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sabato 12 ottobre 2019

Acid Brains - As Soon as Possible

#PER CHI AMA: Grunge/Punk Rock
Gli Acid Brains sono una storica band toscana, formatasi addirittura nel 1997 e dedita ad un alternative-punk rock, che torna a farsi largo sulla scena con questo nuovo sesto album dal titolo ben chiaro, 'As Soon as Possible'. Appena possibile quindi date un ascolto a questo lavoro che si muove dall'ipnotica opening track, "Our Future", giocata su profonde partiture di basso e voce, a cui segue una bella e potente linea di chitarra. Con "Go Back to Sleep", le carte sul tavolo si sparigliano e si torna a parlare di un classico punk rock, orecchiabile e canticchiabile quanto basta per farci venire voglia di saltare e urlare come pazzi, proprio come lo sguaiato urlo che il frontman riversa verso la fine del pezzo, mentre le ritmiche corrono arrembanti e ci conducono con furia a "Sinners". Il motivetto di chitarra e voce iniziali entrano nella testa e da li non se ne escono grazie a quella graziata ritmica che contraddistingue la song. Suoni leggeri che sfiorano addirittura la psichedelia in "Really Scared", un pezzo che mostra un'apertura quasi di scuola floydiana, prima che la song s'incanali in una linea melodica più lineare rispetto alle precedenti, sicuramente più seriosa e meno scanzonata, quasi a dire che gli Acid Brains vanno presi sul serio. Ma l'eterogeneità è parte del DNA dei nostri e allora in "Not Anymore", eccoli proporre un sound decisamente più roccioso e grunge oriented (penso ai Nirvana più rozzi e cattivi), e non a caso questa sarà anche la mia song preferita del lotto. C'è tempo ancora per un paio di canzoni cantate questa volta in italiano, "Capirai" e "Canzone di Settembre": la prima, nonostante il riffing bello compatto che chiama in causa i System of a Down, perde potenza quando si palesa il cantato in italiano. La seconda, è un esempio di pop rock che ho fatto più fatica a digerire, cosi lontana dai miei canoni sonori, ma ci sta considerata appunto l'ecletticità degli Acid Brains. Discreto ritorno, peccato solo che la durata del cd sia piuttosto risicata, avrei optato almeno per un paio di pezzi in più. (Francesco Scarci)

Solitude in Apathy - S/t

#PER CHI AMA: Dark/New Wave/Gothic
I Solitude in Apathy sono un trio campano formatosi nel 2016 e guidato dalla calda voce di Santina Vasaturo, la cui avvenenza vocale funge da vero driver di questo lavoro omonimo. Si tratta di un EP di quattro pezzi aperti da "Dreaming in Silence", ove a mettersi in mostra, oltre ai tratti vocali della front woman, ci sono pure le partiture post punk/new wave del combo napoletano. Il sound è fumoso e ci porta indietro nel tempo di quasi trent'anni, con quegli ammiccamenti alla scena dark di fine anni '80, affidati al basso tortuoso della stessa Santina ed in generale ad un suono che proprio limpidissimo non è. Ma dopo tutto, sembra non essere nemmeno un difetto nell'economia generale di questi 22 minuti di musica targata Solitude in Apathy. Soprattutto perchè, con la seconda "Nothing Lasts Forever", i nostri virano verso uno shoegaze più meditativo e fortemente malinconico, la classica song atta ad aprire la stagione autunnale, con l'appassire delle foglie, le umide giornate novembrine, i vetri delle finestre bagnati dalla condensa e quei cieli dipinti di un grigio privo di sfumature. È un sound delicato, non certo ricercato, ma che gode di influenze che ci portano anche della sfera del gothic e dell'alternative. "The Other" è la terza traccia, peraltro anche singolo apripista dei nostri: la voce eterea della vocalist poggia suadente in apertura sul suo basso, ricordando le cose più solenni e tranquille di Myrkur (in formato new wave), cosi come un che dei primi vagiti di Kari Rueslåtten, alla guida dei primi The 3rd and the Mortal. Niente di originale sia chiaro, tuttavia non posso negare il fatto che il brano sia comunque piacevole da ascoltare, anche se francamente avrei osato qualcosina in più. L'ultima song è "Ocean", l'ultimo onirico canto della sirena Santina, in una sorta di ninna nanna che avrei utilizzato come chiusura di un full length piuttosto che di un EP. Avrei gradito infatti più ciccia ecco, i due minuti di flebile chitarra sul finale sono un po' pochini per farmi gridare al miracolo. Pertanto, sappiate che attenderò il trio italico al varco di un album più lungo e strutturato prima di dare giudizi conclusivi. Per ora benino, ma si sa, io pretendo il molto bene. (Francesco Scarci)

