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martedì 21 marzo 2017

Arkhaeon - Beyond

#PER CHI AMA: Black/Ambient Esoterico
Non so se sia l'influenza della vicina Francia, ma la Svizzera negli ultimi tempi sembra essere un paese in grosso fermento dal punto di vista artistico. La scena musicale pullula di realtà di ogni tipo che vanno dall'indie rock al post metal, fino a giungere quest'oggi a scoprire gli Arkhaeon e il loro black metal esoterico. Dopo aver fatto partire il cd, che consta di un unico brano, "Beyond" appunto, ho avuto un flashback che mi ha riportato ai primi anni '90, quando uscì un'altra band elvetica, i Sadness e il loro magnifico 'Ames de Marbre'. Oggi la storia sembra ripetersi con il black dark di questi Arkhaeon, di cui ben poco si sa: zero informazioni sulla line-up, men che meno sulla loro città d'origine, magari scoprirò che ci sono davvero punti di contatto con quei Sadness, svaniti ahimè nel nulla sul finire degli anni '90. La musica dei nostri sembra terrificante nel suo malvagio incipit, con una scarica di nerissimo black corredato da schizofrenici blast beat, peraltro ovattato da una registrazione non proprio eccelsa. Le vocals sembrano provenire da gironi infernali, tra urla sgraziate e cantati da rituale esoterico. Qualcosa cambia però velocemente perché dopo soli quattro minuti, il sound degli elvetici cambia forma, diviene più atmosferica, grazie ad un ottimo break acustico guidato da una splendida chitarra sul cui sfondo continuano a capeggiare vocalizzi maligni, ma molto più distanti. Sembra quasi l'ascesa delle anime dannate ad un grado più elevato di purificazione perché le voci si fanno più angeliche, il ritmo più compassato e decisamente più spiritualistico. È una forma sonora più votata all'ambient etereo quello che riscopriamo nei minuti successivi; la rabbia dei primi minuti sembra ormai un lontano ricordo. Ma la band ha un'anima mutevole e il maligno si muove ancora, ne avverto l'inquietudine. È tangibile. E non mi sbaglio in quanto riemerge da lì a poco tutta la foga veemente del black in una poltiglia sonora caotica. Si il caos, quello che divampa e incendia l'aria nei successivi minuti in cui la magia e la ritualità da poco costituitasi vengono improvvisamente azzerate per lasciar posto alla furia caustica dei nostri. Non temete, gli Arkhaeon hanno un demone burlone dentro la loro anima che lotta contro il bene e per questo nel corso dei trentatré minuti di 'Beyond' ci sarà modo di cambiare più e più volte il mood tormentato della band, in un'alternanza stilistica che spazia tra sfuriate black, lunghi intermezzi ambientali, screaming vocals, altre più soavi, cerimoniali di ignota origine, suoni, rumori, derive droniche, sperimentalismi vari, che rendono l'album ricco di fascino, cosi dotato di un sound intrigante, ispirato sicuramente dalla vena ritualistica che ne permea l'intera opera, e che come un mantra entrerà nelle vostre teste, cosi come nella mia, e non vi darà più tregua. (Francesco Scarci)

