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sabato 7 febbraio 2015

Sarin - Burial Dreams

#PER CHI AMA: Post Metal, Isis, Pelican, Cult of Luna
Il trono degli Isis è vacante da un pezzo e si cerca in giro nel mondo qualcuno che abbia la credibilità per potervisi sedere. A migliaia i candidati, un po' come nella leggenda di Re Artù che ottenne il trono estraendo la spada nella roccia. Quest'oggi a provarci sono i canadesi Sarin e il loro album 'Burial Dreams', che oltre a presentarsi graficamente con un packaging lussuoso, con la opening track dimostrano di saperci già fare. "As Well as the Body" è infatti la classica traccia "isisiana" (chi ha detto 'Panopticon'?) dalle roboanti ritmiche accompagnate da vocals che potrebbero essere tranquillamente quelle di Aaron Turner, e poi da suggestive e dilatate atmosfere acustiche. Il sonoro della band dell'Ontario mi si infila immediatamente sotto la pelle e non posso far altro che godere dei saliscendi musicali dei nostri, dei riverberati chiari scuri che luccicano e si spengono nel buio della notte, in un climax ascendente da brividi. La prima traccia è quasi da 10. Con "An Empty Place" facciamo una pausa di una manciata di minuti che ci introduce alla più sognante "Monograph", song mid-tempo dal piglio malinconico, che ha comunque il pregio di offrire momenti di flusso emozionale grazie alle sue lunghe parti ambient interrotte da quei muri ritmici che sembrano sovrapporre una, due o forse dieci chitarre. Un'altra breve pausa ed è il momento della più claustrofobica "-", ossessiva e magmatica nel suo incedere drone. Ancora un intermezzo dove a comparire è una voce femminile (di tal Angela Deveros) prima della conclusiva "Reverse Mirror", in cui la brava vocalist apre il brano e si affianca allo screaming corrosivo di Wilson, in una song sinistra davvero ficcante. Non so se i Sarin saranno in grado di estrarre la spada e sedersi su quel trono, quel che è certo è che io tiferò per loro. (Francesco Scarci)

mercoledì 4 febbraio 2015

Deaf Eyes - S/t

#PER CHI AMA: Post Metal strumentale, Russian Circle
Quando ascolti una band come i Deaf Eyes e non sai praticamente nulla di loro, ti immagini dei tetri figuri che compongono i loro devastanti riff in un desolato villaggio del nord Europa, oppure da una tetra metropoli di un paese non identificato. Poi cerchi e scopri che sono di Pistoia e allora sorridi pensando ai quei soliti che affermano che la nostra scena tricolore è sterile e desolata. Ma andate a farvi curare e smettetela di ascoltare sempre le solite band conosciute. I quattro alchimisti non sono altro che gli Incoming Cerebral Overdrive, band di rilievo nella scena prog-metal che hanno partorito questo progetto strumentale nel 2013 e un anno dopo escono con questo album, distribuito in un bel digisleeve rosso sangue. I brani contenuti sono otto e vi trasporteranno nelle profondità sludge/post metal strumentale con grosse venature psichedeliche, facendo l'occhiolino ai Pelican, ma dimostrando una maturità artistica invidiabile. Colpisce immediatamente la qualità del lavoro fatto in studio, suoni perfetti, con un mixaggio e un mastering che hanno rifinito un disco che si fa ascoltare e godere dall'inizio alla fine. "Black Canvas" inizia di petto, senza nessuna intro, ma subito con una tempesta di riff che vi stamperanno addosso un sorriso inebetito. Un muro grosso, potente e ricco di sfumature fatto di chitarre, basso e batteria che avanzano imperterrite e la cui profondità creerà un'atmosfera onirica intorno a voi, rischiando di rimanerne intrappolati a lungo. La dinamicità del brano non fa rimpiangere il cantato, poiché tutta la vostra attenzione sarà concentrata sugli arrangiamenti che molto spesso sconfinano in territori math. Esattamente a metà traccia avrete un break che verrà subito rimpiazzato dal tema principale del brano mentre lontano si scorgono dei leggeri tappeti analogici prodotti da un sintetizzatore. "Red Desert Lullaby" ha un'altra identità: ritmo cupo fatto di timpano e tom che richiamano antiche ballate tribali, mentre le chitarre uniscono riff tenebrosi ad assoli acuti, torcendo i vostri nervi e avvelenando le sinapsi. Un trip che non cala mai di tono, probabilmente in alcuni punti molto simile a Russian Circle e affini, ma dopotutto i Deaf Eyes si muovono in questo ambito. Chiudiamo con "The Withered", cavalcata impetuosa introdotta da suoni ambient che sembrano echi spaziali, segnali da altri mondi che cercano il contatto con civiltà lontane. Il basso spinge e rinforza a dovere la sezione delle chitarre e il batterista da libero sfogo alle sue più recondite ossessioni ritmiche. Anche in questo caso l'essenza post-metal del quartetto pistoiese esce appieno, regalando profondità al brano, alternando riff stoppati a open-chords. Non si sa se gli Incoming Cerebral Overdrive produrranno ancora sotto questo nome, ma sicuramente ci sentiremo meno laconici se questo permetterà l'ascesa dei Deaf Eyes. Questa loro opera prima è da avere, ascoltare e vivere, assolutamente. (Michele Montanari)

