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sabato 27 gennaio 2018

Bereft of Light - Hoinar

#PER CHI AMA: Black Doom, Wolves in the Throne Room
Quello delle one-man-band è un fenomeno assai diffuso sbarcato ora anche in Romania. Ad esserne affetto è questa volta, Daniel Neagoe, mastermind dei Bereft of Light, interessante progetto black/death doom, prodotto dalla Loud Rage Music. Forte della sua esperienza in band quali Shape of Despair e Pantheis, giusto intanto a metter li due nomi forti del panorama funeral mondiale, il bravo artista rumeno si lancia con 'Hoinar', in una commistione di afflitte sonorità decadenti unite all'asprezza del black metal a stelle e strisce di stampo cascadiano. "Uitare" è una lunga intro strumentale dal forte sapore nostalgico, una di quelle melodie da gustare alla finestra mentre una piovosa giornata di novembre volge al termine. La pioggia battente prosegue anche nella lunghissima "Legamant", quasi tredici minuti di asperità black, spettacolari parti acustiche, cavalcate roboanti in stile Wolves in the Throne Room, rallentamenti doom, disperate harsh vocals e soprattutto splendide fughe melodiche che si manifestando sovrane nella seconda disarmante metà del brano, in un crescendo emozionale da brividi. Con "Pustiu" ci prendiamo una più lunga pausa strumentale all'insegna dell'ambient, guidato da una struggente chitarra acustica e da intimistiche melodie da brividi. "Freamăt" e la conclusiva "Târziu", ci riportano alle sonorità assai care al buon Daniel, sempre in bilico tra un death doom atmosferico ed un più ferale cascadian black. Nella prima però, la novità risiede nella proposizione di epiche vocals pulite (in stile vecchi In the Woods o Primordial) che fanno da contraltare allo screaming feroce del polistrumentista rumeno, ottenendo cosi un effetto a dir poco esaltante. I frammenti di chitarra acustica nella seconda metà del brano che accompagnano poi il cantato evocativo di Daniel, sembrano indurre volutamente uno stato distensivo nella proposta del talentuoso musicista, che vanta tra le sue collaborazioni, anche Eye of Solitude, Ennui e God Eat God (ma il numero di band in cui Mr. Neagoe milita è ben maggiore). Chiudiamo con "Târziu", forse la song più lenta e sofferente del lotto, che esibisce uno splendido (l'ennesimo) break acustico centrale, dai cui drappeggi, s'innalzano le tormentate voci di Daniel che decretano l'eccezionalità di questo album da applausi. (Francesco Scarci)

(Loud Rage Music - 2017)
Voto: 85

venerdì 26 gennaio 2018

Kassad - Faces Turn Away

#PER CHI AMA: Black, Windir
I Kassad sono una one-man-band dedita ad un black metal abrasivo e sinistro. Fuori per la canadese Hypnotic Dirge Records, ma proveniente da Londra, l'artista che sta dietro ai Kassad mi ha impressionato non poco per la glacialità mista a melodia, della sua proposta, il cui risultato si riflette nelle sette tracce di questo 'Faces Turn Away'. Si parte fortissimo con il sound tormentato e spinoso di "Shame", selvaggio come pochi nella prima parte (e nell'ultima, con la riproposizione del refrain iniziale), notturna, raffinata ed oscura nell'estesa componente acustica della sua parte centrale, che traccia le coordinate stilistiche, all'insegna di un'ostentata ricerca di originalità da parte del mastermind inglese. La furia belluina continua nelle arcigne distorsioni sia ritmiche che vocali di "Pariah", una cavalcata epica, fredda, spettrale, stracolma però di un pathos avvincente e trascinante. Un'altra chitarra acustica ed è tempo di "Void", splendida nella sua evoluzione malinconica, a tratti tribale, sempre assai melodica, e con quella sua minimalista componente vocale narrativa posta su di un tappeto di riffs in tremolo picking. Tre soli minuti a disposizione di "Madness" per mostrare ancora l'epica ferocia, in stile Windir, di cui è dotato il misterioso musicista della city londinese. E poi ancora un turbillon di chitarre acuminate, il cui suono potrebbe essere paragonabile a tanti piccoli frammenti di vetro conficcati nella carne e alle grida di dolore che ne deriverebbero a toglierli. Il suono di un temporale, dei synth e siamo approdati a "Broken", dove la voce acida del frontman domina su di una ritmica pacata, atmosferica, pronta ad infuocare l'aria, che pare saturarsi di gas pronta ad esplodere; invece rimane bloccata in un magnetico incedere che ci accompagna senza paura ad affrontare la tenebrosa title track. Inquieta ed ansiogena, per quel suo immobilismo musicale intrappolato in un flusso nebuloso di suoni e harsh vocals. Ecco l'enigmatica "Face Turn Away" che idealmente chiude un album che ha ancora nell'ultima "Pulse", oltre nove minuti di suoni ambient che potrebbero rappresentare l'ideale colonna sonora per un film che francamente adoro, "K-pax" restituendo finalmente un po' di pace interiore dopo un assalto sonoro perpetrato per 45 minuti. (Francesco Scarci)

