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giovedì 4 settembre 2014

Violet Tears – Outside Your Door

#PER CHI AMA: Dark Wave, Xmal Deutschland, Ghost Dance, Spear of Destimy
Ultima fatica per questo combo italico di stanza a Bari, un lavoro raffinato e ben confezionato, licenziato via Ark Records nel 2013. La band risulta interamente devota al verbo malinconico e sognante della new wave di carattere gotico dei migliori anni ottanta, e forte della sua lunga esperienza ci regala quarantacinque minuti divisi in nove capitoli, di velata tristezza figlia del suono magico di act quali Xmal Deutschland, Ghost Dance (quelli di 'Spin the Wheel') e tanto dell'onda oscura italica lasciata da gruppi storici come Madre del Vizio, Undergrond Life e gli immancabili rimandi ai Diaframma di 'Siberia'. Due brani del catalogo sono cantati in lingua madre e questo conferisce un buon quanto diverso approccio al sound della band (più vicino allo stile canoro dei Calle della Morte), mentre nel resto dei brani la musica si affida ad una voce femminile di notevole estensione, con cantato in inglese, che unisce venature liriche classiche a forme più eteree, come se la mai dimenticata Giuni Russo avesse potuto interpretare brani di Cocteau Twins e primi Dead Can Dance. I suoni si calano perfettamente nelle partiture esuli e cristalline dal mid tempo solenne e glaciale, riscaldato da chitarre e tastiere spesso in linea con il suono dei The Cure più sognanti di 'Disintegration'. L'intero lavoro è attraversato dalle atmosfere insane degli Xmal Deutschland anche se i nostri risultano avere un carattere più classico, pacato, distaccato ed ethereal darkwave. L'effetto vocale è maestoso, disturbante ed ammaliante contemporaneamente, dal tono drammatico ed epico come lo era Kirk Brandon nei mitici Theatre of Hate o ancor più negli Spear of Destiny. Una culla di malinconica bellezza accarezzata da suoni sintetici, ovattati, lontani anni luce dalle false imitazioni di alcune band più famose dei nostri tempi moderni. Un sound ipnotico sorretto da un'ottima performance vocale che sovrasta splendidamente l'impianto strumentale, che reagisce con un suono derivativo, senza mai cadere negli stereotipi del genere o meglio, è così perfettamente new wave che suona come se fosse stato registrato nella sua epoca d'oro. Magari sarà per nostalgici vestiti di nero, dai capelli cotonati e laccati con lo sguardo triste, ma questo album offre emozioni reali ed una intimità crepuscolare degna di nota. Se volete fare un passo indietro, circa metà anni ottanta, ascoltando qualcosa di intelligente e di qualità, non esitate, 'Outside Your Door' farà per voi! (Bob Stoner)