(BergStolz - 2016)
Voto: 75

https://arkhaeon.bandcamp.com/releases

mercoledì 14 dicembre 2016

Soothsayer - At This Great Depth

#FOR FANS OF: Black/Doom
Leaping lizards! I'm baffled! How can a band release a thirty six minute long EP comprised of three tracks, then follow up a year later with a "full-length" debut limited to just two (yes, 2!) tracks which add up less than a half-hour?! Well, these are precisely the mysterious steps taken by an enigmatic outfit from Cork, Ireland. Say hello to Soothsayer as it plods along a bizarre and forlorn voyage on the far-out fringes of doom metal, namely atmospheric doom for lack of a better term. Released yesterday under Transcending Obscurity Records, 'At This Great Depth' is comprised of a mammoth, sixteen minute-long track, "Umpire" (which bears no relation to Major League Baseball) and a half as mammoth track, "Of Locusts And Moths", clocking in at eight minutes. Needless to say, there's only so much I can recount in regards to this unquestionably odd full-length debut, as much by its brief duration as musical queerness. Then again, nothing's too bizarre or avant-garde for those who take the much less travelled road which is this little known doom sub genre. While it's definitely not my cup of tea - I prefer upbeat, hard-driving doom - I see its appeal as it sets the tone for a melancholic yet cosy mood/state-of mind while also making for interesting background music to introspective thought processes. However short, this release is aptly titled as it does indeed make one feel like they're submerged underwater. Imbued with dark and mournful undertones, "At This Great Depth" unfolds at a snail's pace. The band mates pour heart and soul in their respective vocations, from a tribal driven Will Fahley on drums, Steve Quinn with his glum, spaced out bass lines, or guitarists Marc O'Grady and Con Doyle who manage to coax an intense gallimaufry of discordant and unorthodox sounds out of their instruments. Considering the genre at hand, it's unsurprising druid front man Liam Hughes pops up late in the game, lazily integrating himself with the sporadic musical experimentation at hand. "Umpire" really does make one feel like they're slowly sinking towards the Ocean floor, away from the bright, dry comfort zone of every day life. (Hence my irrepressible impulse to re-surface thirteens minutes in, which is a heck of a long time to hold your breath!). Nevertheless, I'm impressed no keyboards or artificial sounds were employed in the making of this production. The entire affair is rendered with standard heavy metal equipment. It's rather the apparent abuse Hughes subjects his vocal chords to which is unforgivable (yet thankfully forgettable). His spastic nothings can be described as an unsettling cross between a hiss and a screech. Any kind of lyrical clarity is nonexistent, while the bass playing and drumming doesn't quite amount to a comprehensive and steady rhythm section. In fact, they sound like nothing more than thunderously irregular accompaniment. In general, the spotlight (er, dark light?) is placed on Hughes and the guitarists. To sum this up and avoid a tedious, thousand word play-by-play, I'll simply place At This Great Depth in the realm of well established atmospheric doom who'll probably enjoy this recording if only for its esoteric nature. To Soothsayer's credit, the desired atmosphere - one of a cold numbing grace - has been adequately achieved. Unfortunately, it also lacks any kind of memorable passages or singular musical thrills. Therefore, I strongly urge "regular" doom and/or heavy metal fans to tread lightly when giving this release a cursory listen. Adventurous as it was, one glacial plunge was enough for me. Proceed with caution. (Eric Moreau)

(Transcending Obscurity - 2016)
Score: 45

https://soothsayerdoom.bandcamp.com/

martedì 23 agosto 2016

Drought - Rudra Bhakti

#PER CHI AMA: Black Esoterico, Deathspell Omega
L'Avantgarde Music non sbaglia un colpo: da quando ha rinnovato il proprio roster con realtà del sottobosco internazionale, ha infilato una serie di release davvero eccellenti. Non ultimi questi Drought, la cui origine risiede probabilmente nel nostro paese, che se ne escono con questo ritualistico EP di debutto intitolato 'Rudra Bhakti'. Inequivocabilmente, già dal titolo i richiami alla religione induista sono palesi, in quanto Rudra rappresenta proprio una delle divinità più antiche della civiltà vedica, simbolo di ferocia e distruzione, elementi che si traducono poi nella ferale proposta di questi misteriosi musicisti. E l'ingresso nel misticismo dei Drought si compie già attraverso la opening track, un lungo pezzo ambient che prelude alla efferatezza dissipata invece nella seconda "Fire Breathing (Urdva Kundali Arise)", in cui i nostri brandiscono le armi, le innalzano al cielo e attaccano con una rabbia inaudita attraverso una forma estrema di black metal caustico che chiama in causa in primis i Deathspell Omega, e si articola attraverso ritmiche contorte e assassine, killer vocals, in quello che loro stessi definiscono black tantrico. La truculenza dei nostri prosegue nelle serratissime ritmiche di "Reveal the Unlight (Sudden Awareness)" fino a giungere alla lunga e conclusiva "Collapse of Maya (Transfiguration of the Warrior)", che parte piano ma divampa ben presto alla velocità di un incendio che inghiottisce la boscaglia. Spaventosi, a tratti anche ieratici, soprattutto in quelle parti più d'atmosfera e glacialità che minano le fondamenta della spiritualità umana. Aberranti. (Francesco Scarci)