(Argonauta Records - 2014)
Voto: 90

Conclave - Breaking Ground

#PER CHI AMA: Doom Rock, Cathedral, Black Sabbath 
Uno scarpone che preme sulla pala per scavarci la fossa, non è quel che si dice un buon presagio. Ecco come si presentano i Conclave, band del Massachussets, che con il loro EP 'Breaking Ground', debutta ufficialmente nel panorama metal. Il genere dei nostri lo si evince immediatamente dal giro di chitarra di "Footprints in Blood", che tra riffoni sludge e richiami a la Black Sabbath, dichiara a scena aperta l'amore della band per il doom rock. La voce sporca di Jerry Orne e l'atmosfera sabbiosa del disco, la dicono tutta sulle sonorità che potrete ascoltare e assaporare, soprattutto in sede live, nelle tre lunghe tracce ivi contenute. Infatti quando nella seconda metà dell'opening track, il basso preannuncia l'arrivo del tanto sospirato assolo, vengo investito da una folata di vento caldo dettato dalle note pizzicate sulla sei corde di Jeremy Kibort, con un sound sullo stile dei Cathedral degli esordi. "Lifetime" non è tanto diversa dalla precedente song come approccio: un rock roccioso, minaccioso e limaccioso, si muove sinuosamente come una ballerina di lap dance avvinghiata al proprio palo. Non pensate di ritrovarvi però suoni mansueti, perché divagazioni psichedeliche, stoner e sludge vi prenderanno al collo come il peggiore dei serpenti costrittori. Giungo in un attimo alla conclusiva "Walk the Earth (No Longer)" e ai suoi nove minuti abbondanti che continuano a strizzare l'occhiolino al rock degli anni settanta, mantenendo comunque inalterata la proposta della band statunitense che in quest'ultima traccia arriva a pestare un po' di più sull'acceleratore con una ritmica martellante che sa quasi di death metal. Ben presto il sound evolve in un doom più classico per poi concludere in un altro bellissimo assolo. Peccato alla fine si tratti di un 3-track, sarebbe infatti stato piacevole ascoltare altri tre brani e lasciarsi seppellire sotto una badilata di calda terra. (Francesco Scarci)

A foot pushing the showel to dig the grave is not a good omen. This is the calling card of Conclave, a band from Massachussets that with the EP, 'Breaking Ground', makes their debut in the metal scene. The genre proposed by these guys becomes immediately clear by listening to the guitar sound of "Footprints in Blood", a song that with its sludgy riffs inspired to Black Sabbath, declares its love to doom rock, Jerry Orne's dirty voice and the sandy atmosphere of this album confirm the expectations on the sounds you are going to listen to and enjoy, especially live. In the second half of the opening track, the bass announces the entrance of the solo guitar and I am hit by a gust of hot wind brought by the six-string of Jeremy Kibort, in the vein of the early Cathedral. "Lifetime" is not so different from the previous track: a hard, threating and sludgy rock sensually dancing like a lap dancer wrapped around her pole. But don't be fooled by this image: psychedelic digressions, stoner and sludge will attack you like a snake twisted around your neck. And suddenly here I am at the last nine minutes of "Walk the Earth (No Longer)", that winks to the 70s', but at the same time keeps the sound unchanged, although the hammering rhythm seems very close to death metal. Very soon, the sound tends to a classic doom and flows into an amazing solo. It is a pity this is a 3-track album; it would have been a pleasure to listen to other 3 songs, and be buried six-feet under. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 70

