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mercoledì 31 ottobre 2018

Scars on Broadway - S/t

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Alternative, System of a Down
Trattasi di generiche pulsioni suicide ("Funny" vs. "One of My Turns" dei Pink Floyd; "Exploding/Reloading", "Insane", "Kill Each Other/Live Forever" ma anche il logoramento autodistruttivo tossicofilo di "Chemicals") poi ricontestualizzate nel dietrolangolismo apocalittico della seconda parte del disco ("3005", "Universe", "Enemy", "Whoring Streets") e, quando l'ispirazione è all'angolo, ficcarci dentro il genocidio armeno ("Exploding/Reloading") o rifugiarsi nel, diciamo, dadaimo forzoso ("Super-cala-fra-jalistic-expi-ela-docious / is a word to me, mama mia" di "Stoner Hate"; "Let's clap our hands, for the president / and Jesus Christ, and did I mention Charlie Mansion / and everybody else who was nice?" di "3005"; "They go, go, go, go, go, go, go / go, go, go, go, go, go, go, go" di "Cute Machines"). Una perdita dei freni inibitori nelle evoluzioni vocali, marcatamente Rotten-like ("Exploding/Reloading"), e svariati patteggiamenti con i Faith No More, i Pattoneggiamenti, appunto (ancora "Cute Machines"). Bizzarrie elettroniche ("Funny"), riff taglienti, cambi di ritmo, scariche filo-thrash ("Serious"). Praticamente la medesima ricetta di 'Mesmerize/Hypnotize' con tutti i conclamati pregi e difetti del progetto. Compresa la lunghezza. Quando uscì questo disco lo stroncaste senza appello, ricordate? Dieci anni più tardi sareste disposti a privarvi del mignolo della mano con la quale fate le corna ai concerti pur di sentire qualcosa di vagamente S-O-A-D. Bene. È venuto il momento di riascoltare i S-O-B di Malakian e Dalmoyan. Vi sentirete al contempo tristemente felici e felicemente tristi. (Alberto Calorosi)

(Interscope Records - 2008)
Voto: 75

https://www.facebook.com/scarsonbroadway/

Ljungblut - Villa Carlotta 5959

#PER CHI AMA: Melancholic Rock, Klimt 1918
Chi è nato nella seconda metà degli anni ottanta, ha probabilmente solo un vago ricordo di come fosse la vita prima del definitivo affermarsi della tecnologia digitale: la memoria di quell’epoca per me è legata ai fruscii del giradischi di mio padre e alle foto scattate con una macchina fotografica analogica. Ascoltando 'Villa Carlotta 5959', ultima fatica dei norvegesi Ljungblut, progetto avviato dal bassista di Seigmen e Zeromancer Kim Ljung, è impossibile non pensare ad immagini ingiallite dal tempo impresse sulla pellicola di una Hasselblad, le costosissime fotocamere utilizzate durante la missione Apollo 15, poi abbandonate sulla Luna, a cui è dedicata la prima traccia dell’opera ("Hasselblad" appunto). Il sound marcatamente darkwave dell’introduzione ci presenta un album concepito in contrapposizione con il presente non solo per stili musicali e tematiche: malgrado l’attitudine prevalentemente pop delle canzoni, molte scelte di produzione, come ad esempio la registrazione in presa diretta, l’essenzialità dell’artwork e l’utilizzo del norvegese nel cantato, appaiono volutamente lontane dalle dinamiche mainstream. I pezzi successivi si assestano su un rock atmosferico dal sapore retrò, in cui tappeti di synth e gli arpeggi di chitarra ci trasportano attraverso atmosfere autunnali ("Oktober", senza dubbio il pezzo più intenso) ed evocano malinconici paesaggi ("Superga", probabilmente dedicata alla collina torinese). È incredibile come durante l’ascolto permanga l’impressione di sfogliare un album di vecchie fotografie, segno che l’obiettivo della band è pienamente raggiunto, andando a toccare alcune corde della memoria e stimolando la sensazione di nostalgia. 'Villa Carlotta 5959' è un lavoro molto solido, passionale e dalla forte identità, tuttavia monodirezionale, in quanto guarda esclusivamente al passato e procede su sentieri sonori già ampiamente esplorati. (Shadowsofthesun)

martedì 30 ottobre 2018

The Pit Tips

Francesco Scarci

Entropia - Vacuum
Forest of Stars - Grave Mounds and Grave Mistakes
Irreversible Mechanism - Immersion

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Alain González Artola

Elderwind - The Colder the Night
Hate Eternal - Upon Desolate Sands
Severoth - When the Night Falls...