mercoledì 29 giugno 2016

Master's Hammer - Formulæ

#PER CHI AMA: Occult Black Sperimentale
Era il 1993 quando uscì 'The Jilemnice Occultist', un album che ebbe un forte impatto nella mia crescita di metallaro, grazie ad un sofisticato e progressivo sound black metal, fino ad allora senza precedenti. Sono passati 23 anni da quel lavoro e, dopo una serie di vicissitudini che hanno tenuto la band in standby per quasi tre lustri, i cechi Master's Hammer (MH) sono tornati a produrre dischi con una certa continuità. Ed ecco l'ultimo arrivato, 'Formulæ', una release contenente ben 15 nuovi psichedelici pezzi di black ipnotico ed occulto, chiaramente cantato in lingua madre, come da tradizione in casa MH. L'attacco, affidato a "Den Nicoty", ci consegna l'act di Praga in un buono stato di forma, con un pezzo non troppo lungo ma con una bella melodia di fondo, ancora in grado di riportarmi ai fasti di quel capolavoro che fu 'The Jilemnice Occultist'. È già con la seconda "Maso z Kosmu" che la proposta dei nostri viene contaminata pesantemente dall'elettronica, in un pezzo mid-tempo in cui affiorano più forti che mai gli sperimentalismi obliqui del terzetto ceco. Le caratteristiche di fondo della band sono comunque rimaste immutate nel corso di tutti questi anni: la voce inconfondibile di Franta Štorm cosi come le chitarre distorte e malate di Necrocock, mentre una lunga serie di elementi innovativi, ha trovato posto nella spina dorsale dei MH. Si parlava di sperimentalismi e 'Formulæ' ne è ben ricco: in "Votava" c'è l'utilizzo di un quello che credo che sia un trombone, mentre la successiva "Shy Gecko", oltre ad essere un pezzo assai tirato, offre un chorus molto ruffiano che mi lascia quasi del tutto disorientato. I Master's Hammer filano dritti che è un piacere con pezzi che si assestano tutti sui quattro minuti, contraddistinti da una carica di groove non indifferente e dall'utilizzo di una matrice elettronica davvero ispirata, talvolta addirittura un po' troppo spinta che per certi versi mi ha evocato il periodo più sperimentale dei Samael. Cosi, i synth, in stile elicottero, si affiancano alle vocals e all'impianto ritmico dei nostri in "Arachnid", in una traccia minacciosa e ossessiva. Una serie di break visionari spezzano l'irruenza di "Všem Jebne", mentre il riffing di "Biologické Hodiny" ha un che di spaziale nel suo incedere che la elegge quale mia song preferita dell'album. Nelle note di 'Formulæ' aspettatevi di trovare ben poco di convenzionale: "Phenakistoscope" è un brano etnico e tribale che sancisce il distacco quasi totale dei nostri dal black metal e apre la strada a nuove forme musicali assolutamente fuori dai normali schemi compositivi, cosi come accade nella frammentata "DMT" o nella delirante "Podburka", che ci conduce in altri territori inesplorati del mondo metallico. C'è anche modo di rievocare il passato con il riffing acuminato di "Jazyky", ma delle tastiere liquide e psicotiche, avranno il merito di deviarvi la mente verso la follia più totale. L'unico neo che potrei trovare al disco è relativo all'elevato numero di pezzi che lo costituiscono, forse avrei fatto a meno di almeno un paio di questi, certo non della southern western "Rurální Dobro" o dell'orientaleggiante finale affidato a "Aya", a confermare l'imprevedibile originalità di questo trio che da quasi 30 anni ci travia con le loro suggestive musiche aliene. (Francesco Scarci)

(Jihosound Records - 2016)
Voto: 80

https://www.facebook.com/MastersHammerOfficial

sabato 30 gennaio 2016

Opera IX - Back to Sepulcro

#PER CHI AMA: Occult Black
Sono passati più di vent'anni da quando vidi per la prima volta gli Opera IX dal vivo, in compagnia degli Evil, in un piccolo paese sperduto nella provincia di Verona. Da allora di cose ne sono cambiate parecchie in seno alla band, con una serie di avvicendamenti, il più clamoroso dei quali è stato quello di Cadaveria, che hanno portato ad avere oggi il solo Ossian come membro fondatore della band, con tutti i nuovi elementi che si sono uniti allo storico frontman nel 2014, tra cui la nuova e convincente vocalist Abigail Dianaria. Questo 'Back to Sepulcro' è una raccolta di vecchi brani ripresi e reinterpretati dalla nuova line-up, più un nuovo pezzo, "Consecration" che vuole dare un assaggio di quello che saranno i nostri nel futuro. Vorrei iniziare col mettere subito in guardia i fan di vecchia data della band che si può vivere tranquillamente anche senza quest'album, che rispolvera vari classici del passato, dotandoli di una nuova veste occulta. Inviterei piuttosto nuovi proseliti ad avvicinarsi agli Opera IX e assaporare la sacralità di "Sepulcro", un pezzo vecchio di 21 anni ('The Call of the Wood'), che mette in luce le eccelse qualità della nuova singer, che quasi quasi apprezzo più di Cadaveria, e di un sound che continuo a percepire anche a distanza di anni, come magico ed esoterico, e di riuscirmi ancora ad emozionare sulle note di quest'infinita traccia, guidata dalle magiloquenti tastiere di Alexandros. Fantastica e ispirata anche la più violenta "The Oak", estrapolata dalla seconda fatica della band piemontese, 'Sacro Culto'. La song mette ancora in evidenza un uso più importante delle keys e più in generale di arrangiamenti che enfatizzano e rendono più ampolloso il sound del quintetto. Con "Act I. The First Seal" ci si muove al terzo lavoro degli Opera IX, quello dell'apertura a un pubblico più vasto, 'The Black Opera': la versione 2.0 dei nostri conferma l'intenzione di Ossian e compagni di avvalersi di orchestrazioni assai bombastiche. "Maleventum", estratta dall'album omonimo, è qui graffiante come l'originale, però la voce di Abigail Dianaria le conferisce un surplus che me la fanno preferire di gran lunga alla song del 2002. Arriviamo alla nuova e etenebrosa "Consacration", che palesa delle orchestrazioni di chiara matrice Dimmu Borgir (ricordate "Progenies of the Great Apocalypse"?) anche se poi le ritmiche sono più essenziali e scarne, ma comunque di grande effetto. In definitiva 'Back to Sepulcro' è un bel biglietto da visita per gli Opera IX per assoldare nuovi adepti nella loro confraternita dedita ad esoterismo e alchimia. (Francesco Scarci)