(Vipchoyo Sound Factory - 2019)
Voto: 66

https://solitudeinapathy.bandcamp.com/releases

Lucy Kruger and the Lost Boys - Sleeping Tapes for Some Girls

#PER CHI AMA: Psych Folk
Il paesaggio rimane immobile, tutto rimane immobile, luminoso, splendente e riflessivo, dopo l'ascolto di questo album edito dalla Unique Records. Tocchi leggeri di chitarra a scandire melodie astrali di una voce incantevole, ritmi leggeri, eterei, appena accennati per introdurre arie di magica seduzione e ipnotica malinconia. Solo così si può spiegare la seconda uscita, 'Sleeping Tapes For Some Girls', di questo splendido progetto della songwriter Lucy Kruger (già voce degli ottimi Medicine Boy) proveniente da Cape Town ma berlinese per la gestazione della sue opere sonore, che suona come Hugo Race & The True Spirit a rallentatore, rievocando la candida psichedelia folk e blues degli Opal, dei primi Low e le atmosfere evanescenti di certi Slowdive (epoca 'Souvlaki') virati al folk con la struggente malinconia acustica dei Cranes più delicati e se non possiamo premiarli col voto massimo all'originalità, poiché il genere intrapreso è ferreo nelle sue caratteristiche estetiche, li premieremo per l'implacabile bellezza di cristallo della Kruger, che in "Digging a Hole" stringe alleanze niente meno che con l'inarrivabile voce della mitica Nico. Brano dopo brano ci si addentra in un universo intimo ed introspettivo, la splendida "Half of a Woman" potrebbe far impallidire o svanire i brani dell'ultimo album di Florence and the Machine, per intensità e profondità espressiva. Il freddo del nord s'impossessa della chiave più intima del caldo verbo folk e sfodera gioielli di raffinata e rara bellezza, come "Cotton Clouds", una canzone così immobile, glaciale e sospesa in aria tanto irreale quanto magnifica. Ecco, da qui in poi il disco, che gode di una sonorità encomiabile, snocciola un gioiello dopo l'altro, accompagnando l'ascoltatore verso la conclusione, con una mistica sensualità destabilizzante, tra rituali e canti dal sapore antico e sciamanico, visioni di paesaggi sconfinati e irraggiungibili, tra Sharron Kraus e gli Hagalaz Runedance in salsa "All Tomorrow's Party (The color of Dirt)", un viaggio incredibile verso il mondo interiore, ove aprire il proprio cuore per aprire la mente attraverso le cerebrali composizioni di questa fantastica cantautrice, dalla spettacolare voce magnetica e seduttiva. (Bob Stoner)