(Ark Records - 2013)
Voto: 75

Narrow House - Thanathonaut

#PER CHI AMA: Doom Avantgarde, Virgin Black
Poco più di un anno e mezzo fa, il buon Kent recensì il primo atto funeral doom degli ucraini Narrow House e ora mi ritrovo sulla scrivania il secondo capitolo di questi folgorati (non sulla via di Damasco) ragazzi di Kiev. Di quel genere non è rimasto quasi più nulla se non un senso di oscura malinconia che mi pervade l'animo dopo il suo ascolto. 'Thanathonaut' è un lavoro che ha colpito nel segno sin dalla sua intro, in cui è un apocalittico violoncello ad assurgere il ruolo di protagonista. Con "The First Day of the Rest of Your Life" mi rendo conto che della proposta originale del quartetto è rimasta solo l'atmosfera decadente, mentre il sound dei nostri strizza l'occhio ad avantgarde e doom classico, il tutto estremamente curato in ogni minimo dettaglio. Ottimi i suoni, altrettanto le vocals pulite che si muovono su un interessante quanto mai oscuro tappeto formato da chitarra e sax. Ma è ancora il violoncello ad attirare la mia attenzione nella track successiva, "Furious Thoughts of Tranquillity", andandosi ad incastonare come uno splendido gioiello nell'architettura forbita di chitarra/tastiera e sax. Le song sono brevi e quindi è anche più facile gustare di tutte le sfumature di cui sono striate. E soffermandomi più attentamente su "The Midwife to Sorrows", non si può non percepire il refrain inconfondibile di "Extreme Ways" di Moby, colonna sonora della trilogia 'The Bourne Identity'. Sonorità folkish-avantgarde si uniscono a divagazioni di matrice jazzistica in "The Last Retreat", mentre le atmosfere gotiche e dark sono contemplate in tutto lo scorrere del disco. Tutti i generi ben si amalgamano nei 40 minuti di 'Thanathonaut' grazie alla bravura di questi musicisti, agli ottimi arrangiamenti e all'azzeccatissimo utilizzo di due strumenti che tornerei a sottolineare: sax (meraviglioso peraltro nella sua veste solistica nella title track) e violoncello. Il nuovo approccio musicale dei Narrow House ci regala un lavoro che viaggia una marcia in più rispetto al vecchio 'A Key to Panngrieb'. "A Sad Scream of Silver" è un altro brano strumentale dalla forte aura malinconica, mentre "Crushing the Old Empire" soffre di un leggero retaggio funeral. "Doom Over Valiria" funge virtualmente da pianistico outro del disco, visto che l'ultima traccia non è altro che una cover completamente rivista (e cantata anche in lingua madre) di "Renaissance" degli australiani Virgin Black, band di riferimento per i nostri eroi di oggi. Narrow House, il nuovo vento che arriva dall'est. (Francesco Scarci) 

(BadMoodMan Music - 2014)
Voto: 80

mercoledì 3 settembre 2014

Faces of Bayon – Heart of the Fire

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Doom, Cathedral, Warhorse, OM
Nel 2011 la Ragnarok Records presentava al mondo un ensemble americano proveniente dal Massachusetts, dedita ad uno stupendo e colossale doom carico di psichedelia, potenza e ipnosi. La band si chiamava Faces of Bayon ed il cd, 'Heart of the Fire', rappresentava un piccolo gioiellino nel genere. La sfortuna cadde sulla band l'anno stesso dell'uscita del disco e il trio vide lasciare definitivamente questa terra il batterista cospiratore di questo immenso lavoro. I nostri lasciarono nel bel digipack una giusta dedica alla memoria di Mike Davis scomparso nel gennaio del 2011. Ad oggi la band ha un nuovo batterista ed è in procinto di licenziare un nuovo lavoro sempre via Ragnarok Records. Ma ritorniamo a 'Heart of the Fire', album di cui possiamo solo esserne fieri e il cui ascolto è un salutare delirio per le nostre menti. Il disco si posiziona esattamente tra i Cathedral di 'Endytime', i Warhorse di 'As Heaven Turns to Ash', con una velatissima vena epica a la Candlemass e una mistica oscurità a la OM, ma senza mai sfiorarne il plagio. La band tocca vette altissime e il tutto risuona magistrale, dalla ricercata e curata disposizione dei suoni alla costruzione dei brani, che pur continuando nella ferrea strada del doom più ostinato, creano ponti psichedelici moderni ed innovatori, atmosfere surreali, sensuali e oscurissime (vedi la splendida "Godmaker!") con venature maledette care ai Crime and the City Solutions, immaginandoli suonare doom (la vedete "All Must be Over" in versione doom?!). L'intero disco non mostra lacune, un suono cavernoso, definito, potente, compresso e distorto contraddistingue una band da non sottovalutare e da non perdere assolutamente di vista. Cinquantadue minuti in sei brani interpretati da un'ottima voce dal tocco maligno e tenebroso, come se John Tardy degli Obituary avesse sparato a rallentatore le sue incursioni vocali, buone anche le parti vocali pulite e la batteria del compianto Davis è tutta da assaporare, stupenda! Chitarre e basso sono super ribassate, pesantissime e si muovono con passi da mammut, un mammut in riflessione strafatto di LSD. Suoni sperimentali sparsi qua e là miscelano il tutto, una vena tutta rock (cosa che li accomuna molto ai mitici Cathedral) non abbandona mai la scena per quanto buia e tenebrosa sia. Un rivoluzionario, costruttivo senso di vuoto ci pervade durante tutto l'ascolto che non annoia mai. Nel finale "A Fire Burns at Dawn" sconvolge l'ascoltatore con un barlume di speranza, descritto da una traccia più solare e capeggiata da un sound cristallino che comunque svanisce in poco più di due minuti. La musica del destino non è per tutti ma questo è un lavoro che dovrebbe essere preso ad esempio da tutti, devoti e profani. In trepida attesa del prossimo disco ci affoghiamo tra le note di questo cosmo sonoro dilatato e oscuro. Una chicca nel genere! (Bob Stoner)