giovedì 21 agosto 2014

Celestial Waters - Insentient

#PER CHI AMA: Black atmosferico, Blut Aus Nord
Posso vantarmi di essere uno dei cinquanta fortunati che può godere dell'etereo sound estremo in cd dei Celestial Waters (in digitale con dolby surround 5.1). La band di Rapid City (South Dakota) è un duo, in cui il buon JS suona tutti gli strumenti mentre JM ha il ruolo di vomitare tutta la sua rabbia nel microfono. 'Insentient' è un EP di 4 pezzi che si apre con "I", mid-tempo dall'incedere spettrale, incentrata principalmente sullo screaming acuminato di JM e su una ritmica sinistra in cui ronza un'aguzza chitarra, un basso tonante e una flebile tastiera, per un effetto finale dalle tinte assai lugubri. Le atmosfere si fanno ancor più nebbiose con "II", song maligna che potrebbe ispirarsi all'abissale musica dei Blut Aus Nord, con tutte le loro peculiari pieghe disturbanti, nevrotiche, sognanti e schizoidi, per un viaggio che porta direttamente nel profondo, toccando i giusti tasti dell'io psichico. I Celestial Waters hanno una spiccata personalità che emerge prepotente nel terzo brano, "III", una song che, seguendo i dettami dei migliori Darkspace, viene guidata dalle pulsazioni intergalattiche di un basso ipnotico, il vero motore che pilota il suono di questo imprevedibile act statunitense che riesce a offrire un cinematico break ambient prima che il sound torni a contorcersi su se stesso come se fosse affetto da epilessia. La conclusiva "IV" è una song che parte più rabbiosa, ma è solo apparenza: il tumultuo interiore dei Celestial Waters emerge anche in questo pezzo che torna a ricalcare gli insegnamenti di Vindsval e soci, grazie a un timbro cupo in cui ad esaltarsi sono le mortifere atmosfere sulfuree. Peccato solo che 'Insentient' sia un EP di quattro pezzi, avrei desiderato godere ancora delle psichedeliche prodezze sonore del duo JM e JS, splendida sorpresa di questa inquietante estate glaciale, proprio come il sound di questa new sensation. (Francesco Scarci)