lunedì 2 febbraio 2015

Beyond the Dust - Khepri

#PER CHI AMA: Prog/Metalcore, Mathcore, Periphery, Tesseract, Dream Theater
Capiamoci subito: essere originali in questo genere è davvero dura. Se urli su lenti poliritmi ossessivi ricordi i Meshuggah; se fai pezzi iperveloci sembri i The Dillinger Escape Plan; se ci metti la melodia fai il verso ai Periphery o ai Dream Theater dei tempi migliori; se aggiungi un po’ di atmosfere sintetiche ecco i Tesseract. In mezzo a questi ipotetici estremi, trovano il loro habitat naturale i Beyond the Dust, quattro parigini al primo full lenght dopo un EP datato 2011. Chiamarlo habitat naturale forse è riduttivo: i Beyond the Dust, in questo crogiolo di tecnica e songwriting estremo, ci sguazzano proprio. C’è proprio tutto quello che serve: ci sono i riff granitici con leggero tono orientaleggiante su tempi tagliati e sincopati (“After the Light” o la splendida “Zero”); ci sono le inquietanti intro di voci campionate, effetti e batteria elettronica (“Rise”); c’è un’attenzione maniacale alla melodia, anche e soprattutto dove non te l’aspetti (“Clarity”: sei minuti e mezzo di puro capolavoro, sempre in tensione tra melodia catchy e riffing spietato, con aperture improvvise e cavalcate brutali, interamente giocata su intelligentissimi fraseggi di chitarre a diverse ottava di distanza). 'Khepri' si chiude con una lunga suite divisa in tre parti (in realtà, sembrano più tre canzoni diverse con il solo titolo in comune): “The Edge of Earth and Sea”, delle durata totale di oltre 20 minuti, che rappresenta la summa totale della visione dei Beyond the Dust. Ci sono arpeggi acustici che ricordano Dream Theater e Opeth, potenti cavalcate metalcore, abbondanti tastiere, assoli stile Petrucci e poliritmi in palm-mute stile Meshuggah. La voce, in piena tradizione metalcore, alterna scream e cantato – non potentissimo, ammettiamolo, ma sempre intonato e raramente banale – permettendo un’ampia varietà all’interno del lavoro. Il songwriting non è certo estremo come altri grandi del genere: c’è parecchio 4/4, intendiamoci. Poliritmi, cambi di tempo e terzine sono spesso nascosti dentro passaggi inaspettati o brevi interludi strumentali (sentite “Silence and Sorrow”, con le sue strofe solo apparentemente regolari e i bridge destabilizzanti): ma stanno bene così, sono dosati con perizia e rendono l’ascolto dell’intero disco un piacere per le orecchie più che una sfida per il cervello. Uno dei lavori migliori dell’ultimo anno. (Stefano Torregrossa)