venerdì 11 ottobre 2019

Late Night Venture - Subcosmos

#PER CHI AMA: Post Metal, Cult of Luna, Ufomammut, Type O Negative
Strano ma vero, la Czar of Crickets Productions ha deciso di varcare i confini nazionali, selezionando una nuova band da inserire nel proprio rooster, andando a pescare in Danimarca. Si avete letto bene, l'intransigente etichetta elvetica si è spinta in nord Europa per selezionare questi Late Night Venture, un quintetto originario di Hovedstaden, che con 'Subcosmos' arriva al traguardo del quarto album (in discografia anche un paio di EP), il terzo peraltro a chiudere una trilogia cosmica sul genere umano, la vita e l'universo. Il genere proposto dai nostri si affida ad un post metal oscuro e asfittico, ma assai melodico, che acchiappa sin dalle note iniziali dell'opener "Fram From the Light", un brano intenso, pesante, ipnotico, in cui ampio risalto viene affidato agli strumenti, un po' meno alla possente e sbraitante voce dei due frontman. Con "Bloodline", la seconda traccia, la marzialità del brano si fa più urgente, con un effetto senza dubbio vincente, e che richiama per certi versi i Cult of Luna. Ma il ventaglio di influenze dei nostri non si ferma ai gods svedesi, va esteso anche ai Neurosis, a cui i nostri strizzeranno l'occhiolino a più riprese nel corso del disco. Il risultato è davvero buono, avendomi spinto ad andare a spulciare la vecchia discografia della band danese per saperne un pochino di più dei nostri che sono riusciti a toccare le mie corde. Poi quando "2630" (per la cronaca, il CAP del sobborgo di Høje-Taastrup dove due dei membri della band sono cresciuti) prende forma nel mio stereo, ecco che si materializza anche lo spettro dei Type O Negative grazie ad un sound doomeggiante e ad una voce baritonale in stile Peter Steele (pace all'anima sua). Ma la song riserva ancora qualche sorpresa grazie a delle contaminazioni elettroniche che si scorgono in background e ad una esaltante frazione conclusiva, all'insegna di un crescendo ritmico da paura. Sempre più interessanti. E l'oscurità va ingurgitandosi ogni forma di luce con la criptica "Desolate Shelter", una song semi-strumentale davvero angosciante che pesca ancora a piene mani da un post metal contaminato da psichedelia, doom e sludge. Il disco, cosi permeato di influenze techno-cibernetiche (penso all'inizio della title track), è una sorta di insano viaggio distopico nella società malata. "No One Fought You" ha un inizio sognante: le influenze di scuola Isis/Cult of Luna si palesano quando l'apparato ritmico va ad ingigantirsi, ma francamente risulta comunque gradevole assaporare la proposta peculiare del combo danese. L'ultima lunga song, "No Burning Ground", ci consegna altri 10 estasianti e cosmici minuti di questo 'Subcosmos', un disco che vede man mano svelare altre più celate influenze, che citano anche Celtic Frost, Yob e Ufomammut, soprattutto nell'epilogo quasi stoner dell'ultima traccia. Ben fatto. (Francesco Scarci)