giovedì 25 gennaio 2018

Samadhi Sitaram - KaliYuga Babalon

#PER CHI AMA: Death/Math/Djent, Dillinger Escape Plan, Meshuggah
I Samadhi Sitaram sono un terzetto proveniente da Mosca, approdati da poco alla corte della Sliptrick Records. L'intro di questo 'KaliYuga Babalon' è piuttosto fuorviante, complice una forte influenza della musica classica nel suo incedere, che mi porterebbe a pensare ad una proposta all'insegna di un melodeath di stampo svedese. La mattonata invece che mi arriva con "Kali-Yuga" mi pesa invece sulla faccia come un gancio tirato sulle ganasce dal buon Mike Tyson. L'attacco è isterico con le ritmiche che si muovono tra mathcore, djent e death, un po' come se sparaste alla velocita dei Dillinger Escape Plan, i Meshuggah. Chiaro il concetto? Se cosi non fosse, pensate che il finale infernale della song potrebbe ricordare il caos sovrano che regna in "Raining Blood", pezzo conclusivo del mitico 'Reign in Blood' degli Slayer. Passo oltre, smaciullato dalla potenza sonora di questi pirati del metallo: "The Death of a Stone" ha il riffone portante che chiama palesemente i Meshuggah, ma la porzione electro-cibernetica che popola il brano, permette al trio russo di prendere le distanze dai gods svedesi. Le convincenti growling vocals di IOFavn mi hanno ricordato invece lo stile del vocalist dei nostrani Alligator. Nel frattempo il cd non ha tempo da perdere e si lancia con "Apotheosis" in un'altra fuga roboante di ritmiche martellanti, sparate alla velocità della luce tra paurosi stop'n go e improvvise accelerazioni death. Interessante sottolineare il concept lirico che si cela dietro a 'KaliYuga Babalon', che tratta uno dei testi sacri della tradizione induista, ossia il dodicesimo canto del Śrīmad Bhāgavatam che anticipa l'avvento dell'età del Kali yuga e la futura distruzione dell'universo materiale da parte di Kalki, un discendente del dio Visnù, a causa del decadimento morale e spirituale in cui è sprofondata l'era attuale. Insomma, un messaggio alquanto tranquillizzante, eufemisticamente parlando. Detto questo, la devastazione prosegue anche con l'ipnotico preludio a "...Qliphoth", una song che tra melodie della tradizione indiana, riffoni dotati di uno spettacolare groove, la identificano come una delle mie preferite (insieme alla conclusiva, ancor più completa e "meshugghiana", "SHANGRI LA") nel lotto delle tracce qui incluse. Dopo parecchi pezzi di durata "normale" (tra i 3 e i 4 minuti), ecco un mostro di oltre 16 minuti ("Orgy - Ritual BABALON") che affida a delle sparatorie e ad urla disumane, i suoi primi due minuti. Poi, nelle sue note c'è un po' di tutto: deathcore, progressive, arrangiamenti da urlo, suoni cinematici, e un'infinita porzione di spoken words in russo che probabilmente si dilunga un po' troppo per i miei gusti. Un buon lavoro di certo, penalizzato però dall'inconcludente lungaggine di "Orgy - Ritual BABALON". (Francesco Scarci)