(Dooweet Records - 2014)
Voto: 85

domenica 1 febbraio 2015

Empyrean Throne - Demonseed

#PER CHI AMA: Black/Death Sinfonico, Behemoth, Dimmu Borgir
Con notevole ritardo, slegato questa volta dalla mia volontà, mi appresto a dare orecchio all'EP di debutto dei californiani Empyrean Throne, sestetto di Lake Forest, che ha catturato il mio interesse per l'epica grafica dell'artwork, per la label alle loro spalle (la Erthe & Axen, la stessa degli Xanthochroid) e per la proposta a cavallo tra black e death sinfonico. Inizio però la mia disquisizione di 'Demonseed' dalla quinta traccia, "A Crow's Feast", che ho avuto modo di passare all'interno del mio programma radio. Vi domanderete certo il perché di questa mia inusuale scelta, presto detto. Quando ho informato la band di aver passato la song in radio, la risposta è stata che la traccia non era sufficientemente pesante. Devo aver pensato di tutto su questi tre minuti abbondanti di musica, ma certo che non fosse estrema. Una ritmica ferocissima infatti, addolcita solo da una forte componente orchestrale, la rendono forse un po' più accessibile rispetto alle altre, ma basta sentire il deflagrante drumming di Dan “Danimals” Bruette per capire che certo questo non è pop rock. Facciamo quindi un salto indietro alla opening track, che apre con suoni di guerra, il cui titolo, "Death March", non è stato scelto per puro caso. E proprio come una marcetta bellicosa, i nostri si presentato con la loro proposta aggressiva, rutilante, ma sempre ammorbidita dal violoncello e dalle orchestrazioni bombastiche di Kakophonix, che confermano quanto già detto sopra, ossia rendere verosimilmente più ampio il pubblico che possa avvicinarsi a questo lavoro. La voce di Andrew Knudsen, graffiante nella sua veste scream e brutale in quella growl, si guadagna la scena, anche nella successiva title track dove, sempre posta in primo piano, dissemina tutto il proprio odio, su ritmiche mai troppo feroci a dire il vero, sebbene le tematiche anticristiane. Il cd è infatti un concept che parla della nascita di un anticristo, la distruzione che segue la sua venuta e la rinascita di un nuovo mondo. "Nothing but Vermin" è un pezzo decisamente death, che non disprezza peraltro tecnicismi più propri del techno deathcore e che vede come guest vocal tal Tyler Gorski (un altro ospite, il pianista Daniel Pappas, farà la sua comparsa in "Follow the Plaguelord"). "The Fascist Messiah" è una rasoiata di una manciata di minuti, mentre l'ultima song, la più lunga del lotto, da sfoggio dell'abilità del già citato Daniel al pianoforte, con un lungo e delizioso intro pianistico che fa da preambolo alla traccia più matura del dischetto. Belle le linee di chitarra, raffinata e pomposa la veste orchestrale, mentre le vocals si dimostrano davvero convincenti, con una prova corale che innalza notevolmente la qualità del disco. 'Demonseed' tuttavia, rivela ancora lacune in sede compositiva delineando anche una certa resistenza nello sperimentare da parte dei nostri. Gli Empyrean Throne comunque promettono bene, e l'invito è pertanto, quello di seguirli da vicino. (Francesco Scarci)

(Erthe & Axen - 2013)
Voto: 65

Marblewood – S/t

#PER CHI AMA: Rock Blues, Hard Rock, Psych '70s
Sembrano dei viaggiatori del tempo, i Marblewood, capitati per caso in un’epoca e in un luogo che non gli appartiene affatto. Ben piú che nella Zurigo degli anni 2000, infatti, i tre sembrerebbero maggiormente a proprio agio nell’Inghilterra del 1972, tanto per l’aspetto quanto, soprattutto, per la musica racchiusa negli oltre settanta minuti di questo loro esordio omonimo. In questi 6 brani, i tre zurighesi si prendono tutto il tempo di cui hanno bisogno, senza fretta e costruendo con calma i loro groove rilassati, con la chitarra di Marc Walser (anche voce) a farla da padrone con riff sornioni e lunghi assoli, giovandosi spesso del contrappunto di un hammond dal suono classicissimo e ben supportato da una sezione ritmica precisa e flessuosa (Dave Zurbuchen, batteria e voce e Arie Bertogg al basso). Il risultato è un rock blues che strizza l’occhio tanto ai Taste di Rory Gallagher o i Free di Paul Kossoff, cui lo stile chitarristico di Walser rimanda in più di un passaggio, quanto alle dilatazioni psichedeliche dei Pink Floyd. L’iniziale "Kailash" è un hard blues che vive sui contrasti tra rarefazioni ritmiche e chitarre incendiarie, mentre "Hit the Brakes" accelera spesso e si accende su un duello chitarra-hammond che rimanda inevitabilmente ai Deep Purple. "Splendour" si apre con il suono della dilruba (vi risparmio la googlata: è una sorta di sitar suonato con l’archetto) che colora il brano con le atmosfere indianeggianti richiamate dall’immagine di copertina. Dopo una prima parte parlata fa la sua comparsa l’ottima voce di Sarah Weibel che, ottimamente supportata dai musicisti, innalza il tasso lisergico dell’album. La splendida "Silence" è la perfetta sintesi delle influenze della band, con il suo andamento ondivago e il chorus memorabile, mentre la conclusiva "Postwar Apocalypse", oltre ad essere il più lungo brano, con i suoi 12 minuti, è anche il più duro dell’album, con passaggi quasi stoner, la consueta dilatazione centrale e una coda del sapore velatamente doomy. La versione in CD contiene, rispetto al vinile, una succosissima bonus track: un’improvvisazione strumentale registrata dal vivo di ben 21 minuti, che non fa altro che confermare le qualità strumentali della band, mettendone in evidenza sfumature jazzy davvero interessanti. Disco splendido e davvero imperdibile per i cultori del genere, che da queste tracce sapranno trarre parecchie ore di goduria e divertimento. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 80