(Exalted Woe Records - 2014)
Voto: 80

https://www.facebook.com/celestialwaters0

Heretical - Daemonarchrist – Daemon Est Devs Inversvs

#PER CHI AMA: Black/Death, Morbid Angel, Necromass
Ero scettico, lo ammetto: quando ho inserito 'Daemonarchrist' nel lettore cd e ho sentito superficialmente il primo brano, mi aspettavo di trovarmi di fronte una sorta di clone dei Cradle of Filth. Mi sono sbagliato e anche di grosso. Ascoltando con maggiore attenzione "Averno Resurrecturis", non si possono non notare le ritmiche che strizzano l'occhiolino al death metal, pur sfrecciando indemoniate all'interno di un contesto puramente black. Quello che mi sorprende è che la band esista addirittura dal 1996 (1993 se consideriamo la loro forma primordiale col nome di Immolator), questo a testimonianza del fatto che, nonostante i 3 Lp pubblicati (più uno ancora nel cassetto), gli Heretical non siano dei pivellini di primo pelo e che magari non siano stati proprio i CoF a prendere spunto dai nostri ragazzi siciliani? A parte le mie personali congetture, la band di Caltanissetta, fresca di contratto con la Beyond Productions, rilascia questo dinamitardo concentrato di black iper tirato dall'incedere a tratti orchestrale. Della prima traccia abbiamo già detto in breve, mi lascio pertanto travolgere dalla furia celestiale di "Der Monarchristus", song che sgorga gemme di odio in ogni suo riff, anche dai suoi affilati assoli, che sembrano presi in prestito da un mostruoso duo costituito da Deicide e Morbid Angel. Ecco che i binari della morte e della fiamma nera si incrociano nuovamente, mentre nella liturgica e sinfonica "I Bleed Black", i nostri ci offrono del black sinfonico suonato in una vena death, tradita solamente dalla magniloquenza delle sue tastiere. Le maligne screaming vocals di Nefarius (a tratti in stile Dani) acuiscono la valenza black di questo cd, mentre da sottolineare la mostruosa prova di Arymon (Brisen, Schizo e ex Sinoath) dietro la batteria e di Orias alle keys, apprezzabile soprattutto nella tenebrosa cover dei Limbo, "Devastate e Liberate (Libro Primo)", che ci concede giusto tre minuti di visionarie atmosfere oscure, prima della deflagrazione di "The Gift, Lemegeton". I nostri tornano a pigiare sull'acceleratore come degli assatanati, regalandoci altre violente ritmiche estreme, sulla falsariga di quanto prodotto dai Maldoror di 'Ars Magika' o dagli esordi dei Necromass. La band mostra le sue qualità anche quando i tempi non sono necessariamente forsennati, costruendo grazie a Azmeroth (sia basso che chitarra), delle ritmiche assai articolate. In "Lvzifer Démasqvé" gli Heretical hanno modo di impreziosire ulteriormente il loro sound con un inserto di violino che dona una dose di magia all'album, che nei suoi tre episodi conclusivi, ha ancora modo di offrirci ottimi spunti. "Res Satanæ Creata" è un pezzo esoteric-ambient, "Cvm Clave Diaboli" furia cieca e la conclusiva "Demonmetal" ci garantisce gli ultimi attimi di death/black, con tanto di chorus thrashettoni. Il disco si chiude con un outro in cui ricompare il violino, strumento caldo e sensuale che termina degnamente un lavoro che trova il modo di sorprenderci (io avrei evitato) con una serie di tracce fantasma, fino alla 66 in cui la band si diletta in inutili suoni dal sapore noise. Ci saranno anche voluti 13 anni dal precedente album, ma ne è valsa fondamentalmente la pena. (Francesco Scarci)

(Beyond Productions - 2014)
Voto: 80

Cult of Vampyrism – Aporia

#PER CHI AMA: Doom esoterico, Shape of Despair, Christian Death, Pazuzu
Uscito nel 2013 per la Mercy Despise Records, il nuovo lavoro del combo italico Cult of Vampyrism racchiude immagini molto suggestive, tinte di romanticismo gotico decadente di ottima fattura. L'opera, suonata interamente dal leader Trismegisto, è uno scrigno dorato di atmosfere cupe, gelide e cristalline devote al verbo del doom esoterico e magistralmente virate a una forma di dark wave che in Italia, per fortuna, continua a produrre musica unica di alto spessore. 'Aporia' è lanciato in orbita dalla presenza vocale di Morgenstern, una dea luciferina che incarna le doti migliori della scena dark rock, ricordando il mito di Gitane Demone intrecciato alla grazia di Elena Alice Fossi dei Kirlian Camera (vedi l'esperimento di fine album "Something Special for You" che sfiora sonorità ambient dark wave tanto care ai KC) e, se permettete il paragone, alla libertà canora che si era vista solo nei migliori Disciplinatha (cult band per eccellenza!) - che come in questo caso alterna voce maschile (Trimegisto) e femminile (Morgenstern), lingua inglese e italiana (a volte anche il latino...), recitato e canto in un verbo tanto teatrale che fa risultare il tutto veramente bello e fuori dal tempo. L'album porta al suo interno il seme mistico di band come gli Esoteric, in qualche caso ricorda gli Atrocity più sinfonici, i Lacrimosa e il gothic sound dei Christian Death più eterei, che non rinuncia a brevi ma efficaci virate vintage nella concezione prog di band come gli Hammers of Misfortune e che mantiene costante i contatti con il suono dell'infinito di matrice funeral doom di casa Shape of Despair. In questo contesto, il secondo lavoro dei Cult of Vampyrism rende l'idea di come si possa creare musica intelligente anche in Italia, con un volto marcatamente underground e dal respiro internazionale. Un suono unidirezionale composto da tante influenze, fatto per creare atmosfere buie piene di romanticismo, dall'umore decadente ma costruttivo e molto vitale nelle sue composizioni, elaborate come fossero una performance teatrale (di vaga memoria Pazuzu), intenso e ragionato dove la tecnica è a supporto del risultato da ottenere e nulla è lasciato alla schiavitù del virtuosismo. Dalle lande più oscure dell'anima, una calda iniezione di vitalità inaspettata. Ottimo album da valutare attentamente in un panorama italico eternamente vuoto, statico e omologato. Da ascoltare senza limiti! (Bob Stoner)

