Cerca nel blog

mercoledì 28 dicembre 2011

Terrortory - The Seed Left Behind

#PER CHI AMA: Swedish Death Black Progressive, Opeth, At the Gates
Un bel giorno mi ritrovo una mail della Discouraged Records che mi propone l’ascolto di due band, i Moloken, già inseriti in queste pagine e che presto rivedrete recensiti col nuovo lavoro e questi sconosciutissimi Terrortory. Ebbene, è risaputa la mia curiosità per le nuove band, soprattutto quelle underground e cosi non vedo l’ora di ricevere il pacchetto promozionale dalla label svedese. Ricevuto finalmente il cd, lo infilo nel mio stereo e procedo con la scoperta di una nuova entusiasmante band, appunto i Terrortory (vi prego però, cambiate nome). Nei primi due minuti d’ascolto, devo ammettere di aver temuto di trovarmi di fronte all’ennesima clone band degli In Flames, dopo il quarto minuto ero già conquistato dal sound del quartetto proveniente dalla piccola Skellefteå e già mi bullavo con gli amici di aver scoperto una nuova realtà in campo swedish death melodico. Partendo appunto da una base che richiama gli stilemi classici di In Flames e Dark Tranquillity, con quel sound carico di groove e riff catchy, i Terrortory incantano la proprio audience con eccellenti melodie su un tappeto ritmico granitico, con suoni che via via risultano contaminati da sonorità darkeggianti (stile Fields of the Nephilim), rasoiate black death di scuola svedese alla At the Gates o Dissection, come nella title track, dove accanto ad una epica cavalcata, ecco accadere l’imprevedibile: stoppare la propria furia black per far posto ad un intermezzo acustico di chiara derivazione Opeth, con una suadente voce pulita che va a interrompere l’aspro screaming di Johan, per poi lanciarsi in un eccellente solo, prima della conclusione degna di un album trip hop. Ecco se volete saperla tutta, solo questo pezzo vale da solo l’acquisto di “The Seed Left Behind”, un brano che rappresenta la sintesi perfetta di quello che è il sound vario e controverso di questi ragazzi scandinavi. Con “Concept: Anarchy” si ritorna a sonorità un po’ più canoniche, ma è solo pura parvenza perché i nostri sanno come stupirci e ancora una volta nel bel mezzo del brano inseriscono un qualcosa che esula completamente dalla proposta del combo: insomma la possibilità di rimanere disorientati è assai elevata e cosi se la sensazione di ascoltare black/death pare assai salda nelle prime parti di ogni song, la seconda metà rischia di confondere un po’ le nostre idee, e magari avere l’impressione di ascoltare qualcosa degli Iron Maiden o degli Opeth più acustici o ancora qualcosa di più ruffiano, in stile Scar Symmetry (“The Destroyer” o “I, You”), per poi riessere investiti dalla brutalità di una band, che ha tutte le carte in regola per diventare grande. Si, ho scoperto una nuova new sensation (anche se esiste dal 2000), i Terrortory; vi prego ora di non farveli scappare! (Francesco Scarci)