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Shadowsofthesun

Marnero - Quando Vedrai le Navi in Fiamme Sarà Giunta l'Ora
Ken Mode - Loved
Marlene Kuntz - Nella Tua Luce

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Dominik

Aegrus - Thy Numinous Darkness
Kult - The Eternal Darkness I Adore
Hallig - A Distant Reflection of the Void

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Five_Nails

Soul Dissolution - Stardust
Barren Canyon - War of Wounds
Into Eternity - The Sirens

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Alejandro Morgoth Valenzuela

Helheim - LandawarijaR
This is Past - The Outsider
Watain - The Wild Hunt


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Alberto Calorosi

Living Colour - Shade
Mouth - Floating
Okkervil River - In the Rainbow Rain

R.A.I.V.A. - S/t

#PER CHI AMA: Thrash, Killing Joke, Sepultura
La Etherel Sound Works appoggia l'uscita del side project dell'istrionico chitarrista degli ottimi thrasher portoghesi Ramp, Ricardo Mendonça, in compagnia di altri ospiti celebri, tra cui un inaspettato e inedito Fernando Girão alla voce, noto autore e cantante di Fado portoghese e world music. Il progetto è nato con l'intento di rivendicare le disugualianze sociali ed economiche e il malessere del popolo, in questi tempi difficili per il Portogallo e di riflesso, il messaggio è rivolto all'intero pianeta. Interessante è stato tradurre i testi (tutti in lingua portoghese), che compaiono integralmente nel booklet assai curato presente all'interno, per entrare nella giusta mentalità dell'opera che si dichiara come musica di protesta con un'indole punk e un impatto metal molto secco e diretto. Il background thrash si sente eccome, anche se non si raggiungono i vertici di potenza dei Ramp, i riff sono sempre incentrati su mid-tempo e prediligono la melodia senza mai calare di pressione; l'album si presenta effettivamente riflessivo con inserzioni di synth, elettronica e piccole finestre di world music. In effetti, la voce di Girão funziona e si pone come un cantore dell'apocalisse, stupendo con il suo tono roco e predicatore, a metà tra vecchi Accept e ultimi Killing Joke, sposandosi alla perfezione con le composizioni più oscure e pesanti della band ("Filho da Maldade"). I brani, musicalmente parlando, si esprimono al meglio quando acquisiscono quel tono sinistro, dal passo lento e dark, quelli dove il tono da agitatore sociale diventà più pressante. La metamorfosi di Girão si estende per tutto l'album, anche nei pezzi più energici che rieccheggiano i maestri del metal internazionale anni '90 (Sepultura, Testament, Metallica periodo 'Load') dando però un qualcosa di diverso nell'interpretazione del canto metal, assumendo profondità e riflessione proprio come un impegnato, intellettuale, cantautore ricoperto di borchie (Phonam as cartas na mesa, Pago impostos com a vida e O mais fraco nao ten nada). Il sound è una spinta continua e omogenea con tutto al posto giusto, assoli, riff granitici e batteria sempre in tiro, il groove con vocazione al nero, un lieve parallelo verso le coste dei conterranei Moonspell (in comune ci trovo l'oscura visione del rock), anche se qui la musica è meno sinfonica e più diretta, con una produzione poi che aiuta nell'ascolto dell'intero album. Insomma, un esperimento che coniuga due estremi musicali per un nobile intento, quello di sensibilizzare la popolazione mondiale sul degrado sociale e civile del mondo. Il Portogallo, con questa ulteriore uscita, si mostra come di consueto una scena musicale molto attiva e vivace, capace di distinguersi con personalità nel panorama internazionale. Disco atipico, particolare e interessante. (Bob Stoner)

