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giovedì 14 luglio 2016

Slaughtbbath/III Omen - Pestilential Hierophanies

#PER CHI AMA: Black/Death/Doom/Thrash
Estate 2016, ma per le nostre due band di oggi, si tratta in realtà di inverno, visto che entrambe provengono dall'emisfero australe: gli Slaughtbbath dal Cile e i III Omen dall'Australia, per uno split 7" all'insegna della violenza targata Iron Bonehead Productions. Tocca alla band del Nuovo Galles del Sud aprire il side A del dischetto con "Whited, Pestilent Sepulchre...", lunga song mortifera di oltre otto minuti, fatta di chitarre minimaliste suonate a rallentatore e screaming vocals poste delicatamente in sottofondo a questa litania infernale, che trova modo di esplodere solamente nella sua seconda parte, grazie ad una ritmica serrata, di cui sottolineerei l'affilatissimo rifferama e un chorus epico che mi ha ricondotto ad un che dei primi Arcturus. Niente male affatto, anche se un po' troppo cacofonici in taluni frangenti. Un riffing più pesante e palesemente old school (come da tradizione sud americana) apre invece il side B del disco, quello occupato dagli Slaughtbbath e dalla loro "Inverted Hierophany", una song inizialmente mid-tempo di death metal classico, che ha da offrire tutti i cliché del genere: growling vocals, killer riff e giusto un pizzico di melodia ma che si contraddistingue per un bel finale in crescendo di intensità e brutalità. Un interessante 7" per poter conoscere due nuove band e la loro musica diabolica. (Francesco Scarci)

martedì 12 luglio 2016

Toska - S/t

#PER CHI AMA: Black Epic, Windir, Melechesh, Enslaved
Partiamo da un assunto che potrebbe influenzare questa mia recensione sin dall'inizio: amo l'Islanda, come luogo, come storia, come attitudine, come popolo, ancor di più dopo le ultime vicende calcistiche degli Europei di Calcio. L'Islanda ha stupito tutti, non solo per l'exploit della sua nazionale ma per quella spinta emozionale della loro gente, espressa attraverso l'ormai celebre, e ahimè copiato, "geyser sound". Avrete pertanto intuito che la band di cui andrò a parlare arriva proprio dalla terra dei vulcani, celebre soprattutto per quell'esplosione di Eyjafjöll nel 2010 che investì dapprima l'isola nordica e poi l'intera Europa, con le sue nubi di cenere. I Toska arrivano da quel luogo primordiale, magico aggiungerei io, coperto di ghiaccio e nel cui interno invece ribolle lava. Le analogie tra la musica del combo islandese e la propria terra si sprecano lungo le sette tracce di questo vibrante EP. Una breve intro e poi ecco le palpitanti melodie e scorribande sonore di "Night I - Algid Gales", tre minuti di incandescenti ritmiche tra funambolici suoni black e parti folkloriche. Il disco potrebbe essere assimilabile ad un'unica traccia che prosegue con "Night II - Throbbing Tumulus" e le sue serrate ritmiche punkeggianti, tra misteriche vocals in background, deflagrazioni disarmoniche che però ben si amalgamano nel sound schizofrenico dei Toska, in un condensato sonoro che rievoca lo spettro dei Windir, lo sublima con influenze alla Melechesh, lo estremizza con le nuove forme di post black americano e lo arricchisce con il sound pagano dei conterranei Árstíðir Lífsins, in un lavoro quasi unico. Gli amanti di sonorità black sperimentali, si faranno deliziare dalle chitarre di "Night III - Iced Spectres" e dalle sue parti atmosferiche che collidono con aperture di furia vertiginosa. Un temporale in lontananza echeggia nella quinta ambientale "Spirits Of The Winter Moon" che preannuncia lo scatenarsi degli agenti atmosferici in "Night IV - The Howling Descent", song dotata di un aura primordiale che si manifesta nelle nevrotiche ritmiche, nella ferocia dei suoi arrangiamenti e nella struggente malinconia delle sue melodie ataviche. L'ultima "Notte" è affidata alla maestosa epicità di "Night V - Blizzard Tales" e al suo piglio battagliero che sfocia dapprima in una cacofonia musicale che si altalena fra parti più atmosferiche (in stile Fleurety) e nuove ondate di flusso magmatico. Un'ultima curiosità: le liriche si ispirano al poeta e drammaturgo polacco Tadeusz Miciński, tra i precursori dell'espressionismo e surrealismo in Polonia. Pericolosi. (Francesco Scarci)