(Czar of Crickets Productions - 2019)
Voto: 77

https://www.facebook.com/latenightventure/

Maïeutiste - Veritas

#PER CHI AMA: Prog Death/Black, primi Opeth
Non sono passati otto anni dal precedente lavoro, ma quattro, eppure ho rischiato fortemente di dimenticarmi di questo ensemble transalpino che avevo positivamente recensito nel 2015. I Maïeutiste tornano col loro secondo album, 'Veritas', mantenendosi fedeli alla label Les Acteurs de L’Ombre Productions ma non troppo al sound claustrofobico che ne aveva caratterizzato il debut omonimo. Quando "Veritas I" emerge infatti dal mio stereo, rimango piacevolmente stupito dalla freschezza e da una maggior ariosità nel sound dei nostri, con un black/death pur sempre violento ma con una dose di epica e solenne melodia di fondo ben più importante ed una ecletticità, la solita direi, con cui il collettivo (otto strumentisti, tra cui sax, violino, viola e violoncello) sembra sentirsi molto più a proprio agio. E noi, come sempre, non possiamo che goderne appieno, respirando a pieni polmoni e ad orecchie completamente stappate, la nuova brillante creatura della compagine di Saint-Étienne. Accanto alle atmosfere ariose dell'opener (con tanto di break acustico centrale), si ritrovano quelle più oscure, ma viranti completamente ad un prog rock di scuola Opeth, della seconda strabiliante "Infinitus", un pezzo da leccarsi i baffi, per quella sua aurea oscura contrappuntata ancora da intermezzi acustici, per il dualismo vocale tra black/growl e clean vocals del frontman, ma in generale, per un approccio votato ad un death progressive assai ricercato che vede i suoi riferimenti nel periodo centrale della band di Mikael Åkerfeldt e soci. State a vedere che abbiamo trovato veramente gli eredi morali dei gods svedesi? Non ne sarei tanto cosi sicuro a dire il vero, conoscendo questi folli francesi, sono quasi certo che nel corso dell'ascolto di 'Veritas' ne sentiremo ancora di tutti i colori. Fatto sta che le prime due tracce sono delle vere bombe che rischiano di veder salire vertiginosamente i Maïeutiste in cima alle mie preferenze di questo 2019. Un breve intermezzo sinfonico, "Suspiramus", ed è la volta di "Universum", un brano ben più ritmato e nervoso nel suo minaccioso incedere, complicato e contorto, ostico quel che basta per spingerci ad una maggiore attenzione nell'ascolto, prima che i nostri decidano di rilassarsi, mollare gli ormeggi e lasciarsi andare in splendide fughe chitarristiche. Rimangono soli due pezzi, "Vocat" e "Veritas II", per una maratona ancora lunga trenta minuti, fatta di suoni intricati, deliranti, obliqui ma intriganti, che vedono la band spingersi in territori più estremi ma dalle atmosfere decisamente più plumbee, in cui le clean vocals riescono a mitigare la durezza di un impianto ritmico dalle tinte fosche, soprattutto nella lunga e lenta seconda parte di "Vocat", quasi del tutto strumentale, prima di un esplosivo epilogo finale. L'inizio di "Veritas II" richiama alla memoria ancora una volta gli Opeth, con i classici arpeggi iniziali di album quali 'Still Life' o 'Blackwater Park'; poi è una furente aggressione black che si stoppa improvvisamente al quarto minuto per lasciare la parola al vento e ad un silenzio che si protrae per oltre otto minuti (di cui avrei fatto a meno perchè interrompe quell'inebriante percorso emotivo intrapreso) fino all'assurdo finale onirico. Gran bell'album, non c'è che dire, che si candida alla mia personale top 3 dell'anno. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de L’Ombre Productions - 2019)
Voto: 84