(Mercy Despise Records - 2013)
Voto: 80

domenica 5 gennaio 2014

The Ruins of Beverast - Blood Vault - The Blazing Gospel of Heinrich Kramer

#FOR FANS OF: Occult Black/Death Symph.
Only in regards to a band of monumental calibre like The Ruins of Beverast could I call its latest album arguably the weakest of the four so far, and simultaneously laud it as one of the year’s strongest musical contenders. The Ruins of Beverast have long been black metal’s best kept secret, and since the gloriously psychotic 'Unlock the Shrine', the one-man act- a longtime creative outlet of former Nagelfar drummer Alexander von Meilenwald- he’s been releasing music that’s consistently blown me away for its ambitious scope and atmosphere. Of the three albums The Ruins of Beverast have already released, I have, upon different occasions, thought of each one as potentially being the greatest black metal album ever made. I’ll try to keep background introductions brief, but if you haven’t yet heard 'Unlock the Shrine', 'Rain Upon the Impure', or 'Foulest Semen of a Sheltered Elite', you have yet to hear some of the most impressive and atmospheric metal ever pressed to vinyl. Now completing a transition towards doom metal that began with the last album, 'Blood Vaults' is another expectedly excellent achievement, an hour-plus of music that’s as haunting and crushing as anything I’ve heard in the metal sphere this year. Incredibly high expectations aside, The Ruins of Beverast have delivered another masterpiece of atmosphere and intensity, with enough stylistic innovation to distinguish it from past work. This is blackened doom metal of ferocious quality. The sound of The Ruins of Beverast has evolved beautifully over the course of four albums. Although Von Meilenwald was performing something more along the lines of psychotic black metal in 2004 with 'Unlock the Shrine', each album has reinvented the project as something new. 'Rain Upon the Impure' took the black metal to arrogant extremes of atmosphere and composition, verging on a degree of ambition rivalled by Western classical tradition. 2009’s 'Foulest Semen of a Sheltered Elite' was another necessary reinvention; now that one summit had been topped, Von Meilenwald began infusing his brand of black metal with doom metal and psychedelia. To summarize, it shouldn’t be surprising to anyone that The Ruins of Beverast have drifted this far away from black metal conventions; even if TROB retains the same malefic atmosphere in the music, the means to getting there have certainly changed. The Ruins of Beverast’s familiar blend of choral sampling, chaotic production and cinematic vigour are made anew with a crushing heaviness and funereal pacing. Disregarding the fury and aggression inherent in the music’s execution, Von Meilenwald has taken a relatively reserved approach in writing the music this time around. Especially when compared to the sporadic rapture of 'Rain Upon the Impure', the pacing is kept fairly conservative, offering more vested concentration and fewer surprise turns. Although part of me misses the pleasantly mild shock of hearing something unpredictable, the songwriting enjoys a new maturity through its focus. A stunning example of this can be found in the pristine “Malefica”, a dirge-like piece that meticulously erupts with equal parts dread and melancholy. Latin choirs and pipe organ are used brilliantly as a sonic contrast with the thundering metal instrumentation. Orthodox instrumentation is a painfully common trope in black metal, but it’s rare that it ever functions so well as this. In addition to “Malefica”, “Daemon”, “A Failed Exorcism”, and the unsettling interlude “Trial” all stand out as highlights of the album, and some of the most memorable pieces Von Meilenwald has ever composed. Unfortunately (and this is a first for my experience with a TROB album) I don’t find myself as consistently amazed by each of the tracks. I’m not immune to the fact that a doomier approach entails with it a slower pace and behests a different kind of listening attitude than that of Beverast albums past, but a few of the ideas on 'Blood Vaults' feel less profound and engaging than I’d expect from the band. For instance, “Spires, the Wailing City” and “Monument” are both crafted with excellent ingredients, but feel somewhat overdrawn past their due; the ideas themselves are almost homogeneously superb, but even the strongest structures wither given time. While Von Meilenwald is no stranger to long compositions- 'Rain Upon the Impure' had even longer average track times than this- the sometimes plodding pace of the compositions can make some of the musical ideas feel less awe-inspiring than they actually are. I felt that Von Meilenwald struck a sublime balance between black metal and doom with the last album, a middle ground between crushing heaviness and exciting dynamics. Blood Vaults only sees The Ruins of Beverast tread deeper into doom territory, and while the devastating atmosphere and progressive scope are still here in full, I don’t find myself quite as blown away by this stylistic shift as I have been with his past work. Then again, comparing a pristine mortal vintage to the ambrosia of the gods has never been a fair deal, has it? Although 'Blood Vaults' represents a markedly more reserved take on composition for Von Meilenwald, his execution sounds heavier than ever. I strain myself to think of another guitar tone that has sounded this heavy and crushing. Even though most one-man acts feel fittingly one-sided in their delivery, 'Blood Vaults' feels remarkably well-rounded. The orthodox instrumentation is integrated to a haunting effect, and the drums- Von Meilenwald’s flagship instrument- are as intensely performed as ever. As it is made clear from the opening incantation “Apologia”, Von Meilenwald’s vocals take a hideous life of their own. Laden with echoes and a viciously malevolent tone, his growls are plenty evocative and fit the album’s sinister atmosphere and malefic interpretation of Christian theology. His clean vocals- when used- are deep and ominous, and mirror the Latin choirs nicely. Compared to past albums however, it feels like his vocal delivery offers a little less range however, focusing on the low, echoed growls and dismissing much of his higher shrieks. It’s an understandable transformation however; Von Meilenwald understands the implications of this stylistic shift, and The Ruins of Beverast reflects that. As difficult as it is for me, I feel the only fair way to approach this album is to do one’s best to dissociate it from TROB albums past. Clearly, it’s much harder said than done, but to compare 'Blood Vaults' against its predecessors would reveal this as the least vital of the four. With that in mind, I do not mean or hope to say that The Ruins of Beverast has broken its streak of relative perfection; this is a marvelous work, and I have no doubt that Von Meilenwald will continue to release masterful work in his own time. To put it simply, the album is devastating. (Conor Fynes)

