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#PER CHI AMA: Melo Death, Dark Tranquillity, Insomnium, Kalmah |
Mi sono domandato più volte che fine avessero fatto i Lunarsea. Dopo cinque anni, la risposta l’ho ricevuta inaspettatamente e quando ormai le speranze erano scemate, con “Hundred Light Years”, che ci riconsegna una band in forma smagliante, con la voglia di recuperare il tempo perduto, continuando idealmente il discorso musicale incominciato con “Route Code Selector”, album che accese definitivamente il mio interesse verso la band romana. Dopo i presunti cambi di line-up, uscite e re-ingressi, lo stabilizzarsi della formazione, l’act capitolino fa uscire questo lavoro: trattasi di un concept cd dalle tematiche spaziali, che inizia dando proprio la definizione di anno luce e spiegando che quegli “Hundred Light Years” vorrebbero rappresentare quei momenti in cui le persone si sentono lontano da tutto, dalle loro passioni, dal lavoro e dai propri cari. E il viaggio alla velocità della luce, inizia con la magnetica intro “Phostumous”, a cui segue a ruota l’esplosiva “3 Pieces of Mosaic” che conferma la fedeltà dei nostri al death melodico, di cui i Dark Tranquillity degli esordi e gli Heaven Shall Burn, ne rappresentano la summa massima, anche in fatto di ispirazione, con ritmiche vorticose, chitarre taglienti e un dualismo vocale che lascia solo il chorus alle poco convincenti cleaning vocals del bassista Cristian Antolini, forse vera pecca di un album quasi perfetto. “Next and Future” è un altro pezzo ringhiante, più nervoso per i suoi continui schizoidi cambi di tempo, ma meno aggressivo del precedente, in grado di regalarci uno splendido (ma piuttosto breve) assolo. Ma è con “Ianus” che i nostri iniziano ad impressionarmi: i suoi suoni sono del tutto non convenzionali, pur incarnando sempre lo stereotipo del death svedese. Qui, il quintetto italico alza l’asticella e offre musicalmente parlando, quanto di meglio in Europa si possa trovare in questo momento, sublimando quelli che erano i maestri del genere, i Children of Bodom. Potenza, melodia, ed epicità, permeano in modo gustoso il riffing di questo brano, che finalmente offre un lungo solo conclusivo, che fa rizzare i peli sulle mie braccia in un tumultuoso finale evocativo, spezzato esclusivamente dall’arpeggio di una chitarra. “Sonic Depth Finder” è un’altra sonora mazzata nei denti in fatto di robustezza delle ritmiche, in cui a mettersi in luce è di fatto la prestazione mostruosa dietro alle pelli di Alfonso Corace, soprattutto nell’impetuosa conclusione. Con “As Seaweed”, il sound dei nostri assume connotati più apocalittici, con una ritmica vorticosa e serrata, funambolici stop’n go che non fanno che evidenziare l’enorme potenzialità tecnico compositiva del combo della capitale, il solito connubio vocale e la comparsa, in veste di guest star, di Emanuele Casali (DGM, Astra) e Martin Minor (pianista tedesco), al pianoforte, con un magistrale break centrale, connubio della scuola Dark Tranquillity/Children of Bodom e Kalmah, e nel malinconico finale. Se con “Pro Nebula Nova” si torna a ricalcare i dettami dello swedish sound, con “Aphelion Point” la proposta dei Lunarsea, si infila in altre strade più “alternative”, con la comparsa del bravissimo Tim Charles (Ne Obliviscaris), in veste di ospite, che ci offre un assolo conturbante e romanticamente tragico di violino, una splendida chicca, impreziosita dal successivo assolo di Fabiano Romagnoli. Uno spettrale parlato “Spatia devinco, disiuncta coniungo”, apre la penultima “Palindrome Orbit”, un'altra track in cui a mettersi in luce sono le dinamiche scale in cui ad inseguirsi è il duo di asce, che contribuiscono a donare qui, come nel resto dell’album, un concentrato grooveggiante pazzesco. A chiudere “Hundred Light Years”, ci pensa “Ephemeris 1679”, song dall’apertura maestosa, grazie alle sempre ottime orchestrazioni, un pezzo che ci lancia definitivamente nello spazio siderale profondo pensato dai Lunarsea. Ci mancavate, ben tornati ragazzi! (Francesco Scarci)