(Ethereal Sound Works - 2018)
Voto: 70

https://www.instagram.com/r.a.i.v.a/

domenica 28 ottobre 2018

Coldbound - The Gale

#PER CHI AMA: Melo Death/Doom, Insomnium
"61°43’N17°07’E" non solo è l'evocativa opening track di quest'album, ma rappresenta anche le coordinate che dovrete seguire quest'oggi per inseguire fino in Svezia i Coldbound anche se in realtà dovreste ricercarne le loro origini in Finlandia. Nati infatti nel 2012 a Vantaa come la one-man-band del mastermind Pauli Souka, i Coldbound oggi hanno la parvenza di un gruppo a tutti gli effetti con tre elementi che fungono in realtà di supporto al frontman. E se agli esordi (questo è il loro quarto album) era un black/death a farla da padrone, ora il sound è virato verso lidi melo death intonacati di una vena doom, con risultati abbastanza rilevanti. Lo testimonia "The Evocation", e le sue ispiratissime linee melodiche che si muovono a metà strada tra Insomnium e i Saturnus più malinconici, non disdegnando tuttavia rasoiate ritmiche più vicine alla scuola melodica svedese, complice forse la nuova residenza del buon Pauli. La componente ritmica è davvero corposa, grazie ad un sound robusto, ma che ne preserva la componente melodica. Detto del mood decadente di "The Invocation", con "Endurance Through Infinity" si fa sentire una più marcata influenza dei My Dying Bride, là dove mi preme sottolineare l'ottima performance vocale del bravo Pauli dietro al microfono. E vi dirò che ci sento pure dei riferimenti alle tastiere degli Amorphis di 'Tales from the Thousand Lakes', ma forse saranno mie allucinazioni sonore. In "The Eminent Light", fa l'apparizione al microfono la voce femminile (poco convincente oserei dire) di Paulina Medepona in una song che avrebbe tutte le potenzialità per colpire nel segno ma che in realtà rimane strozzata proprio nelle corde vocali della gentil donzella, troppo poco convinta delle sue capacità. Decisamente più roboante e convincente la title track che esplode con forza in una traccia dai forti sentori black, retaggio degli esordi della band, anche se lungo il brano, Pauli sembra correggere il tiro e virare verso il melo death di scuola finlandese, in una traccia che comunque ho apprezzato più delle altre per quel suo spirito energico e battagliero, corredato da belle melodie in sottofondo e ottime orchestrazioni a cura di Andras Miklosvari, il braccio destro di Pauli. Annientati dall'onda anomala di "The Gale", il sound vira drasticamente in "My Solace", traccia più sofferta e dal piglio dark rock, con le vocals quasi sussurrate all'inizio, prima che rientrino nei binari di un growl concreto che comunque si alternerà in questa song con le clean vocals. Il pezzo comunque è assai convincente, complici anche alcune interessanti linee di tastiere, sebbene possa suonare un po' troppo derivativo. 'The Gale' volge già verso il termine, ma riserva ancora qualche spunto interessante: l'irrequieta irruenza di "Winters Unfold", cosi doomish e più gustosa nel finale, le linee di chitarra di "Shades of Myself" e quel suo drumming evocativo nella parte centrale del brano, qui marcatamente influenzato dagli Insomnium. E poi c'è il gran finale, affidato agli undici minuti di "Towards the Weeping Skies", il brano più completo e maturo del lotto, una summa di tutto quanto ascoltato sin qui, che si manifesta attraverso le atmosfere darkeggianti di una song delicata e le vocals sofferenti del sapiente frontman finlandese, in un brano sicuramente evocativo, e ben più rilassato rispetto ai precedenti. Alla fine 'The Gale' è un buon disco che certamente mostra diversi pregi ma ancora qualche difettuccio, forse legato ad una sensazione di già sentito che talvolta riemerge dalle note del combo nordico. A parte questo, sono convinto che sia parte di un normale percorso di crescita che vedrà probabilmente nel prossimo capitolo, toccare un apice musicale ancor più elevato. (Francesco Scarci)