(Ragnarok Records - 2011)
Voto: 80

Estoner – The Stump Will Rise

#PER CHI AMA: Stoner, Sludge, Psych, Doom
Ecco i nuovi candidati per il nome piú self-explaining del rock: gli Estoner sono una band estone e suonano, appunto stoner. A parte questo, qui ci troviamo di fronte ad una sorta di epifania: l’esordio di questi giovanotti di Tallin, datato addirittura 2012, è una sorta di fenomenale intruglio psichedelico che mescola stoner, doom, fuzz, psych con gusto e spiccata personalità ed è, signori, un disco della madonna! Che ci crediate o no, appena entra il cantato di Corey Tomlins, sembra di essere al cospetto di un side project ultra lisergico di Maynard James Keenan, tanto la voce è simile nel timbro quanto per le linee melodiche, assolutamente peculiari, che solitamente sono appannaggio esclusivo del cantante di Tool e A Perfect Circle. E se l’effetto di sentire la voce dei Tool su una base ultra-psych-fuzz all’inizio è straniante, ben presto si rivela semplicemente esaltante, specialmente per il fatto che questi 7 brani sono bellissimi, nessuno escluso. Difficilmente catalogabili, gli Estoner, infatti, non suonano semplicemente stoner, ma riescono ad essere molte cose assieme, senza esserne nessuna in particolare. Gran parte del merito è da ascrivere sicuramente alla voce di Tomlins, effettata con echi e riverberi, che rende indimenticabili brani dalle architetture strumentali comunque solide – ottimo il lavoro delle chitarre, granitica la sezione ritmica – anche se non sempre originalissime. Si passa dalle classiche cavalcate “desertiche” in stile Kyuss di "Greeseeker", alle atmosfere un po’ piú oscure e meno convenzionali di "Meet the Abyss" o "Darth Vader has a Hangover", che non avrebbe sfigurato su 'Undertow' dei Tool. Citazione d’obbligo poi, per i testi folli, perversi e ad alto tasso di “psichedelia”, che in bocca a cotanto cantante riescono a infondere tocchi di maligna originalità anche all’abusatissimo riff del bluesaccio "Stump". Ultima nota per l’ottimo artwork – perfettamente in tema con la musica – merce sempre piú rara al giorno d’oggi. Un unico rimpianto: peccato non poter inserire questo album nella classifica dei migliori del 2014. Da tenere assolutamente d’occhio per il futuro. (Mauro Catena)

(Self - 2012)
Voto: 80

Hyne - Elements

#PER CHI AMA: Rock Stoner
Oggi parliamo degli HYNE, quintetto di Amburgo pubblicato dalla promettente FUZZMATAZZ Records. La band è attiva dal 2010, quando ha rilasciato il suo primo album a cui è seguito un Ep e recentemente il nuovo 'Elements', disponibile anche in vinile (nero o arancione) per gli amanti dell'analogico. Gli HYNE sono cresciuti costantemente nel tempo facendo una sana gavetta in sala prove e partecipando a festival insieme a gruppi più blasonati. Questo ha permesso al pubblico di apprezzare una nuova band che è andata così ad unirsi alla crescente scena stoner. La band opta per un suono curato e legato alla scuola nord europea, meno grossolano di quello in voga qualche anno fa e che alcune band ripropongono ancora, restando fedeli alla vecchia guardia. Questo li porta molto vicini all'hard rock, ma sicuramente i live fugherebbero ogni dubbio, mettendo in risalto il lavoro di sound engineering. Dei nove brani presenti nel disco, parliamo intanto di "The Engine", un pezzo che senza andare molto indietro nel tempo ricorda Truckfighters e Dozer, soprattutto nelle chitarre veloci e instancabili. Invece l'inserimento dell'assolo conferma le fondamenta hard rock della band. Il vocalist è potente e sceglie delle linee di canto classiche per il genere, senza tanti effetti e fronzoli vari. La title track cambia completamente direzione, più lenta (ma non abbastanza per essere un brano doom) e riflessiva, anche se in sette minuti abbondanti mi sarei aspettato un cambio di rotta per far evolvere il brano. Un pezzo equilibrato e arrangiato in modo funzionale, niente di sperimentale o alternativo, in modo da accontentare chi vuole appoggiare la puntina sul disco e sapere già cosa uscirà dagli altoparlanti. La linea vocale conferma la sua importanza nel caratterizzare il sound della band, obiettivo sempre più necessario nel vasto mare di band che vogliono emergere dal brodo primordiale dell' underground. "Pieces if the Universe" inizia con un bel riff di basso distorto che fa da ouverture alla chitarra, prepotente come pure il basso e la batteria. Una bella energia scorre per tutto il brano, con accelerazione e stacchi che fanno assaporare sulla lingua il midollo rock della band tedesca. Alla fine è il brano più azzeccato dell'album e mostra come dovrebbero essere gli HYNE, meno stoner per necessità e più hard rock per indole. (Michele Montanari)

