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domenica 22 gennaio 2012

Moloken - Rural

#PER CHI AMA: Post Metal, Sludge
Li avevamo lasciati poco più di un anno fa, nell’autunno del 2010 con il loro primo brillante full lenght, “Our Astral Circle” e ora finalmente ritornano i fratelli Bäckström, come sempre egregiamente supportati dalla Discouraged Records, con un nuovo lavoro. Il sound non cambia cosi palesemente rispetto al precedente album, e di certo non può essere un male, se eravate rimasti piacevolmente impressionati da quella release. La musica dei nostri continua dunque a viaggiare in territori post metal/sludge, di quello però dalle tinte più fosche, meno accessibile, più carico di rabbia e di certo meno pregno di facili melodie. “Rural” è un album incazzato, mettetevela via. Nelle sue sette song e nei suoi lunghi cinquanta minuti, alterna umori che serpeggiano tra il furibondo e l’irascibile, lasciando saltuariamente spazio a frangenti al limite del post rock (la seconda metà di “Ulv”). Quel che mi stupisce maggiormente nella nuova opera dei Moloken, è una certa combinazione nei suoni che escono dalle corde delle chitarre, talvolta veramente deliranti o del tutto disarmonici (penso al finale psicotico di “Waltz of Despair” per esempio o all’ipnotico inizio della già citata “Ulv”, song pachidermica – della durata di 16 minuti – feroce ma al contempo oscura, che rimembra quei vaneggiamenti di scuola Ved Buens Ende), che contribuiscono a disorientare non poco l’ascoltatore. La tribale e schizofrenica “Casus” funge da ponte di connessione con “Blank Point” e a poco a poco inizio a realizzare quanto di buono sia contenuto in “Rural”, un lavoro a dir poco controverso, sicuramente di difficile digestione, ma data la sua complessità, dall’importante divenire. Le vocals di Niklas continuano ad essere al limite del cavernicolo, cosi come sottolineato nella precedente recensione, ma poco importa in quanto misuro la band nella sua capacità di variare le proprie sonorità e vi garantisco che non c’è un attimo di tregua in cui si corra il rischio di appisolarsi o adagiarsi, sebbene si abbia l’impressione che il sound dei nostri possa talvolta rimanere intrappolato in sonorità doomish o addirittura psichedeliche (e penso alla soffocante e malata “Thin Line”); nessuna paura però, perché il quartetto di Holmsund ne esce ancor più inferocito e pronto a maciullarvi le ossa. Sono sconquassato dall’irruenza dei nostri, dal loro cupo grigiore, quasi stessi osservando il sole che tramonta veloce all’orizzonte, lasciando ben presto il posto ad una fitta nebbia che si impossessa dell’oscurità della notte. Ostili, nevrotici, glaciali, paurosi; sono solo alcune degli aggettivi che escono dalla mia mente dopo l’ascolto di questo deturpante “Rural”, album da avere ad ogni costo nella vostra collezione. Farneticanti! (Francesco Scarci)