(Discouraged Records)
Voto: 80
 

domenica 25 dicembre 2011

Morning Dew - Morning Dew

#PER CHI AMA: Black, Wolves in the Throne Room
Cosa c’è di meglio nel periodo natalizio che spararsi nelle orecchie un bell’album di black metal? Nulla direi, tutto il resto decade in secondo piano, feste e consumismi vari, mentre la purezza e l’onestà della musica estrema rimane, per sempre. Se poca attenzione avevo prestato a questo lavoro, complice una copertina che sa più di folk, bucolico o quant’altro, non appena ho infilato l’EP omonimo nel mio lettore, mi sono dovuto ricredere e prendere coscienza che quanto scorreva impetuoso nelle casse del mio stereo era un bell’esempio di black metal assai ricercato, soprattutto nelle linee melodiche/malinconiche di chitarra e nell’uso apocalittico del basso (vero e proprio punto di forza dei nostri), nonché in una screaming efferato, a cura di Federico Tacoli. La seconda traccia, “Il Male di Vivere” si fa notare per quella sua voglia di sprigionare il verbo nero attraverso la lingua italiana, in un esperimento quanto mai riuscito, che ancora una volta scomoda band come gli Spite Extreme Wing e che nuovamente privilegia l’uso di un basso evocativo, che assurge in taluni casi quasi a sorta di chitarra solista. Interessante. Pur non mostrando ancora una perfetta pulizia nei suoni, che talvolta rischiano di sfociare nel caos dell’apocalisse, non posso che non “eccitarmi” nel break centrale della song, che spezza la furia distruttiva del quartetto di Gorizia. “Silent Nature Grief” apre con una parte arpeggiata, prima di abbandonarsi alla violenza (pur sempre controllata) della sua ritmica che vede ancora un break acustico centrale a smorzarne i toni, talvolta fin troppo accesi; ma è poi ancora una volta il fragore del drumming tempestoso, preciso e furente a scatenarsi e a dettare i tempi. Un’altra intro acustica, dai forti toni drammatici, apre la conclusiva “Trascendence”, una song che ha evocato qualcosa dei Primordial nella mia testa, forse per quel suo feeling pagano che solo i maestri irlandesi sono in grado di emanare, ma che ho percepito anche nell’ascolto di questo brano, il più tranquillo (relativamente parlando) dei quattro qui contenuti, ma anche quello più maturo, che in sé racchiude l’epicità degli Agalloch, le atmosfere alla Wolves in the Throne Room e che incarna puramente lo spirito italico, per la fiamma nera. Evocativi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 75
 

venerdì 23 dicembre 2011

The Circle Ends Here - Where Time Leaves the Rest

#PER CHI AMA: Post Metal, Post Hardcore, Sludge, Amia Venera Landscape
L’Italia gode di buona salute, ne sono certo: dopo le ultime recensioni di (EchO), Frangar, ma anche quelle di inizio anno di Amia Venera Landscape, mi ritrovo fra le mani un interessante lavoro di post hardcore, che sebbene quattro tracce, riesce sin da subito a conquistarmi. Partiamo però da un po’ più lontano e cioè dall’elegante formato digipack del cd, dalla desolante foto di copertina (meravigliosa) e dalle foto interne. Quanto alla musica poi, dicevo che siamo al cospetto di un five pieces che propone del post hardcore dalle forti inclinazioni romantico autodistruttive, che mi ha colpito fin dal primo ascolto sulla loro pagina facebook. E cosi “Trace the Line” prima e “Shapes to Black” poi, mostrando l’intemperanza tipica dell’hardcore, soprattutto a livello delle vetrioliche vocals smorzato però da un emozionale cantato pulito, esibiscono sicuramente anche un alone oscuro in grado di conferire alla band un feeling decisamente decadente, che alla fine si dimostrerà come il vero punto di forza di questa giovane band, nata infatti solamente nel 2010. Mi piace il sound della band friulana, aggressiva al punto giusto, melodica quanto basta, malinconica abbastanza per bilanciare la propria aggressività con divagazioni post rock, melmosa a sufficienza per definirsi sludge, decisamente intelligente per proporre un sound vario, fresco, frizzante anche nelle due seguenti “Annihilation of Entire Cities“ (dove addirittura sento echi dei Novembre) e nella conclusiva rabbiosa “Nam”, che va definitivamente ad avvalorare la mia tesi iniziale: l’Italia è sul pezzo, gode di ottima salute, almeno a livello musicale, e i The Circle Ends Here ne sono un’ottima testimonianza. Bella scoperta! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80