(Fuzzmatazz Records - 2014)
Voto: 70

martedì 2 settembre 2014

Expain - Just the Tip

#PER CHI AMA: Thrash/Techno Death, Control Denied, Death
Ormai anni or sono prenotai un cd presso il mio negozio di fiducia; sapevo sarebbe stato sicuramente un capolavoro, ma all'epoca il “gestore” del comparto metal non sembrava pensarla alla stessa maniera, facendone arrivare una sola copia, per il sottoscritto. Ricordo ancora esattamente la prima volta che ascoltai il tanto agognato cd: rimasi letteralmente stregato e non ascoltai nient'altro per due mesi buoni. Sulle riviste specializzate imperversavano recensioni entusiastiche ed io, ad ogni ascolto, continuavo ad amarlo sempre più. Il titolo in questione, 'The Fragile Art of Existence', rimane a tutt'oggi, ahimè, l'unica opera di quel supergruppo che risponde al nome di Control Denied. Un disco metal del genere rimarrà nella storia il migliore per tutto quel sottogenere che comprende il Technical Death Metal/Power Death Thrash Progressive o come cavolo volete chiamarlo...semplicemente perché quel disco è talmente enorme che non si può etichettare. Perchè questa introduzione? Perchè i canadesi Expain mi hanno ricordato come tipologia proposta quella grande band; e poi, perché anche 'Just the Tip' è davvero un gran bel disco. Dalla copertina e dal booklet interno avevo già superficialmente etichettato il gruppo come una manica di simpatici cazzari alcolizzati, dediti ad un thrash metal di matrice ottantiana ormai già rappresentato da svariate altre band. Come mio solito, ho dovuto ricredermi, perché questi ragazzi sanno suonare, per la miseria se sanno suonare...e sanno il fatto loro in tutto e per tutto, anche se la comprensione del lavoro nella sua totalità mi ha impegnato per diversi ascolti. Introduzioni che pescano a piene mani dal mondo jazzistico, riffs sparati ad una velocità supersonica e dannatamente complessi, linee di basso pazzesche e una doppia cassa che viaggia come un treno impazzito lungo tutte le tracce del disco. Qui le classificazioni e le varie etichette non valgono nulla, perché ogni appassionato di metal potrà apprezzare il lavoro di questi ragazzi. Una produzione al limite della perfezione arricchisce il tutto e rende perfino la voce del cantante (non bellissima,vi anticipo...) perfettamente comprensibile. Mi limito ad indicare quelli che secondo me sono i capolavori dell'album: “The King” e la spettacolare “Aggression Progression”; anzi, vi chiedo una cortesia, appena possibile, cercate nel web i titoli sopracitati e ascoltate, ascoltate bene. Potrebbero anche non piacervi, ci mancherebbe, ma il valore di pezzi composti e suonati in quella maniera non si discute e oggettivamente rimane tale anche se non dovessero incontrare perfettamente i vostri gusti. Una bellissima scoperta, un nuovo disco da consigliare e far ascoltare; questi gruppi dovrebbero essere messi sotto contratto subito da un'etichetta degna di tale nome. Sarebbe un errore immenso lasciarsi sfuggire talenti di questo calibro. Scusate, ma io ritorno ad ascoltarmi “Just the Tip” e alzo il volume a manetta, come non succedeva ormai da troppo tempo. Il metal non è morto e non morirà mai finché in giro ci saranno gruppi come gli Expain. Lunga vita al metal. Lunga vita agli Expain. (Claudio Catena)