(Discouraged Records)
Voto: 85
 

Huldra - Signals from the Void

#PER CHI AMA: Post Metal, Ambient, Isis, The Ocean
Navigare nel web è un po’ come visitare una galleria d’arte: puoi ammirare qualcosa di meraviglioso oppure puoi avere la sfortuna di incorrere in qualcosa difficilmente intellegibile o addirittura privo di senso. Quest’oggi devo ammettere di essere stato assai fortunato e il trovarmi fra le mani l’EP d’esordio degli statunitensi Huldra, rappresenta una buona medicina per superare queste gelide giornate invernali. Il quintetto di Salt Lake City ci ammalia fin dalle prime note con un post metal atmosferico che subitamente richiama alla memoria i maestri Isis e The Ocean, e sinceramente, avendo grande nostalgia per la band di Boston ed essendo un grande fan del collettivo di Berlino, mi lascio immediatamente cullare dalle sonorità proposte dai nostri. Si parte piano, quasi in punta di piedi con “A Signal Permeates the Sky”: i primi cinque minuti sono dominati da chitarre vellutate, sonorità darkeggianti, vocals pulite, ritmiche blande e suoni dilatati (sludge, si confermo), prima che l’ensemble nord americano sprigioni la propria forza dirompente, scatenata da una sezione ritmica pregevole e dal growling furente di Matt Brotherton. Ma è solo un fuoco di paglia perché la rabbia dei nostri dura pochi minuti, prima di lasciare ancora una volta il posto a notturne sonorità post rock, che anticipano l’esplosione finale, che mi fa innamorare immediatamente del suono di questa new sensation d’oltreoceano (esiste infatti solo dal 2009). Un intermezzo ambient/noise fa da ponte alla successiva “Ashen Lips”, che si apre con un arpeggio e una ancestrale melodia; i toni sono soffusi (chi ha citato i Mogwai?), la voce lamentosa e in sottofondo, ma la tensione è palpabile, non vi è tranquillità, si intuisce che qualcosa sta per accadere e poi, eccola la fragorosa esplosione delle chitarre e del growling possente di Matt. Eh si, il gioco della prima song si ripete anche in questa seconda traccia, che nei suoi dieci minuti abbondanti incanta per i suoi cambi di tempo, per quegli effetti cosi tanto posti in sottofondo da risultare a dir poco ipnotici; le chitarre si incrociano in duetti da lasciarci senza fiato, e il vocalist dà sfoggio di una eccellente performance vocale. Sono estasiato e non mi accorgo che un altro intermezzo mi accompagna alla conclusiva “A Foothill Lies on the Backside of the Mountain that Looms Before us”, undici minuti che si aprono in modo tenebroso, angosciante, ma ormai so già cosa attendermi, mi sono preparato al sound dei nostri: mi stanno solo tendendo una trappola, dove non voglio assolutamente cadere. Facile a dirsi, un po’ più difficile a farsi. Le note sono deliranti, le vocals cariche di pathos, malinconiche; le chitarre si rincorrono affannose in quest’ultimo drammatico saluto, che chiude un lavoro di tre pezzi (per 42 minuti di musica spaccati), che ha il pregio di conquistarci sin dalle prime battute e deliziarci nonostante la lunghezza delle sue suite. Una sola parola per gli Huldra: sublimi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85
 

lunedì 16 gennaio 2012

Never Die - The Source of Black Waters

#PER CHI AMA: Death Symph, Trail of Tears, Tristania
“The Source of Black Waters” rappresenta il secondo lavoro per la band russa Never Die, fautrice di un death gotico di pregevole fattura. Non deve trarre in inganno infatti l’attacco brutal death che segue la intro del cd, “Ejected from the Dephts” e le orrorifiche growling vocals di Regina Mukhamadeeva, che sembra quasi la reincarnazione russa della nostrana Cadaveria; il sound del sestetto di Bashkortostan assumerà ben presto connotati più umani e melodici, già a partire dalla seconda parte di “Ejected from the Dephts”, dove a contrastare la furia dei nostri ci pensa la versione da soprano della brava Regina. Dopo la tempesta impetuosa del primo pezzo, i nostri, pur mantenendo un sound bello potente, con una ritmica costantemente martellante, piazzano li una serie di pezzi che si fanno notare per una marcata dinamicità di fondo, un più che discreto tecnicismo, e interessanti parti atmosferiche che ben si incastrano nel tessuto ben oliato di questa inaspettata macchina da guerra, senza tralasciare le operistiche vocals femminili, che alla fine risultano essere il solo punto di contatto che la band può avere con il gothic metal sinfonico. Mi ha sorpreso infatti leggere sul flyer informativo che la band proporrebbe un death gothic, mi verrebbe più da etichettare il tutto come un techno death accompagnato da voci da soprano, e vi garantisco che “Inner Sense” sintetizzerebbe alla meraviglia il tutto. La musica dei nostri non gode infatti di momenti di pausa (se vogliamo escludere la melensa “Sunstroke”), è un caterpillar irrefrenabile che spazza via qualsiasi cosa incontri sul proprio percorso, tanto che alla fine del cd, l’unica cosa che alla fine trovo fuori luogo finisce per essere proprio la versione più angelica della voce di Regina, altrimenti avrei apprezzato maggiormente la tumultuosa release di questo ensemble proveniente dalla gelida Russia. C'è ancora margine di miglioramento, quindi diamoci da fare! (Francesco Scarci)