Elend - Winds Devouring Men

#PER CHI AMA: Ethereal Music, Ambient, Dark, Dead Can Dance
Era il 2003: contro ogni aspettativa, il progetto austro-francese più oscuro della scena gotica orchestrale decise di ripresentarsi con un nuovo album, "Winds Devouring Men", distante anni luce dalla produzione passata, seppur in qualche modo vicino al precedente "The Umbersun", il quale già evidenziava un desiderio di abbandonare le tensioni profondamente drammatiche dei primi due lavori ("Leçons de Ténèbres" e "Les Ténèbres du Dehors") facenti parte della trilogia ispirata all'"Officium Tenebrarum", conclusasi appunto con "The Umbersun" e che con esso sembrava aver esaurito il significato del progetto Elend. Invece, nei cinque anni di oblio, gli Elend hanno maturato una nuova perla dal fascino profondamente oscuro, questo "Winds Devouring Men", con il quale sembrarono volersi scrollare di dosso i complicati intrecci classici che avevano ispirato la produzione passata, per donare alle canzoni una leggerezza e una dose di essenzialità che rendono la loro musica più facilmente apprezzabile, pur non intaccando la maestosità tipica delle loro composizioni. E lo si scopre fin dalle note di apertura della bellissima "The Poisonous Eye", cui spetta l'onore di iniziarci all'album più intimista mai creato dagli Elend. L'opera prosegue poi con uno scorrere di quiete melodie che a tratti si tingono di scuro per ritrarre immagini di foschi scenari tormentati, per dar vita ai quali l'ensemble ricorre a passaggi sperimentali dalla forte potenza evocativa e a strumenti percussivi che conferiscono maggiore spessore alle strutture sonore. Echi del passato lirico degli Elend si risvegliano in alcuni momenti nei quali si percepisce la presenza della voce femminile e in particolare la bonus track "Silent Slumber: a God that Breeds Pestilence" ricorda la dolcezza struggente che si poteva catturare nell'album di passaggio "Weeping Nights". Non più confrontarsi con l’assoluto, con l’essenza divina che permea la vita dell’uomo, non più la lotta eterna tra Bene e Male, non più la discesa di Lucifero agli Inferi, bensì un tentativo di aprire le porte della propria intimità per guardarsi dentro e, almeno per una volta, lasciarsi cullare dal fluire intenso dei propri pensieri, lasciarsi accarezzare dalla dolce malinconia delle proprie sensazioni più profonde, senza il timore di scoprirne i lati più nascosti. Nei passaggi melodici di canzoni quali "Under War-Broken Trees", "Away from Barren Stars", "Vision is all that Matters" e "A Staggering Moon", dove la voce maschile si colma di una calma pacatamente sofferta, sento che per la prima volta l'eredità lasciata dai Dead Can Dance è stata veramente raccolta per essere trasformata, rielaborata e rivestita di una nuova eleganza e delicatezza. E' possibile raggiungere la perfezione artistica? Se possibile, allora gli Elend ci sono riusciti, con un album così bello e profondo da far venire i brividi. Letteralmente. (Laura Dentico)

(Prophecy Productions)
Voto: 85
 

Frangar - Bulloni Granate Bastoni

#PER CHI AMA: Thrash, Black, Punk
Mettiamo subito in chiaro le cose: a me non me ne frega un bel nulla se la proposta della band sia politicizzante o meno, cosi come mi è capitato di scorgere qua e là nel web, a me interessano i fatti e in tal caso i fatti sono qui rappresentati dalla musica. Attivi dai primi anni del millennio, i Frangar sono una formazione di Novara, che propone una miscela interessante di thrash black influenzato da una forte attitudine punk, il tutto cantato rigorosamente in italiano. Il risultato è decisamente affascinante: pur sparandoci in faccia, fin dall’iniziale “Conquistatori del Sole” un sound ruvido, diretto, una vera e propria mazzata nei denti, la band piemontese mi conquista fin da subito con la sua proposta essenziale, tirata e graffiante, che per certi versi mi ha ricordato un ipotetico quanto mai impossibile mix tra ultimi Entombed, Janvs e Spite Extreme Wing, coniugando appunto una vena prettamente thrash assai grooveggiante, riscontrabile in tutti i pezzi, con qualche sfuriata puramente black old school. Tralasciando i contenuti propagandisti dell’act italico (che sono a corredo anche di tutto il cd, rilasciato in un elegante formato digipack), mi trastullo con le song azzeccatissime di questo lavoro, che sembrano voler convogliare nel suo interno suoni provenienti da 30 anni di musica estrema, dal punk di fine anni ’70, al thrash stile Sodom/Destruction di anni ’80, con il black di Celtic Frost/Darkthrone, il tutto corredato anche da intrusioni che sembrano estrapolate da qualche film anni ’70 e da inserti propagandistici, che voglio interpretare puramente come una provocazione verso il nostro sistema corrotto. Coinvolgente “Nero Settembre” con la sua bella cavalcata finale, e quel fischio ipnotico di fine brano. Sorrido con il minuto scarso di “Legionario” che ci riconduce alle canzoni degli anni ’40; mi lascio poi investire dal punk selvaggio di “Rinascita”, con la voce del Colonnello, mai esasperata e sempre intellegibile. Si prosegue con la roboante “Alla Frontiera”, prima dell’ennesimo intermezzo, che fa da ponte a “Solstizio di Sangue”, song rabbiosa, che funge da contraerea impazzita (grazie ad una batteria devastante), che comunque mostra un parte centrale più controllata e meno selvaggia. Quatti quatti, si arriva attraverso la furiosa “Trieste Chiama”, la song più black metal oriented, alla conclusiva “Sol Invictus”, inquietante nel suo inizio dove una voce maschile parla dell’”Uomo Nero”, per poi esplodere con quel suo basso vibrante in un pezzo che potrebbe rappresentare il vero e proprio manifesto di questo interessantissimo lavoro: una song che nei suoi tredici minuti incarna l’essenza musicale dei Frangar, punk, black’n’roll, hardcore, cavalcate melodiche, ottime vocals e addirittura contaminazioni post, per quella che è la song più bella e articolata di questo “Bulloni Granate Bastoni” che schiude le porte della mia conoscenza ad un’altra entità interessante del panorama italico. Ora li attendo ospiti in radio. (Francesco Scarci)