(Sliptrick Records - 2017)
Voto: 70

https://www.facebook.com/samadhisitaram/

One Last Shot - Even Cowboys Have Sundays

#PER CHI AMA: Southern/Alternative Rock, Motorhead
Circa un paio di anni fa scrivevo su queste pagine circa l'esordio dei One Last Shot, l'EP 'First Gear'. Possiamo dire che la band ha mantenuto la promessa di continuare il loro percorso e oggi abbiamo per le mani il nuovo full-length 'Even Cowboys Have Sundays'. La versione per il mercato si presenta in un digipack a due ante con booklet da otto pagine, mentre per gli addetti ai lavori la versione è più semplice, ma mantiene lo stesso artwork caratterizzato da una bella moto custom in copertina e una foto che ritrae la band in un momento goliardico di relax come retro. Il quintetto parigino presenta un sound in bilico tra southern e alternative rock contaminato da thrash e punk, un mix energico e di grande impatto che cattura l'ascoltatore dopo pochi riff con "The Gambler", la prima traccia del cd. L'intro strizza l'occhio a "Paradise City" dei G'N'R, ma le somiglianze si fermano qui e il brano prende forma e sostanza con power cord ed accelerazioni incalzanti. Il vocalist entra subito di petto e aggiunge pathos ad un brano che scorre bene, grazie anche alla sezione ritmica che non si risparmia, tuttavia un brano semplice e che sai già dove ti porterà dalle prime battute. "Hell Mariachi" cambia le carte in tavola e mescola sonorità e ritmiche dell'America centrale, del Messico appunto. I fraseggi di chitarra classica che accompagnano le strofe in spagnole ci scaraventano immediatamente in un bar dove ben presto gli animi si scalderanno per colpa della Tequila e dove cominceranno a volare bicchieri e ceffoni alla Bud Spencer e Terence Hill. Una canzone che allenta la tensione dell'album e mette in luce l'animo goliardico ma professionale del quintetto parigino. Dopo questo break, la band torna alle sue sonorità e sciorina "Live Fast And Die Young", un brano molto veloce, praticamente i Motorhead con suoni un po' più moderni, uniti a cori e progressioni a dismisura. Si chiude con un rallentamento per riprendere il tema iniziale prima di lasciare lo spazio al classico assolo di chitarra. Altri brani si avvicendano proponendo uno schema ripetitivo che porta l'ascoltatore a distrarsi, rischiando di perdersi una chicca come "We Don't Call 911". Dopo l'inizio lieve con arpeggi di chitarra, s'inserisce la sezione ritmica e il brano si gonfia contestualmente all'entrata della distorsione, per regalarci una traccia ad alto numero di bpm che pompa fiotti di adrenalina . "Thou Shall Be Drunk" cerca di essere una ballad romantica e malinconica, ma dopo poche battute, l'energia travolgente della band si fa strada e regala un'altra song ben fatta e piena di groove, come tutto questo 'Even Cowboys Have Sundays', del resto. Decisamente un album ben fatto che farà contenti tutti gli amanti del genere, da abbinare ad una bella birra ghiacciata mentre si lucida la moto, in attesa della bella stagione! (Michele Montanari)