(Eihwaz Recordings - 2016)
Voto: 80

https://toskabm.bandcamp.com/album/toska-2

(EchO) - Head First Into Shadow

#PER CHI AMA: Death/Doom/Progressive, Swallow the Sun
Cinque anni di silenzi. Il vecchio vocalist che ha lasciato. Non era semplice rimettersi in carreggiata, ricominciare daccapo e dare un seguito a quel 'Devoid of Illusions' che ben mi aveva impressionato nel 2011. I bresciani (EchO) non si sono demoralizzati anzi, si sono rimboccati le maniche, forti di quella consapevolezza, che da sempre li contraddistingue, di potercela fare. Arruolato Fabio Urietti alla voce, coperti alle spalle dal lavoro di Greg Chandler alla consolle e coadiuvati da due ospiti d'eccezione come Daniel Droste, chitarra e voce dei teutonici Ahab e Jani Ala-Hukkala, vocalist dei finlandesi Callisto, i nostri sono tornati sulla scena, con un attesissimo secondo cd, 'Head First Into Shadow'. Sei lunghissime tracce, che si presentano con la decadente (e progressiva) melodia di "Blood and Skin", in cui fa il suo positivo esordio dietro al microfono, il bravo Fabio, inizialmente in una timida veste pulita, poi anche in growl. Le chitarre, inserite nel consueto contesto atmosferico, tracciano linee malinconiche nella più pura tradizione death doom, chiamando in causa alternativamente Saturnus e soprattutto gli ultimi Swallow the Sun. Ma è la sezione solistica a colpirmi di più, con un ispirato assolo conclusivo. "This Place We Used To Call Home" apre assai rilassata grazie alle clean vocals del frontman (forse un po' in difficoltà sulle timbriche più elevate) che da li a breve, cederanno ad un impulso di rabbia e frenesia, che per alcuni attimi porterà ad inasprire i toni. La traccia trova però il modo di placare il proprio iracondo spirito e continuare a dipingere affreschi di rock progressivo dai tratti eterei, enfatizzato anche da un assolo acustico posto poco oltre la metà del brano e da un break onirico verso il finale. C'è da sottolineare una certa dinamicità di fondo ascoltando questa prima manciata di pezzi degli (EchO), il che è senza dubbio positivo. In "Beneath This Lake" fa la comparsa il primo ospite del disco, il buon Daniel degli Ahab, ad impreziosire la proposta del sestetto lombardo: l'incipit è dapprima robusto per poi divenire delicato e sognante (i rimandi ad atmosfere "pink floydiane" si sprecano), poi le chitarre appesantiscono il proprio mood, ma sembra che la nuova direzione intrapresa dai nostri, privilegi maggiormente i frangenti più atmosferici, pur non mancando le improvvise accelerazioni. Tuttavia le novità per gli (EchO) non si fermano qui, visto che una serie di artefatti elettronici si accompagna con un rifferama di meshugghiana memoria in un lisergico finale del tutto inaspettato. È il turno di "Gone", che segna la partecipazione del secondo ospite in una lunghissima traccia, che vede sicuramente i nostri alzare l'asticella, complici anche nuove fonti di ispirazioni convergenti in questo nuovo disco: non solo i paladini del death doom (in questo caso direi 'The Silent Enigma' degli Anathema), ma anche, in molteplici sfaccettature, gli ultimi Opeth, i Katatonia, i Porcupine Tree, le ultime performance dei nostrani Plateau Sigma (soprattutto nella successiva "A New Maze", dove la voce di Fabio va nuovamente in sofferenza nelle alte frequenze), senza dimenticare gli stessi Callisto del bravo Jani. Gli (EchO) stanno maturando di giorno in giorno sempre di più, sebbene partissero già da una base piuttosto elevata. In chiusura, "Order of the Nightshade" si presenta non priva di ambientazioni decadenti, suoni suadenti e malinconici, rapiti da fughe rabbiose, che mettono in luce il compartimento ritmico di primissimo livello dei nostri. Non era lecito aspettarsi oltre da questo nuovo platter, che segnerà forse un nuovo punto di partenza per questa ambiziosa band italiana. (Francesco Scarci)