(Lo-Fi Creatures)
Voto: 75
 

(EchO) - Devoid of Illusions

#PER CHI AMA: Death Doom, Swallow the Sun, Saturnus
Dopo averli visti un paio di volte live (ora li aspetto con gli Agalloch), averli avuti ospiti nella mia trasmissione radio, non potevo esimermi dal recensire il debut album dei bresciani (EchO), che hanno voluto fare le cose in grande sin da subito: prodotti alla stragrande da Greg Chandler degli Esoteric (che sarà anche guest star in una delle song del cd) e registrati ai Priory Recording Studios, in UK, cover art cd affidata ad Eliran Kantor (Testament, Atheist, Sodom, Xerath tra le sue opere), il sestetto nostrano gioca immediatamente tutte le proprie carte vincenti. Il nome deriva da quello della ninfa delle Oreadi della mitologia greca, famosa per essersi innamorata di Narciso, con le parentesi invece ad indicare l’onda sonora che si propaga. Per quanto riguarda la musica invece, ci troviamo di fronte ad un album che potrebbe essere idealmente suddiviso in due parti: una prima metà che si rifà alle sonorità death doom nordiche (e mi vengono immediatamente in mente Swallow the Sun e Black Sun Aeon), cosi pregne di malinconia e dalle forti tinte invernali, caratterizzata da un’inclinazione post rock; una seconda metà invece un po’ più aggressiva, ma entriamo nel dettaglio, perché dopo la consueta intro, ci tuffiamo all’interno dell’(EchO) sound con “Summoning the Crimson Soul”, una song che mostra subito l’attitudine spinta della band di abbinare riffoni di scuola “Meshugghiana” con una spiccata vena atmosferica, grazie alle ottime tastiere di Simone Mutolo, per poi insabbiarsi nel torpore del doom che caratterizza da sempre le uscite dell’etichetta russa. Con “Unforgiven March” emerge anche una certa disposizione dei nostri ad addentrarsi in territori quasi funeral, con un sound nero come la pece, che comunque si mantiene sempre melodico con la voce di Antonio Cantarin veramente superlativa sia in fase growling che cleaning. Cenni dei primi My Dying Bride si mescolano con “Serenades” degli Anathema e frangenti acustici alla Saturnus, per un risultato finale davvero da paura. Sono rapito dalla scorrevolezza dei pezzi, pur trattandosi di un genere non cosi accessibile a tutti i palati e comunque dallo spessore della musica proposta da una band che esiste solamente da fine 2007 e che già mostra doti da veterana. Si prosegue con “The Coldest Land” e ancora emerge forte l’ecletticità di Antonio alle vocals con una performance che rischia seriamente di coinvolgere non solo gli amanti del genere death doom, ma che può richiamare (anzi deve richiamare) fan da generi decisamente più melodici. Tutto suona alla perfezione grazie alla cristallina produzione ma anche al fatto che i nostri sono ottimi musicisti e lo dimostrano sia nelle fasi più movimentate che in quelle più eteree; i giri strazianti delle chitarre si insinuano nelle nostre orecchie e sono certo che non ci lasceranno più e come con il sottoscritto vi ritroverete a fischiettare alcuni giri di chitarra meravigliosi, prima di abbandonarvi ad un finale contraddistinto da un climax ascendente di emozioni, legato ad un altrettanto eccellente lavoro dei due axemen, Simone Saccheri e Mauro Ragnoli. Sono estasiato, non so che dire, il sound degli (EchO) mi ha conquistato e divorato, per quel suo essere in costante movimento, alla ricerca di continue soluzioni per sorprendere l’ascoltatore (ascoltate l’ipnotica progressiva “Internal Morphosis” con il successivo finale dirompente di scuola djent, fantastica). Ancora un altro pezzo veramente elegante ed intelligente è rappresentato da “Omnivoid”, contraddistinto da quel suo incipit sempre estremamente atmosferico ed onirico, che ben presto lascerà posto alla furia dilagante di una splendida ritmica (sempre controllata e melodica sia ben chiaro), con ancora una volta un lavoro magistrale alle tastiere, soprattutto nella sua parte conclusiva dove ancora le chitarre ultra ribassate danno un contributo eccezionale al brano. Sempre più galvanizzato vado avanti con l’ascolto, abbandonandomi alla disperata “Disclaiming My Faults”, una sorta di semi-ballad, dove accanto a dei suoni forse un po’ troppo ruffiani (all’inizio, prima del selvaggio finale) – lo stesso leggasi per la successiva “Once was a Man” -, vorrei sottolineare nuovamente la perizia vocale del bravissimo Antonio, con un’estensione canora notevole. Menzione finale per “Sounds From Out of Space”, dove il cantato catacombale del bravo Greg aleggia nei primi minuti di questo album che mi sento di consigliare a tutti gli amanti della musica metal, dal gothic al death, passando da black e doom. Ottimo debut, senza dubbio; se poi consideriamo che sono italiani, non possiamo che esserne fieri! (Francesco Scarci)