(Darknagar Records)
Voto: 65

Raven Tide - Ever Rain

#PER CHI AMA: Gothic, Dark
Ricevo l'album, guardo la copertina e il retro cd e noto che sono italiani. Bene! Dopo i miei “giri” per l'Europa del nord, mi accingo a recensire una band di Prato, per di più composta da una bella fanciulla e tre cavalieri di nero vestiti, formatisi nel “vicino” 2009. Si parte con "Stillness", song caratterizzata da sonorità elettroniche e da melodie ricordanti tematiche medievali (l'immagine che traspare è un castello merlato con attorno campi sterminati brulli, su cui si svolgono le tipiche battaglie). Tralasciando l'ettronica, con "Alfirin Alagos" si prende il sentiero del gothic metal, caratterizzato da tastiere che accompagnano la suadente voce di Cheryl, mentre Shark, Fred e Mark (rispettivamente chitarra, basso e batteria) rimangono sullo sfondo, senza essere mai troppo invadenti. Il risultato è un brano di facile ascolto, tranquillo e dolce. Con "Doom Reveil" il sound cambia radicalmente, tornando all'elettronica della opening track: un connubio, quello con la voce dolce e pulita, che risulta molto commerciale e adatto ad un pubblico più femminile. Con "End to the Flame" i toni rasentano la calma e l'acustica più assoluta, con il pianoforte e la voce di Cheryl, per un brano in cui a trasparire c'è solo tanta tristezza e malinconia, sottolineate anche dall'assolo di chitarra che si presenta solo da metà brano in poi. Con "Lucifer Bliss" il sound si fa più duro, grazie all'apporto di Giovanni Bardazzi, vocalist proveniente dai Raze and Symbiotic; ovviamente l'aria dolce e femminile di tutto l'album non ne risente in alcun modo, ma viene semplicemente confrontata con il growling di Giovanni, in quello che risulta una sorta di “la Bella e la Bestia”. Si chiude così questo primo lavoro, più adatto - come detto prima - ad un pubblico di giovincelle che si accostano per la prima volta al mondo del metal, senza traumi. Sebbene per i più metallari questo album possa sembrare fin troppo leggero, questa band ha della stoffa per creare altri album di impatto e qualità maggiore. Staremo a vedere (e sentire) i prossimi lavori. (Samantha Pigozzo)

(UK Division)
Voto: 60

Torsense - World of Harmony Without You

#PER CHI AMA: Black Symph, Dimmu Borgir, Cradle of Filth
Ritorniamo a recensire un buon cd di un gruppo di origine russa, i Torsense: “World of Harmony Without You” contiene 10 brani. Dopo i consueti preamboli iniziali, parliamo in dettaglio delle song. Il cd sin dal suo inizio suona potente, deflagrante, dannatamente ritmico e brutale, scevro di qualsiasi momento di rilassamento ma anzi tutto il contrario; questo è un lavoro che coinvolge, ti trascina con sé, nel suo mondo, nella sua dimensione. Detonanti mi viene da pensare. Le armonie musicali non sono mai scontate anche se legate strettamente al genere, tuttavia il combo russo ha trovato una propria dimensione, un proprio mondo, una propria strada e questo non ci può fare altro che un gran piacere. Il cd scorre veloce, musicalmente e ritmicamente potente e cattivo. In tutto il lavoro, si percepisce la voglia di dare una propria impronta, senza per forza scadere in quella sensazione di noia da ripetitività; in ogni brano, in ogni ascolto c’è da scoprire qualcosa di nuovo, qualcosa di piacevole. Qui troveremo chitarre pesanti, una batteria che esplode in una ritmica selvaggia; ci sono poi le parti orchestrali e la suadente voce femminile, sempre assai elegante. “World of Harmony Without You” è un uragano nel cervello, come pochi... Pezzi come “Thunderstorm”, “Aridization”, “Immersion In To Darkness” o “Quake Of The Earth“, sono pezzi che danno l’idea della brutalità dei nostri con un sound devastante, ispirato ai maestri del genere, Cradle Of Filth (dei primi lavori), e Dimmu Borgir, per quelle atmosfere cupe contrapposte alla pomposa sinfonia che popola questo lavoro. Cosa interessante dei Torsense è poi il cantato, rigorosamente in lingua madre (russo), che rende il tutto ancora più particolare ed affascinante. Il decimo pezzo è una bonus track, e devo dire che, anche se è la song che chiude il lavoro, arriva dritta nella testa e nello stomaco. Questo lavoro sintetizza in sé, bravura musicale e creatività, il che vi farà venire voglia di riascoltarlo, sicuramente acquistarlo e tenerlo nella nostra discografia. Non vi annoierete di certo ad ascoltarlo, in quanto i ragazzi russi hanno preso la strada giusta e meritano di essere seguiti; in attesa di un loro secondo lavoro (non fateci aspettare troppo però), il mio pollice vira verso l’alto; bravi ragazzi, andate forte, i nostri occhi sono puntati piacevolmente su di voi. Alla prossima. (PanDaemonAeon)