Nile - Annihilation of the Wicked

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Death
La Relapse Records da sempre fa grandi cose, ma nel 2005 si fece portavoce del ritorno sulla scena degli High on Fire e dei Cephalic Carnage tra gli altri, senza scordare gli statunitensi Nile. Un ritorno sulle scene ancor più terremotante, rispetto al precedente 'In Their Darkened Shrines', grazie ad una produzione eccellente ad opera di Neil Kernon (Queensryche, Nevermore). L'album vide in primis l’ingresso in formazione del bassista Jon Payne, appena diciannovenne e qualche altra novità: il fantomatico “Egyptian Death Metal”, tipico della band, fu infatti relegato in secondo piano, lasciando il posto ad un death metal sontuoso. Siamo di fronte a dei veri mostri di tecnica, capaci di torturare i loro strumenti e farne scaturire un sound permeato di una malvagità senza eguali, un robusto tritabudelle, feroce e brutale. Gli echi orientaleggianti, come dicevo, sono quasi inesistenti, si possono individuare in qualche assolo, sempre fantasioso e selvaggio, e nell’arpeggio iniziale di “User-Maat-Re”. L’abilità della band, oltre ad offrire un ottimo songwriting, fu nel combinare alla perfezione, il putiferio sonoro, suonato sempre con classe estrema, a momenti atmosferici, che riportano con la mente sulle tranquille acque del Nilo, dove cinquemila anni fa sorgeva l’antica civiltà egizia. Ottimo come sempre, il growling efferato di Karl Sanders, capace di rievocare antichi riti pagani; spaventoso poi il supporto ritmico, grazie ad una batteria potente e precisa, che fa largo uso di blast-beat; le chitarre si esibiscono in riff violentissimi e serrati, ma sono abili nel passare da momenti “schiacciasassi” a passaggi distorti più doom-oriented. Spero di avervi convinto che l’album in questione, è quanto di meglio prodotto dall'ensemble statunitense, un lavoro che prese e prende tutt'ora a calci nei fondelli ogni altra band in ambito estremo. Nile...”L’annientamento del male”. (Francesco Scarci)

(Relapse Records - 2005)
Voto: 85

https://www.facebook.com/nilecatacombs

lunedì 11 luglio 2016

Vita Museum – Frozen Limbo Zero

#PER CHI AMA: Alternative/Electro Rock/Gothic/Indie
Con un artwork sinistro e alquanto gotico, si presenta egregiamente al pubblico questo quartetto italo-britannico di base a Londra che, formatosi nel recente 2014, senza perdere tanto tempo e cavalcando l'onda della creatività più immediata, nel 2015 ha fatto uscire il suo primo lavoro, distribuito dalla visionaria Sliptrick Records. Stravagante e contraddittorio sono i due termini che potrebbero definire questo 'Frozen Limbo Zero' a cui aggiungerei anche astuto e coraggioso. In realtà la band sa perfettamente dove andare con la propria arte anche se lo fa in tutte le direzioni musicali possibili, pur di farsi notare. Diciamo che al primo ascolto, si rimane leggermente disorientati dal sound del quartetto che non si riesce bene a mettere a fuoco, inquadrandolo in un genere ben definito. Fin da subito però, si ha l'idea di aver a che fare con una musica ricercata, piena di ambiguità e assai creativa. Non è un tabù per questa band parlare di glam rock moderno, in sintonia con i migliori Sixx:A.M., con quel sound carico di pop ma pur sempre legato all'hard rock tossico e malato quanto lo poteva essere Marilyn Manson ai tempi di "Sweet Dreams", irradiato dal nu metal tecnologico dei Linkin Park, da soluzioni elettroniche di certe frange più morbide dell'EBM e del rock trendy dei 30 Seconds to Mars. Un mix di generi rivisitati da un'angolatura spigolosa e alternativa come lo è ad esempio la musica dance punk dei Death From Above 1979. "Somebody to Destroy" è il singolo perfetto corroborato da un video immerso in un'ambigua oscurità che inganna e attrae la vista dell'ascoltatore, una musica pop dal ritornello rock carico di groove che ammicca alla gettonata "Souljacker" degli Eels ma che potrebbe essere un brano dei T-Rex passato tra gli acidi dei Primal Scream di 'Riot City Blues' o tra il rock elettronico dei Manic Street Preachers di 'Futurology'. Il brano "Alive" macina i contesti musicali dei Paradise Lost, epoca 'One Second', in una veste elettro wave alla IAMX, scatenando la mia incomprensione, ma facendosi comunque apprezzare per il gusto e le qualità non superficiali con cui la band si dedica a brani radiofonici, creando delle vere hit da classifica. "Leave Me" delizia con ricordi semiacustici del rock da incubo del buon vecchio Manson, cosi come la seguente "Never Be the Same", anche se qui manca il peso della sua perversione e i Vita Museum finiscono per assomigliare a degli Stone Temple Pilots ultimo periodo, filtrati da un effetto pregevole stile radiolina anni sessanta, quello della partita della domenica pomeriggio per intenderci. Da qui il sound si fa sempre più sintetico e la rarefatta malinconia di "Alone", introduce la triste cadenza alternativa di "Another Time, Another You". A cavallo tra svariati generi e sfacciatamente senza remore verso i puristi del rock, i Vita Museum sfoderano dodici brani tutti da cantare a squarciagola, contribuendo alla contaminazione del rock a tutto tondo. Incuranti delle etichette e apertamente predisposti allo star system più scandaloso e glamour, i Vita Museum scardinano i canoni del classic rock e del metal, abbracciando indie ed elettronica di varia natura, addirittura il pop nella sua forma migliore, dando vita ad un album intelligente e motivato, anticonformista (non certo innovativo) ma sicuramente personale e curato. Da ascoltare e gustare a più non posso. (Bob Stoner)