(BadMoodMan Music)
Voto: 85

giovedì 22 dicembre 2011

Weeping Silence - Promo 2009

#PER CHI AMA: Gothic Symphonic, Nightwish
Female fronted band, come citato nel loro booklet, questa giovane band si occupa prettamente di symphonic/gothic metal, proveniente da Malta e formatasi nel 2008. "Promises Broken", la prima traccia, inizia con un bel riff di chitarra, tastiere e batteria; ascoltando la voce di Rachel Greech, mi vengono in mente le voci di Dolores O' Riordan dei Cranberries e quella di Annette Olzon dei Nightwish. Tutta la canzone ha un ritmo dapprima lento e melodioso, per poi aumentare di poco la velocità e portando all'acuto il cantato. Solo verso la fine, dopo essere ritornati alle atmosfere placate, si avvalgono di cori, dando così una nota più solenne al brano. "Dark Waters" riprende il ritmo veloce di prima, con la stessa nota acuta nel cantato: l'estensione vocale di Rachel è infatti sorprendente, il che contribuisce a rendere ancora più melodico l'album. "Within White Walls" si apre con un nostalgico tocco di chitarra, mentre la voce diventa più dolce che mai: dalla canzone traspare un'aria mesta, pesante, in parte difficile da sopportare. La lentezza del brano fa quasi venire voglia di premere il pulsante “forward” del lettore cd, fortuna che dopo tutti gli acuti il brano arriva alla fine. "Innocent Cries", l'ultima traccia, ripropone i cori orchestrali trovati nella opening track, ma qui si avvale anche di sintetizzatori tra un acuto e l'altro. Più sopportabile della precedente, ricorda vagamente il sound dei Nightwish, anche se sembra più la brutta copia. Questo è uno degli album più brutti che abbia mai sentito, si salva soltanto il fatto di aver inserito note melodiche e orchestrali, benché la voce sia forte ed energica; continuando però a tenerla acuta, porta automaticamente l'ascoltatore ad interrompere l'ascolto dopo i primi minuti della prima traccia. Sperando che l'album uscito dopo, “End of an Era”, sia più carico e ricco di sonorità, non posso che essere lieta di sentire la fine di questo album e metterlo tra i cd nell'angolo dei cd scartati. Più energia negli strumenti, su! (Samantha Pigozzo)