https://maieutiste.bandcamp.com/releases

martedì 8 ottobre 2019

Daniele Brusaschetto - Flying Stag

#PER CHI AMA: Inustrial/Thrash, Voivod, Godflesh, Fear Factory
Daniele Brusaschetto vive la scena underground da ormai trent’anni e già questo dato dovrebbe bastare a dare un’idea della sua passione per la musica. Rendiamoci conto: tre decadi spese a comporre, provare, riprovare, comprare strumentazione, cercare live, gestire “contatti” (come dicono Sick Boy in 'Trainspotting', i pusher in generale e noi spacciatori di musica brutta nello specifico) che non rispondono mai, litigare coi fonici e con lo spazio sempre insufficiente del bagagliaio dell’auto, girovagare per studi di registrazione e locali. Insomma, una vita di sacrifici (tanti) e soddisfazioni (qualcuna). Non so voi, ma se all’inizio della mia carriera musicale (sigh!) mi avessero chiesto “Come ti vedi tra trent’anni?” io avrei citato (e citerei tuttora) Palahniuk: “Morto”. Daniele invece non si è mai perso d’animo: dopo tutto questo tempo e malgrado tutte le difficoltà, continua a comporre e suonare, ed è grazie a questa determinazione che è arrivato a festeggiare i venticinque anni del proprio progetto solista con il dodicesimo (sì, avete letto bene, 12) album in studio intitolato 'Flying Stag'. Dopo aver saggiato le varie possibilità di un rock elettronico caratterizzato da una vena profondamente cantautorale, minimale ed intimista, il musicista torinese sceglie di tornare alle proprie radici spiccatamente metal, confezionando un album molto più istintivo e rabbioso, quasi a voler celebrare una seconda giovinezza e dare sfogo a sentimenti a cui solo l’irruenza di un sound abrasivo può dare forma. Ecco quindi che in 'Flying Stag', i riff estremi della chitarra distorta accompagnata solo dal cantato pulito, talvolta in growl dello stesso Brusaschetto e dalle puntuali ritmiche di batteria dell’ottimo Andrea Marietta, si prendono tutta la scena, dando vita ad un graffiante lavoro in cui riecheggiano il thrash metal cerebrale dei Voivod, la furia contaminata dei Fear Factory e le destrutturazioni rumoristiche dei Godflesh. Posso solo fare ipotesi sul concetto che sta dietro a questo disco: i cervi volanti del titolo e il triste sole della copertina, stilizzato come lo disegnerebbe un bambino, parlano di chimere ed illusioni, così come i testi delle canzoni trasudano esistenzialismo e critica verso la routine quotidiana imposta da una società alienata ed infelice, impegnata nel perenne inseguimento di traguardi effimeri. Daniele Brusaschetto introduce l’ascoltatore nella sua personale mostra delle atrocità con “Otherwhere”, una sorta di rollercoaster di fraseggi dissonanti che corre tra disturbate visioni oniriche e risvegli in una realtà dai contorni da incubo e prosegue con il vorticoso thrash di “Stag Beetle”, lucida riflessione sulla futilità delle ossessioni contemporanee (“The world has always been more or less the same, big fish eats small fish, we are as we are, we are an alms dish”, “Desires are a world that does not exist”). Ascoltare la pachidermica “Splattering Purple” e la velocissima “The Unreal Skyline” è come sfrecciare in auto tra squallide periferie metropolitane ed inquinati siti industriali in abbandono, mentre appare più introspettiva per contenuti la non meno irruenta e voivodiana “Like When It’s Raining”. Dopo la furibonda cavalcata dall’inequivocabile interpretazione di “Fanculo Mondo”, il disco arriva alla chiusura con la crepuscolare “From the Tight Angle”, una cruda riflessione su come molti prevarichino il prossimo nella sola speranza di apparire più forti e non trovarsi a ricoprire il ruolo di vittima. Uscito grazie all’impegno di etichette indipendenti (Wallace Records, Bandageman Records, Bosco Records e Solchi Sperimentali Discografici), registrato e mixato da una colonna portante dell’underground torinese come Dano Battocchio e masterizzato dallo studio americano Audiosiege, 'Flying Stag' è un album robusto ed essenziale, perfetta sintesi del lunghissimo percorso compiuto da Daniele Brusaschetto, un percorso che sembra averlo riportato al punto di partenza: non è stato un viaggio a vuoto però, perché il musicista mostra una consapevolezza nuova unita all’energia di quel ragazzino che trent’anni fa si sarà sentito chiedere “Come ti vedi tra trent’anni?”. La risposta oggi dovrebbe essere: “Più vivo che mai”. (Shadowsofthesun)