domenica 10 luglio 2016

Werefox - Das Lied Der Maschinen

#PER CHI AMA: Alternative Rock
Ormai la Moonlee Records non ha più bisogno di presentazioni e possiamo attenderci, con margine di errore davvero limitato, che ogni nuova uscita dell’etichetta slovena sia di qualità perlomeno apprezzabile. Ecco quindi la new entry della loro scuderia, la band alternative dei Werefox, che pubblica il secondo album, 'Das Lied Der Maschinen' (la canzone delle macchine), una sorta di concept album che intende fornire una risposta all’annosa questione, largamente dibattuta nell’immaginario sci-fi, della possibilità per le macchine di arrivare a sviluppare emozioni. La posizione degli sloveni è, neanche a dirlo, schierata dalla parte del si, e questo disco si propone di argomentarlo a forza di riff sferzanti e canzoni potenti e allo stesso tempo non prive di una certa accattivante vena pop, tanto da risultare appetibili per un pubblico amante del rock in un’accezione molto ampia e trasversale. Un suono che riesce a coniugare la giusta dose di potenza e pulizia (ottima la produzione), la voce femminile di Melée dotata di forte personalità e alcune soluzioni sonore non scontate, rendono questo disco un lavoro assai interessante, in grado di coniugare sonorità vicine ai nomi di punta dell’alternative rock internazionale (vengono in mente di volta in volta Queens of The Stone Age, Deus, Twilight Singers, Garbage) con una certa sensibilità pop che può ricordare i Bosnian Rainbows. I brani sono tutti piuttosto riusciti, con una menzione particolare per le trascinanti "Orange Red", "Triads", la riuscita ballad "Omnisentient", che rivela interessanti profondità nella voce di Melée e quello che secondo me è il migliore in assoluto, "Holy Rage", con una vena blues che ricorda vagamente PJ Harvey di "To Bring You My Love". Altro giro, altro centro, per la Moonlee Rec, con una band che potrebbe avere le carte in regola per ottenere una visibilità internazionale, anche in ambito mainstream. Molto interessanti. (Mauro Catena)