(Grailight Prod.)
Voto: 75

http://www.myspace.com/torsenseband

Funeral - As the Light does the Shadow

#PER CHI AMA: Doom, Candlemass, Yearning
A distanza di poco più di un anno dal fortunato “From These Wounds”, tornano alla ribalta i norvegesi Funeral, portatori di suoni oscuri, malinconici, a tratti catacombali, che tuttavia, rispetto alle origini hanno saputo fare modificare qualche aspetto del proprio stile, rivedendo in primis, ad esempio, l’uso della voce, non più growl come nel loro debut, ma che si rifà chiaramente ai maestri del doom, gli svedesi Candlemass. Questo lavoro della band scandinava continua pedissequamente quanto proposto nel precedente lp: sonorità assai rallentate al limite del funeral, atmosfere ossessive e claustrofobiche, sorrette dai classici riffoni ultra distorti delle chitarre. Una voce lamentosa, a tratti epica (in stile Yearning), contribuisce poi ad accentuare il lato più melodico dei nostri, senza però tuttavia convincermi del tutto. Quello che invece più mi ha affascinato sono le terrificanti orchestrazioni che la band costruisce, ambientazioni drammaticamente laceranti l’anima, con quel loro incedere funereo. Tristezza, desolazione e dolore, ma anche eteree orchestrazioni gotiche, sono le armi vincenti di questo disco, che sicuramente non rappresenterà un masterpiece per le generazioni future, ma che comunque piacerà a chi non riesce a fare a meno della profonda oscurità della notte. Criptici! (Francesco Scarci)

(Indie Recordings)
Voto: 70
 

domenica 15 gennaio 2012

Enslaved - Vertebrae

#PER CHI AMA: Death Black Avantgarde
L’esplorazione musicale fa parte del DNA di uno dei gruppi storici della scena black norvegese, gli Enslaved. Nati come una black metal band, il quintetto nordico, ha saputo evolvere il proprio sound attraverso un percorso stilistico senza precedenti, miscelando prima il black al viking e poi volgendo la fiamma nera verso sonorità progressive, che hanno contribuito a definirli i “Pink Floyd dell’estremo”. E cosi, ci troviamo finalmente tra le mani questo “Vertebrae”, che riprende sostanzialmente il discorso iniziato in “Monumensium” (l’album a cui s’ispira maggiormente questa nuova release) e poi proseguito brillantemente, attraverso i vari “Below the Lights”, “Isa” e “Ruun”, che tra l’altro portò alla vittoria la band, nei Grammy Awards norvegesi. “Vertebrae” non rinnega le radici black dell’act scandinavo (soprattutto nell’uso delle vocals più ruvide che si alternano alle clean vocals), ma è un viaggio psichedelico, in cui i nostri ci accompagnano alla scoperta di sonorità sempre più sperimentali, tenendo come punto di riferimento gli epocali Pink Floyd (meravigliosa “Ground”, con quel rifferama che ricalca lo stile di Dave Gilmour e soci e con quel nostalgico apporto dell’hammond che ci catapulta direttamente negli anni ‘70), arricchendo inoltre il proprio bagaglio stilistico, di una componente alternativa, che ci riporta alla mente i Tool. L’atmosfera che si respira in questa nuova release (la decima per la band) è cupa e angosciante, secondo me grazie al lavoro alla consolle di Joe Barresi (Tool e Queens of the Stone Age), in grado di enfatizzare il lato più malinconico del combo norvegese. Non mancano le sfuriate estreme, basti ascoltare la quinta traccia “New Dawn”, vera e propria cavalcata nei meandri del black metal, interrotta soltanto dai vocalizzi cibernetici di Grutle. La cover artwork visualizza il concept lirico di “Vertebrae”: una vertebra nel mezzo della copertina che simbolizza la potenziale forza dell’umanità e al tempo stesso il proprio fragile centro nevralgico; le vene che dipartono da qui, rappresentano poi la connessione tra mente e carne. Insomma, ennesima brillante uscita per i poliedrici Enslaved, che inanellano un successo dopo l’altro, proponendo un suono avanguardistico, che non potrà non piacere né ai fan dell’ultima ora, né ai vecchi black supporter della band, né a chi col black metal ha ben poco da spartire. Eclettici! (Francesco Scarci)