sabato 26 ottobre 2013

Nightbringer/Dødsengel - Circumambulations of the Solar Inferno

#PER CHI AMA: Black, Deathspell Omega, Blut Aus Nord
Un altro split cd, questa volta rilasciato dalla interessantissima etichetta Daemon Worship Productions (date pure un occhio al loro malvagio catalogo) in cui a confrontarsi sono i norvegesi Dødsengel, balzati alle cronache lo scorso anno con la release dell'introvabile “Imperator” la cui recensione potete trovare su questa stesse pagine e gli americani Nightbringer. Quattro tracce di oscuro ed enigmatico black metal, che vede aprire i battenti con la band del Colorado. “Watchtower of the West: Gate of the Mighty Dead“ ci presenta la band statunitense, che si è fatta notare nel 2011 con il lavoro “Hierophany of the Open Grave”, fuori per Season of Mist. In queste due tracce il quintetto dà prova di un granitico e sghembo black metal. Inizio affidato a delle litanie liturgiche, quasi ambient, in cui l'unica cosa che percepisco è un'insana malvagità. Poi ecco esplodere nelle mie casse il fragore malsano e distorto del sound dei nostri. Blut Aus Nord e Deathspell Omega i principali punti di riferimento per un black ortodosso ricco di atmosfere pregne di magia nera. Da brividi i rallentamenti assai vicini al doom, da incubo le screaming vocals che si ergono sul tappeto lento e occulto. Con “Watchtower of the North: Ascension of the Midnight Sun“, una gelida folata arriva dal nord con inno black di suprema bellezza. Dentro di me si materializzano le più infauste paure, insicurezze che gravitano e popolano la mia mente che tortuosamente viene inglobata e divorata dai suoni spettrali dei Nightbringer. Spaventosamente affascinanti. È il turno dei norvegesi, da cui è lecito aspettarsi molto. “Watchtower of the East: Horus Sunflesh“ apre come un'altra invocazione carica di delittuosa malvagità, una tempesta sonora che spazza via quanto era rimasto nelle nostre menti. Le melodie delle chitarre sono quelle di sempre, gelide ma in questo caso non cosi intense come in “Imperator”. La conclusiva “Watchtower of the South: Drunk Upon Inmost Fire” è una montagna insormontabile da 12 minuti che ci conduce finalmente all'ultimo cancello (il concept del cd ruota intorno ad un viaggio che dalla morte, attraverso il mondo sommerso si arriva all'ascensione ed infine alla rinascita). La furia black si mutua con ritmiche doom, in cui a ergersi è un'aspra voce spiritata; a fare capolino e rendere la proposta più lugubre ci pensano cupi momenti di desolante atmosfera. Non mi hanno impressionato granché in quest'occasione i Dødsengel, decisamente più all'altezza i Nightbringer, per un disco che comunque merita assolutamente il vostro ascolto. Sinistri! (Francesco Scarci)