Zero Down - No Limit to the Evil

#FOR FAN OF: Heavy/Thrash
With four full-length albums under their belt since 2005, you'd think Seattle metallers Zero Down would be on our radars a little more often. But the first few tracks of their brand new effort 'No Limit to the Evil' reveals the issue regarding their popularity... The excellent cover art, by classic metal artist Ed Repka, would imply that this disc would contain 40 minutes of nu-thrash madness. This only heightens the disappointment felt upon first listen. This is heavy metal done pure and simple. For that, I commend them - I respect any band who eliminate unnecessary bells and whistles in order to focus their sound more directly. Unfortunately, Zero Down sound like they really could do with some more bells and whistles to grab the attention of those who have been bored senseless by song after song of generic, mid-tempo stomping. Okay, firstly, the pros: The production on the stringed instruments is an absolute pleasure - a nice rounded bass sound provides ample support for a simple, mellow guitar tone. The drums are definitely far too low in the mix, and the vocals...well, we'll get to them later. The gang-vocals employed by the rest of the band are nothing if not fun, and definitely enliven the blander parts of songs like "Suicide Girl" and "Devil's Thorn". The riffs, whilst mind-numbingly simple, at least contain enough energy to awaken that primal feeling which plagues most metalheads, forcing the listener to rhythmically nod in respect (opening riff to "Steve McQueen" especially). The cons? Hmm. 'Generic' really is the key word here. You are hearing nothing that hasn't already been done infinitely better by the likes of Saxon or Accept or...every NWoBHM band ever. 'No Limit to the Evil' is a collection of meandering, mid-tempo rockers which rarely turn the volume up past 6 or 7. It's not awful! But it's so average, it hurts. Would it really have killed them to quicken the pace a little? Or even slow it down further? Variety is the spice of life, and this about as spicy as cream cheese. Now then, Mark Hawkinson's vocals... It appears that 70% of the time he is perfectly capable, tuneful, and in control. This is majorly let down by those times where he attempts falsetto, and just crosses the border into 'Embarrassment-land'. His lyrics are, to put it bluntly, stupid: "Blah blah blah BEER. Blah blah blah METAL. Blah blah blah WOMEN." Yawn. If you really feel you should persevere with this band - then look into their earlier releases. They are at least packed with far more variety than "No Limit to the Evil". There definitely are highlights, such as the energetic "Phantom Host" and the brilliantly-titled "Two Ton Hammer" - but they are disappointingly eclipsed by the carnival of boredom that surrounds them. Better luck next time, chaps. (Larry Best)