(Alkemis Fanatix)
Voto: 55
 

Deviate Damaen - Religious as Our Methods

#PER CHI AMA: Gothic/Dark
Premetto che a me piacciono particolarmente le band tendenti allo psicotico, folle, assurdo: questa band italiana è una di quelle (oso persino a paragonarla agli inglesi Eibon La Furies: mi elettrizzano allo stesso modo). Formatisi a Roma nel lontano 1992, il loro genere può essere indicato come un gothic metal sperimentale, tendente a parti teatrali. Quello che mi appresto a recensire è la versione decennale rimasterizzata e comprensiva di una traccia inedita (infatti è il loro primo album, uscito nel lontano 1997). La prima traccia, "Nec Sacrilegium, Incesti Gratia! (N.Anathem / Romanovhimmelfahrt)", si avvale di suoni campionati, chitarra distorta, cori di chiesa e rintocchi di campana; man mano che si prosegue, si può persino udire una specie di esorcismo, ovviamente in italiano: impressionante e coinvolgente, ai limiti della sanità mentale... Assolutamente da ascoltare, anche grazie ai primi 8 minuti (sui 21 della durata del brano) con una “particolare” confessione... altro non voglio dire per non rovinarvi la sorpresa. "Lyturgical Obsession" inizia con un'aria tempestosa, dove vento forte e tuoni vengono seguiti ed accompagnati da note di organo. Verso metà brano si ode un giro di chitarra elettrica: è lì che il brano inizia, con la voce teatrale tendente un po' all'orchestrale e un po' al growl, mentre il sound in sottofondo è molto semplice e campionato (ciò che dà particolarità al brano sono infatti i rumori che si alternano alla voce). Una piccola nota di follia, insomma. Violini e cori maschili aprono la terza traccia, "Under the Elation’s Drape (of my Nobility)": il tono di voce cantato è quasi uguale alla traccia precedente, se non per la decisione di rimanere più sullo stile de “Il Fantasma dell'Opera” (infatti me li immagino di nero vestiti, con una maschera bianca sul volto). Da metà in poi tutto cambia: il canto teatrale viene accompagnato solo da una chitarra acustica, per poi tornare esattamente con la combinazione dell'inizio brano. Altra musica per "I Want Hate!" dal timbro più rock, ma senza mai tralasciare la vena operistica: il sound che ne esce sembra più stile anni '80 (addirittura mi viene in mente Billy Idol!), dove chitarra elettrica, drum machine e tastiere si fondono in un tributo a quel particolare lasso di tempo. "White Venus" è la cover delle Bananarama del 1986 (a loro volta cover degli olandesi Shocking Blue del 1969) in stile più “techno-trance”: ben fatta, a mio giudizio. Torniamo ai monologhi in italiano con "Un Mondo Senza Stelle", quasi ad interpretare una poesia sul connubio stelle/lucciole con note di violoncello e base campionata; con le parole di chiusura della Divina Commedia, si chiude a sua volta questa traccia/monologo. La traccia inedita menzionata all'inizio della recensione è anche l'ultima traccia di quest'opera. "No More" è più uno sfogo sull'attualità, più in stile techno (vedasi “White Venus”) che ricorda gli Scooter: posso solo consigliarne l'ascolto, perché altre parole per descriverla non ne ho. In chiusura, posso dire che questi romani Deviate Damaen sono esattamente come il loro nome: matti, deviati, folli, particolari. Quando sarete alla ricerca di qualcosa di particolare da ascoltare, procuratevi questo cd. (Samantha Pigozzo)

(Space 1999)
Voto: 85