mercoledì 23 gennaio 2013

Kalki Avatara - Mantra for the End of Times

#PER CHI AMA: Sonorità esoteriche
Chiudete gli occhi e meditate. Concentratevi sullo scorrere del tempo visualizzandolo come note sul pentagramma. Ascoltatele o meglio abbandonatevi al loro lascivo abbraccio. Sentitevi avvinghiare dalla loro densa, impudica nebbia. Vi avvolge. Vi stringe. Vi penetra. Vi possiede. Aggrappatevi a questa fonte di inesauribile piacere e fatelo vostro. Viaggiate. Viaggiate molto, molto lontano. Tanto, tanto tempo fa. Indietro. Indietro. Indietro nel tempo. Sarò la vostra mefistofelica guida in un’epoca più che remota, prima della comparsa del vecchio saggio Vyāsa. Un’epoca dove le persone comuni ancora ricordano i Veda a memoria, al primo ascolto, afferrandone nell’immediato le profonde implicazioni. Nell'epoca del Kali Yuga (l'era attuale) durata della vita e memoria si sono assopite, vengono meno, gli individui sono spiritualmente meno acuti. Ecco che allora Vyāsa discese nel mondo, mise i Veda in forma scritta, li divise in quattro parti e compose tutti i 18 Purana, uno in particolare: il Bhagavata Purana. 25 sono i maha avatara che lo compongono. Kalki è sempre l'ultimo di questi in ordine cronologico: la tradizione lo descrive nelle sembianze di un valoroso condottiero dalla fiammeggiante spada in pugno, a cavallo di un bianco destriero. Sradicherà il male dal mondo, si dice. Rinnoverà la Creazione stabilendo un regno dei giusti, si narra. I lettori più accorti avranno certo colto questo mio tentativo d’iniziazione ai magici misteri dell’induismo. Religione poco nota, da noi, se vogliamo, e proprio per questo molto affascinante. Ma questo è solo un mio personale punto di vista, non condivisibile se vi pare. Fatto sta che queste rocce millenarie rappresentano il fulcrum, vero e proprio concept di questo EP “Mantra for the End of Times” rilasciato in sole mille copie da Kalki Avatara: tricolore progetto solista autoprodotto da Paolo Pieri "Hell-I0-Kabbalus" nel 2008 (già attivo in band quali Aborym e Malfeitor, per chi non lo conoscesse) e rilasciato poi dall’etichetta canadese Shaytan Productions nel 2009 in sole mille copie. Ma procediamo con ordine nell’eviscerare questa tetraedrica liturgia dai sapori orientali decisamente evocativa. Mi calo in una sorta di sopor aeternus cullato come un fanciullo dai primi atmosferici suoni di “Mankind Collapses”. Poche, ma ben concepite note di tastiera s’amalgamano armoniosamente ad un ritmo molto lento di batteria. Molte, e lunghe, le pause. S’intersecano a quest’arcano disegno, voci corali che mi accendono circuiti neurali del tutto inesplorati. Le scintille si fanno poco a poco fiamma che prima tentenna al vento per poi sfociare in fuoco con l’avvento della voce. Uno screaming cavernoso, da rigurgito (senza offese, è un complimento) ben dosato, senza eccessi dunque, che si contrappone alle pulite, alte voci corali. Segue un intermezzo strumentale costruito su una magnifica fuga di tastiera, coadiuvata dalla batteria, che qui si concede una breve galoppata. Il pezzo torna a rallentare e viene reintrodotto il tema principale che conduce alla fine del pezzo. Campane tubulari, percussioni e non ben definiti strumenti etnici introducono “Ruins of Kali-Yuga”. L’introduzione sfocia però poi in un tema che ricorda tutti i sapori della precedente traccia. Unica novità, a mio avviso, è la presenza di un intermezzo jazz che prende il posto di quello che prima era il posto della fuga di tastiera. Segue “Purification”: la sorpresa qui sta nel fatto che è cantata in tedesco, una lingua dura che sposa molti, anche se non tutti (power e progressive ad esempio), i generi di metallo. Caratteristica degna di nota di questo pezzo è, per me, la tastiera. Qui ricorda un carillon e mette brio alla composizione melodica di base. La fine dei tempi viene scandita dall’ultima delle quattro track, l’outro “Awaiting the Golden Age”: ancora una volta odo i cori ma qui diventano salmodici, oserei dire omelici. Sono accompagnati da quello che azzarderei essere un sitar. L’urlo finale mi catapulta senza preavviso al presente: fatto di tasse, crisi ed imminenti elezioni. Non c’era quindi titolo più azzeccato di questo per fare ironia: bisognerà purtroppo aspettare davvero molto per entrare nell’età dell’oro, anche se le pepite che da sempre preferisco sono quelle di metallo pesante. (Rudi Remelli)

(Shaytan Productions)
Voto: 80

http://www.shaytanproductions.com/