(Self - 2014)
Voto: 85

lunedì 1 settembre 2014

Mamaleek – He Never Said a Mumblin' Word

#PER CHI AMA: Sludge/Stoner
Quest'estate ho riempito il mio lettore mp3 di release a casaccio tra quelle che mi sono state inviate recentemente da label e band. Nella mia quotidiana ora di relax, lo shuffle ha cosi scelto per me i Mamaleek e il loro sound all'insegna di uno sludge assai tetro. La opening track, nonché anche title track del disco, mette in chiaro (o forse sarebbe meglio dire in scuro) che il sound offerto dai nostri non può andare oltre a certe sonorità asfissianti e mortifere tipiche del genere, che rendono la proposta dei nostri di difficile assimilazione. Sembra una preghiera quella recitata nei tre minuti iniziali di “Pour Mourner's Got a Home”. Irrompono poi chitarre melmose (a cavallo tra sludge, stoner e drone), che insieme ad atmosfere abrasive e urla disumane (ma anche chorus deliziosi), dipingono il quadro musicale assai complesso dei Mamaleek. Scariche industrial divampano in “Almost Done Toiling Here”, traccia che potrebbe aver avuto i Plasma Pool di Attila Csihar come modello di ispirazione ma che comunque continua a palesare come sia scorbutico il sound di questi ragazzi anche nei momenti apparentemente di più facile digestione. Le vocals iper effettate, le chitarre super distorte, gli attimi di anomala quiete, continuano a rendere l'ascolto di 'He Never Said a Mumblin' Word' un difficile scoglio da sormontare. “My Ship is on the Ocean” chiude il disco con i suoi quattro minuti di sonorità annebbiate, malate e altamente sperimentali, che potranno deliziare chi è alla ricerca di un sound difficile ma traboccante forte personalità. (Francesco Scarci)

(Flenser Records - 2014)
Voto: 70

Anathema - Distant Satellites

#PER CHI AMA: Rock Elettronica, Radiohead
Gli Anathema come mai prima. Forse rinnovamento, forse cambiamento. Io direi che in questo album gli Anathema hanno il vello della fenice che rinasce dalle proprie ceneri. "The Lost Song, Pt 1". Abbandono. Essenza. Trovare e perdere. Ascolto rapita. Sonoritá sensibili a tratti sensuali, che trasudano sessualitá struggenti come se la voce divenisse carnalitá corporea. Incredibile la continuità che il primo brano trova nel secondo "The Lost Song, Pt. 2". Ora a farmi perdere non è piú una voce maschile, ma una donna dalla voce complementare al cantante del primo pezzo, così in tinta alla musica della band, da farmi sentire un tutt'uno con cielo e terra. Spezziamo questa alchimia per qualche minuto con "Dusk". Perdura la musicalità elettronica, convergono suoni vocali sussurrati e poi iperbolici, ma in "Dusk", a sorpresa si fondono le voci dei primi due pezzi. Se non è sensuale questo, ditemelo voi cosa lo è! Ho guardato il mare in tempesta. Ho sentito il sapore della terra bruciata dal sole. Ho fatto un tuffo in mare di notte. Ho visto chi guarda e chi non sa di essere guardato. Ho subito il tempo e poi con rabbia l'ho vissuto sino all'ultimo istante il tempo. Ecco "Ariel", che sussurra, a due voci, che racconta, che accarezza, induce, si allontana con la stessa dolcezza con cui è iniziato. Come un ballo alcolico in cui la mente è leggera ed il corpo si abbandona, ascolto "The Lost Song, Pt 3". Potete muovervi in un limbo che circoscrive bisogni ed alienazione. Ascoltate con gli occhi chiusi, ballando con la lentezza descritta da un mantra. "Anathema". Si. Si. Si. Si. