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sabato 26 luglio 2014

Hawkmoth - Calamitas

#PER CHI AMA: Post strumentale, Isis, Pelican
Band come Isis e Pelican hanno grandi meriti, è indubbio, ma anche discrete colpe, se è vero che, da qualche anno, c’è una distesa sconfinata di band che sfornano album di post-metal/stoner/sludge strumentale, che per la gran parte difficilmente reggono la prova del secondo ascolto. Cosa quindi potrebbe mai farmi venire voglia di ascoltarne un altro, l’ennesimo disco post-metal/stoner/sludge strumentale? Saranno forse le scarse aspettative con le quali mi accingo all’ascolto, saranno – piú probabilmente – le qualità di questi quattro ragazzi australiani, ma questo 'Calamitas', alla fine mi sembra un mezzo capolavoro. Già, perchè, pur non inventando nulla di nuovo, gli Hawkmoth hanno quello che serve per fare grande musica, e che manca troppo spesso a tante altre band: sincera passione, tante cose da dire e i mezzi tecnici ed espressivi per farlo nel migliore dei modi. La caratteristica che colpisce immediatamente è l’armonia dell’alternanza tra parti piú riflessive e rarefatte ad altre in cui la potenza si sprigiona in una maniera che sembra inarrestabile. A questo contribuisce non poco una resa sonora fenomenale (e stiamo parlando di un’autoproduzione), in grado di esaltare tanto le sfumature quanto la furia. Succede sempre qualcosa, in queste otto composizioni, qualcosa che non ti aspetteresti ma che, una volta accaduto, ti rendi conto essere esattamente la cosa che avresti voluto accadesse. Merito di uno spettro di influenze vastissimo, che va dallo stoner al noise, dal doom al grunge, dal post rock al metal classico, e merito anche di quattro musicisti di primo livello: come non citare la prestazione mostruosa della sezione ritmica, in grado di tramutare la musica in evento meteorologico, in un tuono che preannuncia temporali da fine del mondo; come non rimanere affascinati dal lavoro di due chitarre che si fronteggiano e interagiscono in modo sorprendente e mai banale. Otto brani per 54 minuti, e l’impressione che non ci sia nulla, nemmeno un secondo, di superfluo. Tutto qui dentro è funzionale alla riuscita del pezzo. Difficile segnalare i pezzi migliori, tanto ognuno ha una sua identità ben precisa e i suoi punti di forza. Potrei citare "Tundra" e "Big Black Birds Circle the Sky", perchè sono tra quelli che meglio trasmettono un’immagine fedele del lavoro intero, nel loro andamento tortuoso, tumultuoso, sorprendente. Lo dico senza nessun dubbio, e dopo aver ascoltato questo disco per settimane intere: gli Hawkmoth sono una grande band, e 'Calamitas' un grande album. Non potete esimervi dall’ascoltarlo. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 80

https://www.facebook.com/Hawkmoth

lunedì 21 luglio 2014

Splatters - Fear of the Park

#PER CHI AMA: Horror Rock
Oi! Oi! Oi! Queste sono le prime tre parole che mi sono saltate alla testa ascoltando l'album di esordio di questa band lombarda, formatasi nel 2011 e con un demo di 5 canzoni all'attivo. L'ensemble è formato da Drow come voce e seconda chitarra, Alex Damned alla chitarra e cori, Mr. Sprinkle al basso e Paul Destroyer alla batteria. Di loro però parla la musica: come si può già intuire dal titolo, è un gioco di parole che riprende il famosissimo disco degli Iron Maiden, e quella piccola sensazione di disagio che si prova entrando in un luna park (magari scancanato e semi abbandonato): la si sente meravigliosamente nella “Intro”. Pronti per un giro sul rollercoaster? Ottimo, perché ”Killer Clown” è la colonna sonora adatta, così scattante, incisiva e rimembrante il sound più punk/hardcore, con la voce roca e urlata, oltre a dei cori che risulterebbero migliori tenendo le braccia alzate e agitate per aria. Non che ”Welcome to Zombieland” sia tanto diversa, ma qui la differenza è nella sonorità meno spedita e più profonda: giusta proprio per il tunnel degli orrori, o degli specchi. Il ritornello è difficile da non cantare, magari agitandosi per la stanza... Questo potrebbe essere l'incipit adatto per la terza traccia ”Here Come the Monsters”, magari rincorrenti questi audaci (o sconsiderati?) visitatori del luna park in declino, formati magari dagli storici freakshow: la batteria, grazie anche alle note di chitarra ripetute in rapida successione, ricordano facilmente le gambe che scappano e il rumore dei piedi sulla terra, in fuga da questi fenomeni da baraccone. Come se volessero collegarsi al precedente brano, ”Die in a Leather Jacket” sembrerebbe quasi voler ricordare "Die With Your Boots On" degli Iron. ”Hope” si distacca dalla melodia ascoltata finora: addirittura ricorda Alice Cooper con la sua strafamosa “Poison”, anche se gli Splatters si limitano a modificarne il tempo e renderlo più spedito e battuto, mantenendo un profilo più hardcore. “Why Do They Always Die in This Way?” inizia con note di pianoforte, chitarra elettrica e voce grave, ma chiara e limpida. Lasciato trascorrere il minuto (e mezzo) di calma, si torna alla carica con un bel incitamento musicale “Run! Faster than You Can Run!” cantato urlando, mentre la batteria non lascia un attimo di tregua. Ma i peccatori vanno in paradiso? E perché no, con la vertiginosa ed energica “Sinner in Heaven” sembra che possano accedervi, magari con qualche pedata nel fondoschiena, come il motivo lascia intendere... Probabilmente “My Lucky 13” potrebbe essere un plauso, o ringraziamento, a Jason Voorhees per la grande fortuna che ha portato questo infausto numero, o semplicemente un richiamo ad uno dei B-Movie che hanno scandito i grandiosi anni '80. Tornando al nostro luna park infestato, quando i malcapitati si trovano nel labirinto di specchi ritrovano “Minotaury”, da cui è difficile scappare. Si sa che ogni cosa arriva ad una fine: ed è così anche per questo primo lavoro degli Splatters, un viaggio psicotico in un parco divertimenti malefico e invaso da diverse creature. “Dark Way” è la traccia conclusiva, suonata al pianoforte e cantata alla stregua dell'incipit di “Why do...”. Ovviamente le ultime note del piano riprendono quelle dell'intro, creando una specie di vortice da cui è difficile uscire... non puoi scappare dagli incubi. In chiusura, quest'album mi ha letteralmente entusiasmato e ispirato, trovandolo geniale e folle al tempo stesso. Una richiesta: aggiornate il profilo myspace, se volete tenerlo come sito ufficiale; troppo scarno per i miei gusti. (Samantha Pigozzo)

(Atomic Stuff - 2012)
Voto: 80

domenica 20 luglio 2014

Bound by Entrails - The Stars Bode You Farewell

#PER CHI AMA: Black Symph, Emperor, Bal Sagoth
Mi sa che sono parecchio distratto ultimamente: sotto il naso mi passano un sacco di cd, ma non credo di dargli il giusto peso. La band di oggi l'avevo già notata un annetto fa ma solo ora ho realmente prestato il mio orecchio ad un ascolto più attento e cavolo cosa mi sono perso. Con un certo ritardo quindi vi descrivo di 'The Stars Bode You Farewell', album dei Bound by Entrails, uscito nel 2012, che ha visto una marea di consensi positivi nel web (tranne in Italia ovviamente, dove il disco non è stato quasi mai preso in considerazione). La band del Wisconsin ci propina un sound estremo che si dipana vertiginosamente tra il black e il death, offrendo tuttavia anche frammenti che potrebbero essere presi in prestito dall'avantgarde od dal jazz, come accade appunto in "Threshold of Fear", song feroce, ma che propone anche un inedito intermezzo che di metal non ha davvero nulla. La base dei nostri pesca da quei suoni epico-sinfonici da cui sono partite band come Emperor, Borknagar, Limbonic Art o Bal Sagoth, in cui si alternano voci urlate/growl e pulite, e in cui la ritmica martellante di sottofondo è attenuata dalle splendide orchestrazioni. Peccato solo per una produzione non proprio impeccabile, che penalizza notevolmente la qualità dei suoni; ma pure un esuberante utilizzo del drumming conferisce al lavoro una resa sonora talvolta un po' troppo caotica. Tuttavia, l'album si lascia apprezzare offrendo ottimi spunti nella maggior parte dei suoi pezzi. Vorrei citare a tal proposito la vena progressiva di "Swan Song" (particolarmente ruffiana nei confronti degli ultimi Opeth), la malinconica e al contempo feroce "Search for Sunken R'lyeh" o la lunga atmosferica "With Vernal Impunity", che si muove tra un death/black sempre accompagnato da ambientazioni notturne, cariche di un feeling epico, oscuro e spettrale e che vanta peraltro un bellissimo assolo di pianoforte (eccolo qui il mio pezzo preferito). Citazione a parte per i quattordici minuti conclusivi di "Ghost of Our Former Selves", song dall'attacco spiritual-etnico che divamperà in brevissimo tempo in un melting pot di stili, pescando dalla musica estrema ma pure dal progressive d'avanguardia, mostrando comunque le infinite potenzialità di questo ensemble che è giunto addirittura al terzo album, senza che nessuno, nel nostro amato paese, se ne accorgesse. Bound by Entrails, finalmente un nuovo nome, nel desolato panorama black symph, da tenere sott'occhio. (Francesco Scarci)

(Runefire Records - 2012)
Voto: 75

Torrential Downpour - Truth Knowledge Vision

#PER CHI AMA: Math Progressive, Dillinger Escape Plan, Between the Buried and Me
Prima delle mie ferie di agosto e dei suoi consueti Back in Time, meglio darsi da fare per segnalarvi le ultime proposte bollenti di quest'estate un po' timida a venire. Oggi è il turno degli statunitensi Torrential Downpour, quartetto sperimentale che ci offre undici caleidoscopiche tracce che sapranno catturare la vostra attenzione. 'Truth Knowledge Vision' è un album che inganna all'ascolto del suo primo brano, perché sembrerebbe di essere proiettati in una galassia vicina a quella di Devin Townsend. Errato. Quando "TKV", la seconda traccia entra in loop nel vostro cd, vi renderete subito conto che il New Jersey, stato di nascita di questi mattacchioni, dista anni luce dal mondo fatato del folletto canadese (anche se qualche rimando lo si ritroverà nel corso dell'ascolto). I Torrential Downpour ci investono con un sound spaziale, visionario e psicotico, in cui miscelano il math dei Dillinger Escape Plan con il progressive dei Between the Buried and Me, la genialità dei Follow the White Rabbit e la violenza del death, infarcendo il tutto anche con un approccio a la Meshuggah e una stralunata effettistica noisy. Tutto chiaro quindi? Inoltrarsi nel mondo di questi alieni sarà un'esperienza davvero unica: l'arrogante "Satan, Whatever...", la lunga, atmosferica e schizofrenica "Hyperion", la caotica "Basilisk" o la cervellotica e malinconica "The Offering" (la mia song preferita), vi sorprenderanno per tutto il loro armamentario di trovate che consente ai nostri di differenziare la propria proposta dalle altre band di cui sopra. Chitarre ribassate, percussioni tribali, clean vocals che si dipanano tra l'acido e l'isterico, ambientazioni horror, per un album che vanta anche un eccezionale mixering e mastering a cura di Kevin Antreassian (Dillinger Escape Plan) ai Backroom Studio. Torrential Downpour il nuovo nome da segnarvi sulla vostra agenda in quest'estate diventata improvvisamente torrida... (Francesco Scarci) 

(Self - 2014) 
Voto: 80 

sabato 19 luglio 2014

Falloch - This Island, Our Funeral

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze, Alcest
Li stavo aspettando al varco da tre anni, li ho anche dati per dispersi ad un certo punto, ma finalmente gli scozzesi Falloch hanno dato seguito al meraviglioso 'Where Distant Spirits Remain' del 2011, con un lavoro nuovo di zecca, che fin dal suo epilogo sembra voler dare una certa continuità al debut album, concentrandosi su sonorità che miscelano amabilmente post rock e shoegaze, il tutto intinto di un tenue folk. Il risultato, come potrete intuire, non è affatto male, anche se devo ammettere che il quartetto di Glasgow ha perso un po' di quella magia e di quel misticismo e folklore che avvolgevano il precedente Lp. Non fraintendetemi però, l'album è godibile in ogni suo momento, dalla lunga opening track, notturna e malinconica alla successiva traccia, in cui le ritmiche sembrano pestare non poco, ma dove a convincermi non troppo è invece la performance vocale, un po' sottotono rispetto al passato, in quanto sembra aver perso parte del suo calore primigenio. La musica riesce a ritagliarsi i suoi consueti spazi acustici e le sue classiche ambientazioni autunnali, affrescando ancora l'etere di quelle immagini tipiche delle verdi colline scozzesi. Una voce femminile fa capolino nella terza song, più che un reale brano, un passaggio verso la lunga quarta traccia. Tiepida, dalle spiccate atmosfere post- nelle sue nervose chitarre, il brano vede affiancarsi alle clean vocals anche delle urla che rappresentano un retaggio della precedente release. L'influenza dei francesi Alcest tiene banco, ma in 'This Island, Our Funeral' è completamente scomparsa quella componente black che ogni tanto divampava in alcuni pezzi di 'Where Distant Spirits Remain'. Non che sia un difetto, ma il feroce turbinio estremo rendeva l'album più dinamico e imprevedibile. Un altro interludio e poi i 10 minuti della traccia numero 6 (non me ne vogliate ma i titoli delle canzoni non ci sono), che per certi versi mi ha ricordato gli ultimi Lingua, quelli prima dello scioglimento, ma anche qualcosa dei A Perfect Circle, segno che la band in questi ultimi tre anni ha subito comunque una certa mutazione/evoluzione musicale, a discapito di quella componente black folk di cui dicevo poc'anzi, dando invece maggior peso a un approccio all'insegna dello shoegaze/alternative rock. Non so dirvi se questo sia bene o male, io li preferivo nella loro veste primordiale, ma 'This Island, Our Funeral' è l'esatta fotografia di quello che i Falloch sono oggi, una validissima band che ha le carte in regola per sfondare e ottenere il successo che merita con un piacevole mix di suoni che strizzano l'occhiolino ai trend più in voga del momento. Ah dimenticavo: la mia song preferita dell'album? L'ultima, quella di cui non vi ho parlato volutamente. 12 minuti da pelle d'oca, per cui vi incito all'ascolto... (Francesco Scarci)

(Candlelight Records - 2014) 
Voto: 80 

Ars Moriendi - La Singuliere Noirceur d'un Astre

#PER CHI AMA: Progressive Black, Avantgarde
Ancora una volta ho peccato di presunzione: pensavo di conoscere praticamente quasi tutto dell'underground e ignoravo ingiustamente gli Ars Moriendi. Trattasi di una one man band in piedi addirittura dal 2001, capitanata da Messieurs Arsonist, originario di Clermont-Ferrand nell'Alvernia. 'La Singuliere Noirceur d'un Astre' è il terzo album per la band transalpina che esce per la label ucraina Archaic Sound, dopo un'infinita serie di demo. Fatte le dovute presentazioni formali, andiamo a vedere che cosa troverete dentro questo cd di 5 pezzi. Si parte con "De l'Intouchable Mort" il cui cantato in francese e le iniziali atmosfere barocche, hanno istintivamente rievocato nella mia mente una band che era finita nel dimenticatoio, i Misanthrope. A differenza di quest'ultimi però, nel sound degli Ars Moriendi c'è una maggior predominanza del black, almeno nelle sue lunghe sfuriate che mantengono tuttavia una buona linea melodica senza mai superare i limiti del buon senso. La traccia dura 10 minuti, nel cui mutevole corso, si alternano le emozioni contrastanti del mastermind occitano: furia black, acustici frangenti ambient, sperimentalismi d'avanguardia che contribuiscono a nutrire la mia curiosità per la band. "Vanité" segue a ruota con i suoi abbondanti otto minuti, dediti a un black metal melodico in cui si possono trovare riferimenti ai primi Alcest, senza tralasciare una vibrante componente space rock (vicina ad alcune cose dei Pink Floyd) che spezza a metà brano l'incedere minaccioso dello stesso, prima che la musica riesploda in un'inebriante epica cavalcata conclusiva. La voce di Arsonist dona poi una decadente poesia all'intero lavoro in quanto non si manifesta con il classico screaming delle band estreme, ma è sofferta, tragica e sussurrata, in una performance davvero convincente. L'album mi prende sempre di più, e la cupa "De Ma Dague..." avvicina la creatura francese alle cose dei teutonici Nocte Abducta e al loro ultimo 'Umbriel'. La nebbia sembra avvolgere, affascinante e misteriosa, la musica degli Ars Moriendi in una lenta e spettrale nenia da brividi. La traccia omonima suona in modo più classico e forse è anche l'esempio più feroce contenuto nell'album, anche se non mancano spunti liturgico-corali, che riferiscono di una genialità latente che non tarderà ad esplodere in un futuro non troppo lontano e a seguire il successo di realtà quali i già citati Alcest, Blut Aus Nord e Deathspell Omega, band ormai di culto dell'eccezionale panorama d'oltralpe. La conclusiva title track apre all'insegna di enigmatici e glaciali suoni prima che a prendere il sopravvento sia il funambolico ed imprevedibile sound del bravo musicista francese. Una bella sorpresa che lascia presagire notevoli sorprese per il domani degli Ars Moriendi. (Francesco Scarci)

(Archaic Sound - 2014)
Voto: 80

venerdì 18 luglio 2014

Navalm - Recovery of Sync

#PER CHI AMA: Techno Brutal Death, Cannibal Corpse, Nile
Quintetto ucraino, i Navalm fanno parte di quell'ondata di gruppi provenienti dall'est Europa che si propone come bacino d'utenza primario per quello che riguarda metal ed affini. Il cd in questione, pubblicato per la Metal Scrap Records nel 2013, ci propone un bel gruppo dedito al death estremo con alcune sortite nel technical death metal (in alcuni punti mi hanno ricordato i Nile). 15 tracce che scorrono via senza intoppi, rispettando i canoni dettati dai capolavori del genere (pescare tra le migliori uscite dei Cannibal Corpse, Napalm Death e Pestilence potrebbe esservi d'aiuto per capire in che lidi sonori ci troviamo); le composizioni sono di buon livello, la preparazione del gruppo è invidiabile e i suoni sono più che sufficienti. Non ho idea di quali siano i trend di missaggio in auge dalle parti dell'ex Unione Sovietica, ma sembra che di un bel filtro “effetto grattuggia” sulle vocals proprio non se ne riesca a fare a meno; in questo caso però il cantante riesce a produrre un growl bello tosto e quindi il filtro serve più che altro come aiuto alla povera ugola del singer, martoriata per 40 minuti. Menzione particolare e i miei più sinceri complimenti alla prestazione della sezione ritmica: batteria e soprattutto basso, fanno un figurone sfoderando una performance di livello primario. Bravissimi. Per quello che riguarda la tracklist, mi sento di consigliare le prime due songs “ Let Others Pray” e “Sign” e la mazzata da poco meno di 2 minuti “Frank Decomposition”; molte tracce hanno una durata inferiore ai 2 minuti, esplicando la marcata attitudine del gruppo a spaccare tutto in tempi brevissimi. Poche decelerazioni, i ritmi si mantengono molto alti per tutta la durata, quando si rallenta lo si fa per poco e per dare spazio a svisate di basso (Steve DiGiorgio docet) mai troppo stucchevoli, ma che anzi, aiutano a rendere più edulcorato un contesto che potrebbe risultare fin troppo aspro. Cresce con gli ascolti “Recovery of Sync” e risulta essere una bella sorpresa; niente di fenomenale, ma finisce per farsi volere bene. E per i Navalm può considerarsi un ottimo risultato. (Claudio Catena)

(Metal Scrap Records - 2013) 
Voto: 65 

Sunn 0))) & Ulver - Terrestrials

#FOR FANS OF: Drone/Ambient/Experimental 
Coming in at only three tracks, reviewing this felt like trying to review one of the "Environments" recordings that were popular in the 1970s — soundscapes of nature, recorded to stimulate reflection, meditation and relaxation. Prior to giving this recording a listen, I was familiar with Sunn 0)))'s release 'Black One' —extremely slow, droning, ambient metal. But with the inclusion of Ulver on this recording, who has bounced between black metal, Norwegian folk, electronica, avant-garde, industrial, psychedelic and other genres, it definitely takes on a bit of a more experimental flavor. It took me a while to determine how to review this work, because the nature of this type of composition makes it more amorphous than what we typically identify as metal music. Since it is so atmospheric, I decided to immerse myself in the feelings and images it stimulated, and write of those. In order, now are my impressions of the three pieces on 'Terrestrial': 1) "Let There Be Light" - at almost eleven and-and-a-half minutes, this song opens with a fade-in of echoing notes, very atmospheric and conjuring a surreal, flow-of-consciousness type of feeling. Reverberating strings and keyboards undulate in and out of the mix, followed by bleating horns announcing the break of dawn. This piece is reminiscent 'City of Angels', in which Nicholas Cage, before choosing to fall to mortality, hears the music of the dawn with the other angels. The horns continue, suggesting the endless possibilities of the newfound day which stands before us, alternating between patiently waiting for us to choose a path and teasingly drawing us to choose a potential to start on the path of reality - of becoming more than just a thought or a dream. Halfway through the piece, we here later movements warning of potential danger and conflict of choosing certain potentialities, while simultaneously warning of the greater danger of making not choice at all--of allow all potentials to be irrevocably lost. Around 8:10 the mix thins out--percussion and dissonance come in, heralding the message that the time to choose has past, as our path through the day has now been cast. We must know move through that choice, to wherever it takes us, until we fulfill its potential and arrive at its destination. 2) "Western Horn" - the swell that opens this track is much darker and foreboding that its predecessor. It seems to foreshadow the suggestion of possible imminent danger lurking just ahead, around the next turn. It suggests a ship at sea sailing to uncharted lands--trying to find a better route to a new, yet undiscovered world. It could be a soundtrack to the sailor's map of the middle to late medieval ages, conjuring up the notation of "There Be Dragons" in unexplored territories. Is this voyage a fool's errand? Shall we fall off the edge of Earth, into perdition? Shall we live to return and tell the tale of our trip? Sustained strings and keyboards, occasional buried voices and bass notes set the scene of a potentially terrifying, yet somehow necessary, journey. Between 8:30 and 8:59 it seems that we may well have arrived, as the song then begins to fade.... 3) "Eternal Return" - at 14:10, this is the longest (and final) track on "Terrestrials". Starting with isolated strings, perhaps a Japanese koto, or someone plucking the strings of a piano or a harp, haunting violin melodies and soft organ swim in and out of the forefront of the mix, conjuring the meditative reflection of being fully present in the 'eternal now'. Around 7:30 or so, soft, male voices, piano chords, and pizzicato strings come forth, announcing arrival and a triumph soon to be won. Is this the Buddhist 'satori' - the transcendence of earthly woes through transcendence of self, in union with the cosmic all? Around 10:30, we find ourselves being pulled back from our lofty vantage point — back into the threats and dangers of the mundane existence of the physical. We cannot escape ourselves for long, while we must learn to cherish those times when we do. A bittersweet victory, as we cannot stay outside of ourselves ("in extasis") for very long, if we are to continue to live in this world. Yet, for all of us, lay ahead a permanent escape, at the end of life. If there is an intangible soul which transcends the body, we should expect to be reborn into this world of physicality. All-in-all, with this work, Sunn0))) and Ulver may have arrived at the perfect union of what Sun Ra's Arkestra and Black Sabbath were both trying to achieve. That is, to evoke pure waves of emotion in the listener. The second song, in particular, could easily fit as the soundtrack of a Gothic horror film. 'Terrestrials' is not for cruising, headbanging or windmilling, but it is perfect music for deep and profound reflection, while still providing the necessary catharsis that is a hallmark of heavy metal. (Bob Szekely) 

(Southern Lord - 2014) 
Score: 85