(Moonlight Productions - 2018)
Voto: 70

https://coldbound.bandcamp.com/album/the-gale

Dakhma - Hamkar Atonement

#PER CHI AMA: Esoteric Black/Death/Doom, Aevangelist
Non è la prima volta che dalla Svizzera ci arrivano band dedite ad un metal estremo dai forti connotati esoterici. Era già successo lo scorso anno con i Lvx Hæresis e gli Arkhaeon, accade oggi con i Dakhma, duo proveniente da Zurigo, affiliato all'Helvetic Underground Committee, e dedito, ancor più dei precedenti, ad un ritualistico sound, che sin dall'incipit "The Glorious Fall of Ohrmazd (Hail Death, Triumphant)", sembra voler celebrare un qualche rito legato alla tradizione zoroastra. Il moniker dei nostri si rifà infatti alla lingua avestica, oggi conosciuta come il linguaggio liturgico dello Zoroastrismo, in particolare come lingua dell'Avestā, il libro sacro di tale religione. Qui Dakhma sta ad indicare le Torri del Silenzio, ossia impalcature in legno e argilla esposte all'aria che servivano per l'eliminazione dei cadaveri, esposti ai fenomeni atmosferici e divorati dagli uccelli rapaci. Gli undici minuti e passa dell'opener sono nella prima metà occupati da vocals che, comeanticipavo, sembrano provenire da un qualche rito occulto, mentre nella seconda, ecco scatenarsi l'inferno con un extreme death claustrofobico che strizza l'occhiolino ad Aevangelist, Portal ed Disembowelment, in uno spigoloso e mortifero sound tritaossa che si palesa in spaventose accelerazioni, vocals d'oltretomba e atmosfere mefitiche. A dir poco mostruosi. Eccolo il biglietto da visita di questo 'Hamkar Atonement' che bissa con i quasi dodici minuti di "Akhoman (Spill the Blood)", song bestiale che si affida a delle accelerazioni arrembanti, smorzate da improvvise frenate che spezzano un ritmo incessante ed indemoniato, da cui sono impossessati i due loschi figuri, H.A.T.T. e Kerberos, che si celano dietro a questa tremebonda band. La song è oscura, ne percepisco la malvagità, forse collegata al tema portante del disco. Con "Varun (Of Unnatural Lust)", la musica dei nostri assume connotati etnico-tribali, con la song inizialmente affidata ad un'intensa base percussiva, prima di un veemente assalto death, in cui oltre a decantare l'ottima performance a livello vocale di Kerberos, vorrei sottolineare la prodigiosa tecnica di H.A.T.T. alla batteria, cosi come pure quelle scariche di imbizzarite chitarre scarificanti. Sono senza fiato e non abbiamo nemmeno raggiunto la metà, visto che il disco dura circa 70 minuti e noi siamo a quasi mezz'ora. Eppure, nonostante la monoliticità di un sound ammorbante, grosso e deflagrante, i brani scivolano via piuttosto velocemente. Penso ai devastanti 11 minuti di "Nanghait (Born of Fire)", un perfetto mix di violenza, tecnica e lucida follia, un delirio musicale che vede nelle profonde decelerazioni, i punti di massima espressione dei due musicisti elvetici, quando il loro death/black ferino s'incastra alla perfezione con un doom funerario ed evocative vocals che sembrano calarci in un qualche tempio del fuoco persiano. Suggestivo non poco, ancor di più in "Spendarmad (Holy Devotion)", una vera e propria celebrazione rituale, che prepara al penultimo atto dell'album, "Gannag Menog (Foul Death, Triumphant)" e altri 10 minuti abbondanti di sonorità abominevoli che nelle transizioni chitarristiche, richiamano sempre più evidentemente, i primi Morbid Angel, mentre nel più celebrativo atto conclusivo, colpisce l'attitudine corale dei nostri. A chiudere in modo degno 'Hamkar Atonement', ecco arrivare un'altra maratona musicale, i sedici minuti di "...of Great Prophets", che oscurano definitivamente la luce del sole e ci introducono alla tenebre della notte, con un'altra song paurosa che celebra le enormi doti di questi Dakhma. (Francesco Scarci)