martedì 23 gennaio 2018

Kval - S/t

#PER CHI AMA: Black Old School, Burzum
I Kval sono una nuova one man band finlandese, anzi no: il mastermind che sta dietro a tale monicker infatti, non è altro che colui che fino al 2015 guidava i Khaossos e questo album omonimo è, a dire il vero, la riproposizione di quel 'Kuolonkuu' che su queste stesse pagine abbiamo recensito, con la durata delle song leggermente più elevata. Difficile pertanto aggiungere qualche informazione addizionale ad un disco che, se fosse uscito nei primi anni '90, avrebbe dato filo da torcere a Burzum e compagnia bella, grazie, e riprendo le parole di quella recensione, ad una spettrale overture, e a brani successivi che si affidano ad un incedere ossessivo, tagliente e minimalista. Penso a "Sokeus", una traccia, che nei suoi oltre dieci minuti, mai accenna ad una accelerazione o ad una sfuriata che ne modifichi la sua desolante dinamica esistenziale. Un lavoro spoglio e tormentato che ha modo di mostrare dei tratti folklorici (ad esempio in "Harhainen") ma anche forti accenni di un disperato suicidal black (ascoltate "Kuolonkuu") che lo renderanno ai più un album ostico a cui avvicinarsi. Io, a distanza di quasi tre anni, mi confermo coerente con il voto che diedi alla primordiale forma di questo album dei Kval. Sofferenza allo stato puro. (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records - 2017)
Voto: 70

https://hypnoticdirgerecords.bandcamp.com/album/kval

domenica 21 gennaio 2018

Omega - Eve

#PER CHI AMA: Black Siderale, Darkspace
Ci hanno impegato quasi cinque anni gli Omega a far uscire la loro prima fatica, tuttavia mi domando che bisogno ci fosse che tre dei quattro membri dei Deadly Carnage rilasciassero questo lavoro sotto mentite spoglie? Non poteva essere un nuovo lavoro dei Deadly Carnage stessi o forse gli Omega nascono in realtà come un progetto di Mike Crinella degli Ashes of Chaos? Mah, troppo mistero avvolge questa band e il concept del disco che trae ispirazione dal codice illustrato Voynich, scritto con un sistema alfabetico/linguistico ad oggi non ancora decifrato e le cui immagini incluse (piante per lo più) non sono ascrivibili ad alcun vegetale attualmente noto. Creato questo alone di mistero e suggestione (anche a livello grafico sia nella cover che nel booklet interno), ci mettiamo all'ascolto delle quattro infinite tracce che compongono 'Eve'. Da "Arboreis" a "Laudanum", il black proposto dagli Omega si pone con un sound estremo, dilatato e siderale, che nella sua progressione, avrà modo di lasciarsi contaminare anche da doom, ambient e death metal. Se devo dare qualche punto di riferimento da accostare ai nostri, direi in prima battuta gli svizzeri Darkspace, soprattutto per l'utilizzo di quelle atmosfere rarefatte e le screaming vocals effettate in background. Tuttavia il riffing, talvolta troppo ridondante, è palesemente di matrice death e questo potrebbe fuorviare l'idea che vi state facendo del disco. "Sidera" soffia come il vento glaciale dell'Artico, anzi la vedrei bene come colonna sonora per la serie TV 'Fortitude', ambientata nelle fredde e oscure terre delle isole Svalbard, e quell'aurea di mistero che avvolge la song, bene si adatterebbe al tema lugubre della fortunata serie TV inglese, complice anche una produzione non proprio cristallina. Il disco però soffre e si avverte forte quel senso d'inquietudine che trasmette e la voglia di andare oltre alla terza "Mater". Quello che avverto in apertura qui è una certa sensazione di ultraterreno, accentuata dal suono delle campane, dal battito del cuore e dal respiro affannoso di una donna improvvisamente interrotto. Il sound prosegue in maniera ancor più funerea, con un break centrale creato da delle campane che sembrano suonare a lutto. Quest'interruzione funeral gioca sicuramente a favore della traccia, rendendola più varia, atmosferica e pertanto più fruibile all'ascolto rispetto alle prime due, soprattutto perchè il brano procede successivamente con un approccio più melodico e dinamico che rende meno stancante l'ascolto di un lavoro che sottolineo essere estremamente ostico. Soprattutto quando ad aspettarmi ci sono ancora gli oltre 16 minuti di "Laudanum" e le terribili grida che aprono la traccia in un'atmosfera da film horror. La song in realtà divampa in un assalto black/death apocalittico, con le solite ritmiche spigolose, i break doom e le urla aliene che caratterizzano in generale 'Eve'. Insomma un disco complesso, arcigno, complicato, un lavoro non per tutti ma solo per pochi adepti devoti. (Francesco Scarci)