(Moonlee Records - 2016)
Voto: 75

Animarma - Horus

#PER CHI AMA: Alternative/Hard Rock
La fusione delle parole anima ed arma ha dato il nome alla band di oggi, gli Animarma appunto, un trio modenese nato nel 2011 che oltre a questo EP uscito da poco, ha alle spalle un altro lavoro autoprodotto. Dopo impegno e dedizione arrivano alla Alka Record label, etichetta ferrarese che in poco più di undici anni di attività, ha prodotto oltre sessanta album, sottolineando che la scena rock italiana resiste e non si fa tappare la bocca così facilmente. Il packaging di 'Horus' è il classico jewel case che contiene un sottile libricino con i testi, caratterizzato da una copertina ricca di post produzione, ovvero una fotografia che ritrae un paesaggio urbano totalmente sconvolto a livello di forme e linee. Una volta inserito il cd nel lettore, il sound e lo stile della band risulterà subito chiaro dopo pochi secondi: provate ad immaginare i vecchi Muse presi in piccole dosi e uniti a band italiane come Negramaro e Moda, il tutto in equilibrio precario tra loro. Non parlo solo del cantato italiano, ma anche di arrangiamenti e melodie che hanno una grossa influenza data da quest'ultime band. Gli Animarma iniziano bene con "Nell'Ade", dove i riff di chitarra sono aggressivi e pregni di sonorità alternative rock, quasi come se i Mistonocivo di 'Radioattività' fossero tornati in gran carriera dopo la loro lunga pausa. Un pezzo ben studiato, equilibrato in ogni passaggio e di grande impatto, anche nei testi, che cercano di non cadere in concetti mai banali. "Tunnel del Dolore" rimane sull'onda della precedente traccia, veloce e potente, con un bel break verso i tre quarti, dove le chitarre impazzite e la sezione ritmica, fuggono in una corsa a perdifiato. Gli Animarma aggiungono poi cori e arrangiamenti simil-elettronici per completare il tutto. La musica cambia man mano che proseguiamo nell'ascolto, infatti "Invisibile" abbassa i toni con la sua impronta da ballata melodica. Dopo un bel riff iniziale di chitarra, inizia il tappeto di basso e batteria, mentre le melodie richiamano brani già sentiti, anche se il tutto è sempre ben eseguito. La timbrica vocale si fa apprezzare, passa da toni suadenti e squillanti a passaggi graffianti e sommessi, questo a dimostrazione della padronanza tecnica del vocalist. Il vibrato e l'effetto di riverbero riportano la mente a produzioni musicali di qualche anno fa, cosa di cui si potrebbe fare a meno. "Sputa Fuori" ci illude (ma per poco) che gli Animarma abbiano addirittura un appeal stoner: dopo l'intro la progressione aumenta in modo convincente e la band inserisce vari dei cambi di direzione che rendono il brano dinamico e veloce. In conclusione, il trio modenese ha parecchio da dire e si sente in più punti dell' EP; forse potrebbero eliminare alcune reminiscenze pop rock e farsi trascinare completamente dal loro tocco personale che convince non poco. Aspettiamo il full length per vedere cosa succederà? (Michele Montanari)

(Alka Record Label - 2016)
Voto: 70

venerdì 8 luglio 2016

A Dream Of Poe - An Infinity Emerged

#PER CHI AMA: Death/Doom
Devo essere sincero: non ho ancora completamente digerito i 55 minuti di questo secondo full-length partorito dal progetto musicale A Dream Of Poe; non ho saputo probabilmente cogliere appieno quel fattore che solitamente rende l'ascolto un ascolto consapevole. Credo tuttavia che ciò non derivi solamente da un mio deficit, ma anche dall'astrusità ricercata dalla band di origini portoghesi. Ciò che si avverte subito sono le ritmiche doom: lentissime, inesorabili e strazianti, che finiscono per perdere il loro carattere e (che sia voluto o meno) disorientare il fruitore, a causa dell'eccessivo minutaggio di ogni brano che le protrae all'infinito, spesso senza avvertibili variazioni che ne alleggeriscano l'ascolto. Le liriche oscure e contorte, ispirate dalla letteratura di Poe, restano rinchiuse come in un labirinto, in cui l'ascoltatore si smarrisce, trascinato dalla stordente spirale sonora che lo avvolge. L'atmosfera cupa ed esoterica, è poi completata dalle chitarre, che salvo pochi passaggi melodici, seguono quasi sempre le linee ritmiche, rafforzando ancora di più il senso di occlusione e cieco smarrimento, proprio come il prigioniero del 'Pozzo di Poe'. Al termine dell'ascolto bisogna senza dubbio riconoscere le capacità compositive del polistrumentista Miguel Santos, la “mente” del gruppo lusitano, che pecca forse per eccessiva artificiosità in un contesto del genere, finendo per generare la labirintica spirale sonora di 'An Infinity Emerged'. (Emanuele 'Norum' Marchesoni)

(Solitude Productions - 2015)
Voto: 65

https://adreamofpoe.bandcamp.com/releases