(Wallace/Bandageman/Bosco Rec/Solchi Sperimentali Discografici - 2019)
Voto: 74

http://www.danielebrusaschetto.net/

Into the Moat - The Design

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Death, Pestilence, Atheist
Gli Into the Moat sono un quintetto di Ft. Lauderdale nato nel 2001 che, dopo aver dato alle stampe nel 2003 ad un EP, hanno registrato presso i Mana Studios di Eric Rutan (Hate Eternal), questo 'The Design'. La musica è un death metal ultra tecnico che si rifà ai mostri sacri del genere, gli ahimè mai troppo compianti Death, Atheist, Pestilence e Cynic, reinterpretandoli però in modo asettico e asfittico. Mentre le band suddette riuscivano, infatti, a trasmettere emozioni forti attraverso un feeling speciale che si instaurava con l’ascoltatore, gli Into the Moat risultano freddi e poco coinvolgenti. Dal punto di vista tecnico la band americana, la cui età media si aggirava all'epoca sui vent’anni, è superlativa: le chitarre tessono trame intricatissime, la batteria è al limite del disumano e la voce si assesta su livelli buoni. È però tutto il complesso che alla fine ne esce penalizzato. Nonostante le idee non siano niente male, il tutto appare come un esercizio di tecnica fine a se stesso dove lo scopo è quello di stupire l’ascoltatore con trovate sempre nuove e originali che, in realtà, alla fine hanno il solo effetto di disorientarci. Fortunatamente questo 'The Design' non dura neppure tanto, però vi garantisco che, per arrivare al termine dei 33 minuti complessivi, è stata una vera faticaccia. Per concludere, i nostri hanno sì svolto il loro compitino raggiungendo la sufficienza risicata, troppo poco però per potermi emozionare ancora come ai bei tempi, quando Chuck Schuldiner e soci dominavano il mondo. (Francesco Scarci)

Uivo Bastardo - Clepsydra

#PER CHI AMA: Death Melodico/Industrial, Supuration
Uivo Bastardo è un progetto parallelo creato da ex membri dei Kronos, Helder Raposo e André Louro, rispettivamente tastiere e voce, il chitarrista João Tiago, e dal produttore, qui anche in veste di batterista stabile in formazione, David Jerónimo (Concealment). Uscito per Ethereal Sound Works nella primavera di quest'anno, 'Clepsydra' è un buon concentrato di metal pesante dalle forti influenze industriali, forzate in ottima maniera da un uso delle tastiere mirato e ricercato, così influente nel sound che arriva a caratterizzarlo positivamente, costruendo insieme al resto della band, composizioni ben strutturate e potenti. Le parti vocali sono molto spinte, quasi sempre urlate e sparate in faccia violentemente, l'impatto è duro e ricorda certe parti gotiche dei Paradise Lost della prima era anche se le ritmiche più squadrate e gli inserti melodici, futuristici, a volte sinfonici, donano ai brani quel tocco tecnologico, claustrofobico, fantascientifico e progressivo che attrae molto l'ascoltatore. Si fatica un po' ad apprezzare la lingua madre del cantato usata dalla band di Lisbona ma dopo alcuni ascolti ci si accorge che le canzoni suonano perfette anche così, ben prodotte, suonate bene, con una buona dose di originalità e mostrano un buon equilibrio tra gothic/industrial e melodic death metal, trovando il suo culmine nella pesante dichiarazione d'intenti di "Tormentòrio", in "Refùgio", brano teso e claustrofobico (il mio preferito) e in "Fuga Mundi", song dai toni bui e drammatici. Le canzoni si ascoltano bene e la durata del disco, che supera di poco la mezz'ora, sottolinea l'intensità e l'urgenza espressiva di un'opera che trae ispirazione dai padri del thrash metal anni '90 e da quelle atmosfere progressive, ricercate e cervellotiche in stile 'The Cube' dei mitici Supuration. Un disco che convince, mai banale e senza cadute, né di stile tanto meno di intensità, il tempo di abituarsi al canto in portoghese e tutto suona poi al punto giusto, belle parti veloci, mai troppo caotiche. Infatti, una delle caratteristiche della band è proprio la capacità di restare aggressivi, pesanti, melodici e tesi costantemente per tutto lo scorrere dell'album, dimostrando di avere trovato la chiave per un suono singolare ed in continua evoluzione. In sostanza un ottimo primo album, una band che ha carattere e la voglia di rinvigorire un tipo di metal abusato, anche in senso commerciale, da tante band prive di idee e talento. Ascolto consigliato! (Bob Stoner)

(Ethereal Sound Works - 2019)
Voto: 74

https://uivobastardo.bandcamp.com/