(Dusktone Records - 2017)
Voto: 70

https://dusktone.bandcamp.com/album/eve

Monolithe - Nebula Septem

#PER CHI AMA: Death Doom Psichedelico, primi My Dying Bride, Samael
Abbastanza peculiare, ma c'era da aspettarselo, la scelta dei francesci Monolithe di affidare al numero sette, la conduzione del loro nuovo capitolo, 'Nebula Septem': settimo album, sette canzoni della durata spaccata di sette minuti l'una, e le prime sette lettere dell'alfabeto come iniziali dei titoli dei brani contenuti. Sette d'altro canto è un numero speciale, che ha una valenza particolare tra gli altri, anche nelle religioni: sette infatti sono le virtù ma pure i peccati capitali. Sono sette le divinità mitologiche identificate dalla Cabala ebraica, mentre secondo il Corano sette sono i cieli creati da Dio, sette le terre, sette i mari, sette gli abissi dell'inferno e sette le sue porte. Vi garantisco che potrei proseguire all'infinito. E allora concentriamoci su questo lavoro dedito ad un death doom moderno che ha ormai dimenticato i (ne)fasti funeral degli esordi. Il sestetto parigino (peccato non abbiano assoldato un settimo membro almeno per questo disco) attacca con "Anechoic Aberration", song plumbea che continuerà a piacere anche ai più estremisti fan della band, quelli rimasti ancorati al funeral degli esordi. La scorza dei nostri rimane infatti bella spessa, edulcorata se cosi si può dire, da psichedeliche linee di tastiera e da chitarre più ariose che in passato, con le convincenti growling vocals del provvisorio Sébastien Pierre, minacciose e feroci quanto basta. "Burst in the Event Horizon" si mostra ancor più persuasiva dell'opening track, di sicuro suona più pomposa a livello di arrangiamenti, evocando per certi versi il fantasma dei My Dying Bride più ancestrali, e lanciandosi in un lisergico e paranoico giro di chitarra che ci accompagnerà fino alla terza "Coil Shaped Volutions"; originali devo ammettere anche i titoli dei brani che in un qualche modo ci riportano alle visioni interstellari dei primi lavori. Torniamo a focalizzarci sulla song ma soprattutto sui giri di chitarra che si prendono la scena nei primi due minuti della traccia, viaggiando poi a braccetto con le keys e le roboanti vocals del frontman. La melodia non manca, cosi come non mancano i repentini cambi di ritmo e gli assoli da incorniciare tra le migliori cose fatte in ambito doom negli ultimi anni. Certo, l'effetto che questi suoni hanno sul mio cervello, appare molto simile a quello di una paurosa sbornia e il successivo e terribile hangover che da essa ne deriva. Il sound prosegue nel suo incedere pomposo anche in "Delta Scuti" (forse la traccia più rilevante del disco insieme alla deliziosa stravaganza darkwave/electro-pop della strumentale "Gravity Flood"), complice forse un cambio a livello vocale (compaiono qui infatti delle appena percettibili clean vocals) e per una maggior enfasi attribuita alla componente chitarristica, ineccepibile peraltro lungo tutto il lavoro. A colpire qui è soprattutto una componente elettronica più marcata che esalta ulteriormente la riuscita di un brano che ha ancora da offrire un'epica progressione che ci prenderà per mano per condurci attraverso differenti umori e sensazioni, fino alla stralunata "Engineering the Rip". La proposta dei Monolithe si fa ancora più sperimentale e spumeggiante, con la compagine francese a voler emulare i Samael, prima di rientrare nei canonici binari dell'oscura espressione doomeggiante dei nostri; l'assolo finale però è da applausi. C'è ancora tempo di godere della musicalità spiazzante dei Monolithe con "Fathom the Deep", una canzone che a livello ritmico e di atmosfere, sembra essere più distante dagli altri pezzi ascoltati sino ad ora, affidando il suo incedere a spettrali tastiere e a raffinate e sensuali chitarre. Per coerenza con il simbolismo del disco, dovrei attenermi e dare un sette come voto conclusivo, ma credo che andrò oltre, interrompendo qui la concatenazione del numero magico sette e avviandomi invece verso il futuro incombente del numero otto, universalmente riconosciuto come il numero dell'equilibrio cosmico. Sono certo che ci sarà da divertirsi, non vedo l'ora. (Francesco Scarci)

