche gradevole, se non fosse per un assolo di chitarra un po’ troppo lungo: per il resto segue il leit motiv di tanta tastiera, batteria in secondo piano e tanta, tanta chitarra. Leit motiv del power metal, insomma. Con “Destiny”, title track, si chiude questa prima fatica dei Soul of Steel: melodica, ma sfruttante più le note elettriche anziché quelle acustiche, ne esce una canzone ricca di cori, con la tonalità vocale portata ad un livello più alto (ideale per il pubblico ad un ipotetico concerto, con le braccia ondeggianti e mani munite di accendini). Ciò che traspare da subito è un senso di malinconia così profondo che fatica a lasciarti persino dopo la fine del disco. In conclusione, c’è da dire che la voce nel complesso è poco incisiva e poco melodica (accomunandoli a due delle band power metal in circolazione – Sonata Arctica e Dragonforce – siamo molti gradini più in sotto): essendo però il primo lavoro, non resta che aspettare ed augurarci che il prossimo cd sia più energico e che trasmetta anche delle sensazioni più vere. (Samantha Pigozzo)
(Underground Symphony)
Voto: 50