(Minotauro Records - 2014)
Score: 40

sabato 31 gennaio 2015

I Watch Mountains Grow - The Ancient

#PER CHI AMA: Progressive Metalcore/Avantgarde
Ascolto questo primo full-lenght degli austriaci I Watch Mountains Grow, e non posso fare a meno di pensare: questi sono dei fottuti schizofrenici. 'The Ancient' è una sorta di frullatore primordiale, in cui il quintetto viennese vomita tutto quello che ha divorato: tracciare una lista di riferimenti musicali sarebbe quasi impossibile. Il disco si apre con “Syria”: un minuto di pianoforte inquietante che esplode in una violenta sequenza di riff, bridge senza capo né coda, dove la voce di Ben G! urla e gorgoglia di puro malessere. C’è una certa vena punk negli I Watch Mountains Grow e “No Hard Feelings Dude” e la title-track “The Ancient” lo dimostrano: batteria in quattro, cori urlati, melodie deviate – una versione malata e sotto adrenalina dei Black Flag. Ma non è finita: preparatevi ad agitare l’accendino sul ritornello strappamutande di “How is the Thing Called, That's Left When Friendships End?”. Non c’è tempo per respirare: “That Moment When You Can't Find a Lighter” e “…And Footsteps of a Spaceman” vi catapulteranno in una cosa a metà tra Meshuggah e Black Dahlia Murder, con una punta di percussioni jungle e testo rappato. C’è la brutalità dei Cannibal Corpse alternata a ritornelloni prog-metalcore (“In Conflict!”), c’è l’atmosfera rarefatta ed inquietante delle tastiere ispirate (“Of Wind and Water…”, “All Those Moments Will Be Lost in Time, Like Tears in Rain”), c’è persino un brano quasi-pop con voce femminile (“Tribute To Humanity”) e una ballad romantica acustica (“We Start at the End and Stop at the Beginning “). La ricetta che si ritrova più spesso è quella del metalcore (così spesso che le parti si assomigliano un po’ tutte tra loro): ritornelli corali e melodici da mani alzate infilati in canzoni violente condite da growl, scream e stop-and-go di batteria. Ma non è tutto qui, neanche per sogno: se c’è una cosa che gli I Watch Mountains Grow sono capaci di fare è sorprendere, con stile. È un disco difficile da ascoltare, non si può negare: manca un filo conduttore omogeneo e, forse, è questa la vera forza (e paradossalmente, il vero punto debole) di 'The Ancient'. (Stefano Torregrossa) 

(Self - 2014)

giovedì 29 gennaio 2015

John The Void – S/t

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, Cult of Luna
Si presentano con un umile prodotto completamente confezionato in casa, grafica sobria e minimale, un gradevole rivestimento in cartoncino ripiegato su se stesso, ma i John The Void sono un gruppo da vedere live più che da ascoltare su disco. Riffoni prolissi, ritmi lenti e cadenzati, saturazione sonora, il quintetto di Pordenone propone, come sempre accade nel nostro mesto Paese, musica che vide i suoi anni migliori qualche lustro addietro. Ciò che rende il tutto piacevole tuttavia, tralasciando quell'alone di già sentito, è l'utilizzo dell'elettronica tramite synth e campionatori, nulla di eclatante o di mai affrontato, ma sicuramente di rilievo rispetto a diverse altre band nostrane alle prese con lo stesso genere. Detto ciò, il tutto scorre altalenandosi tra divagazioni dal sapore electro-ambient, enormi muri sonori al limite del doom ("The Reversionist"), immancabili picchiate volumetriche e smarcamenti acustici (la cui summa è rappresentata da "Quiescence". Le composizioni, nonostante riescano tranquillamente a superare il classico scoglio della noia o l'eccessiva ripetitività a livello ritmico, non spiccano per originalità, strizzando l'occhiolino qua e là a Cult of Luna o Isis, e vedono il loro punto di forza nelle parti meno violente, ove la calibrata effettistica riesce ad elaborare piacevoli sonorità. La mia valutazione finale considera comunque 'John the Void' un buon lavoro, onesto e non pretenzioso, che speriamo costituisca, per il futuro dei nostri, un saldo punto di partenza da cui potersi migliorare, uscendo dai rigidi e già calcati schemi compositivi del post-sludge. (Kent)

(Self - 2014)
Voto: 65