(Les Acteurs de l'Ombre Productions - 2018)
Voto: 80

https://ladlo.bandcamp.com/album/nebula-septem

sabato 20 gennaio 2018

Sunddogs - EP

#PER CHI AMA: Heavy/Alternative Rock
Conobbi Peter Calmasini nel 1995 quando si dilettava ad essere il Kirk Hammett della situazione nei veronesi Aneurysm. Sono trascorsi 23 anni, un sacco di acqua sotto i ponti, tre album passati ahimé quasi inosservati al grande pubblico, lo scioglimento degli stessi nel 2013. Peter però è un tipo che non sa stare fermo e mosso dalla sua continua voglia di suonare, ha trovato in Mirco Beltrame, drummer dei Shelter of Leech, una valida spalla con cui iniziare un nuovo progetto, i Sunddogs. La collaborazione tra i due, coadiuvato dall'ingresso in formazione di altri tre elementi, ha portato a questo primo EP omonimo di quattro pezzi. Si parte con la criptica "Falling Down", in cui i riferimenti mi conducono, grazie alla linea vocale di Giuseppe Trovato, ai System of a Down. L'aria che si respira è decadente e malinconica, testimoniata anche dal fantastico assolo che ci delizia per quasi due minuti, con saliscendi ritmici che inneggiano alla New Wave of British Heavy Metal, il retaggio musicale del buon Peter, che alle chitarre si alterna con l'altrettanto bravo Matteo Faccincani. Mica male, soprattutto per la capacità di evocarmi tempi ormai andati. "Optimistic Ballad" ha un approccio più ruvido a livello di suoni di chitarra e le vocals qui mi convincono molto meno che nella opener, fatto salvo nella parte di quello che dovrebbe essere il ritornello. Il brano pur essendo semplice e lineare, sembra mancare di una certa fluidità e alla fine non mi scalda per nulla il cuore. Già meglio "Without Compromise", che sembra riprendere, almeno inizialmente, le medesime sonorità della opening track, per poi miscelare un alternative rock di scuola inglese (penso a qualcosa dei Porcupine Tree, con la pecca di non avere un cantante all'altezza di Steven Wilson, o anche i Muse), con un sound metallico che richiama a livello ritmico i Black Sabbath. Si arriva alla chiusura affidata al basso di Francesco Consolini che apre "Just Me", un'altra song oscura, in cui a mio avviso la voce del frontman andava tenuta ad un volume più basso; il rischio di sovrastare gli altri strumenti è infatti assai elevato, meglio invece quando assume le sembianze di un sussurro nel buio. Buono come sempre il lavoro alle sei corde, tra solismi vari e parti arpeggiate. Alla fine quello dei Sunddogs è un EP che ci fa capire per sommi capi, la proposta del quintetto veronese, ancora forse troppo confusa tra l'intraprendere una strada piuttosto che un'altra. Il tutto va sicuramente affinato, migliorato nelle parti vocali e reso un po' più sofisticato a livello ritmico, più che altro se si vuole uscire dalla notorietà di confini per lo più locali. (Francesco Scarci)

(Self - 2018)
Voto: 65

http://www.sunddogs.com/