(Iron Bonehead Productions - 2018)
Voto: 75

https://dakhmacavern.bandcamp.com/

giovedì 25 ottobre 2018

Speaker Bite Me - Future Plans

#PER CHI AMA: Electro Noise
Sono passati più di dieci anni dall'ultima release degli Speaker Bite Me, loro non si sono mai fermati, hanno suonato live e sono maturati, trasportando le loro idee, prima infarcite di elettronica sperimentale, minimale e trasversale, ora virate verso un'impostazione indie, sempre trasversale ma più rock, più rumorosa e adulta. Non che i brani di 'Action Painting' non fossero interessanti, i giochi elettropop erano molto fantasiosi ma il nuovo lavoro 'Future Plans' è qualcosa di più completo ed è in grado di strapazzare l'ascoltatore più esigente senza perdere una nota per strada. Cinque brani che ti prendono per la gola e ti fanno crescere quel senso di vuoto e di ricerca che sovente caratterizza il sound dei Portishead, con un continuo sali e scendi emotivo scaturito da chitarre noise in stile Curve che mi hanno fatto rallegrare non poco. Non solo Curve ma anche le visioni dei Radiohead più contorti e la sensualità pop dei Garbage. Il noise si rivela l'arma giusta e i rimandi sonori indie di fine anni '90 sono un mix perfetto per costruire il tappeto musicale, ed è in questo contesto che nascono brani fulminanti, delle vere meteore incandescenti, come la lunga "Sweet Expectations" dalla coda ipnotica e incendiaria, oppure, "This Song is Going to Kill You", che evoca sonorità graffianti alla maniera degli Ulan Bator nel geniale album intitolato 'Abracadabra'. Per inquadrare le azioni della band danese in questo lavoro del 2018, bisogna vedere la costruzione dei brani in una veste atipica, come se un gruppo rock cercasse di suonare alla maniera del più cool delle band di indie elettronica e al contrario, come se i Portishead prendessero in mano chitarre e distorsori per suonare i loro pezzi nello stile dei Girls Against Boys. Sono passati anni e gli interpreti vocali, una splendida voce femminile ed una ispirata voce maschile che si alternano al canto, risultano oggi al massimo livello d'intensità espressiva poi, il gusto bizzarro e intelligente per le chitarre rumorose fa la differenza e accompagna chi ascolta verso un senso di elevazione spettrale (la coda della title track è da storia della musica noise), sfiorando una gioiosa cacofonia che regala persino dei confini vicino all'avanguardia sperimentale. Un gradito ritorno con la G maiuscola per una band che come il vino, invecchiando, migliora sempre più. Un album che porta in grambo un filo di nostalgia per il passato ma dall'equilibrio perfetto! Ascolto obbligatorio! (Bob Stoner)

(Pony Records - 2018)
Voto: 75

https://www.facebook.com/speakerbiteyou/

Oak - False Memory Archive

#PER CHI AMA: Alternative/Progressive, Anekdoten
Lo ammetto, sono diffidente quando mi viene proposta qualche novità in ambito progressive rock. Il rischio di ritrovarsi ad ascoltare l’ennesimo stanco omaggio ai capolavori del passato è dietro l’angolo e la tecnica non sempre va di pari passo con l’originalità. A spazzare via ogni mio dubbio ci hanno pensato i norvegesi Oak con il loro ultimo lavoro, 'False Memory Archive', un album che, pur rimanendo fedele al genere, mostra elementi di grande freschezza ed un sound moderno. La band è formata da quattro componenti dal diverso background musicale, caratteristica che ha permesso l’evoluzione dall’originario duo folk-rock all’attuale combinazione di prog, pop, alternative rock ed elettronica. Era possibile apprezzare il loro variegato sound già dalla precedente uscita 'Lighthouse', tuttavia 'False Memory Archive' rappresenta un passo avanti per songwriting e maturità. Gli Oak mettono in chiaro fin dalla prima traccia, "We, the Drowned", che la componente elettronica è la vera protagonista: veniamo accolti da un oscuro groove di synth e batteria che lascia spazio a composizioni in cui le delicate note di piano, le tastiere e la calda voce del cantante, creano raffinatissimi intrecci armonici. La sezione ritmica sostiene efficacemente l’impalcatura sonora, con batteria e basso puntuali nel valorizzare al massimo ogni pezzo con la giusta dinamica. Col procedere dei brani, ci si rende conto che la forza della band sta nella capacità di plasmare un sound avvolgente e proporre arrangiamenti sofisticati ma sempre accessibili: l’ascoltatore viene cullato dai liquidi synth e gli elementi catchy contribuiscono a stemperare ogni inquietudine sul nascere, ciò nonostante non mancano momenti di grande introspezione a ricordarci che il tema dell’album è la difficoltà nel gestire i ricordi e lo scorrere del tempo. Da questo punto di vista, "The Lights" è l’apice e il sunto dell’intero lavoro, un vero e proprio cammino dantesco costantemente in bilico tra intensa malinconia ed improvvise esplosioni di violenza, tra il rimpianto per un passato scomparso e la speranza nell’avvenire. In definitiva, 'False Memory Archive' è un vero e proprio caleidoscopio di emozioni e stili musicali, che si smarca elegantemente dalla tradizione senza per questo perdere le proprie radici, in grado non solo di vincere scetticismi iniziali, ma anche di toccare le corde più profonde dell'anima. (Shadowsofthesun)