(Indie Recordings)
Voto: 80
 

Flauros - Monuments of Total Holocaust

#PER CHI AMA: Black Symph. Dimmu Borgir, Thyrane
Era il 2000 e il titolo altisonante non lasciava presagire niente di buono su questo mcd, ma una volta inserito il disco nel lettore i finlandesi Flauros si sono rivelati una piacevole sorpresa. Sebbene il gruppo non proponga nulla di eclatante in quanto a originalità, riesce comunque a farsi apprezzare, assestandosi su standard ben al di sopra della media. "Monuments of Total Holocaust" è un mcd di cinque brani dal sapore molto epico, supportati da un sound ruvido e da una ferocissima prestazione vocale che finalmente non ha niente a che vedere con l'imbarazzante gracchiare di tanti altri singer. Non mancano melodia ed inserti di tastiere che comunque sono usati con parsimonia e trovano il loro spazio qua e là, senza apparire "ruffiani" o stravolgere la struttura del brano. Se dovessi azzardare un paragone, senza scomodare le inevitabili influenze di nomi più storici, accosterei lo stile dei Flauros a quanto fatto dai conterranei Thyrane sul debutto "Black Harmony". Devo ammetterlo, questi finlandesi mi hanno colpito ed era da tanto che non sentivo una band così valida tra le nuove leve! (Roberto Alba)

(The Twelfth Planet Rec.)
Voto: 70

Firewerk - Circuit and Curses

#PER CHI AMA: Industrial Metal, KMFDM
Sorprendenti questi Firewerk! Sorprendenti quanto sconosciuti, verrebbe da aggiungere. Eppure “Circuits and Curses” rappresenta il loro secondo album autoprodotto e a quanto pare vantano anche un discreto seguito all'interno della scena underground di Detroit, la loro città d'origine. John e Matthew Cross, Tony Hamera e Alex Bongiorno: un gruppo di ragazzi estremamente affiatato che con sè porta delle idee molto chiare sulla direzione stilistica da seguire e non fa segreto nemmeno delle proprie fonti ispiratrici, mettendo in musica un bagaglio di influenze che vanno dai Ministry agli Skinny Puppy, da Gary Numan ai KMFDM. In particolare, è proprio del marchio KMFDM che il gruppo si dimostra debitore, offrendone però una variante piuttosto personale che evita qualsiasi tentativo di "plagio" nei confronti della storica band tedesca. “Circuits and Curses” segue di due anni l'uscita del debutto “Amplified Fragments” (datato 2002) ed è composto da undici brani di industrial metal suonato divinamente, così divinamente che ci si chiede per quale motivo un gruppo tanto capace sia costretto ad autoprodurre i propri lavori. Difatti, alla luce di quanto si poteva ascoltare già nel loro primo album, il fatto che nessuna casa discografica abbia dimostrato interesse verso i Firewerk appare quanto meno strano e rafforza ancor di più la convinzione che l'attenzione verso l'underground musicale sia sempre meno focalizzata a setacciare i talenti laddove vi è qualcosa di realmente valido. Ad ogni modo, “Circuits and Curses” non necessita dell'appoggio di una grossa label perché emerga il suo valore, basti ascoltare brani come “Chase Scene”, “Illusions” o “Pray” per accorgersi di una produzione dal suono limpido e impeccabile, di una programmazione dei synth intelligente e addirittura invidiabile per la sua perfetta integrazione nello scheletro ritmico dei pezzi, ma soprattutto si evince una dote rara, quella di riuscire a trasformare la semplicità strutturale del proprio songwriting in una collezione di brani potenti e dal refrain irresistibile, la cui energia è sempre convogliata ai centri nervosi più ricettivi. Contattate il gruppo e ordinate una copia di “Circuits and Curses”, non ve ne pentirete! (Roberto Alba)

(Self)
Voto: 75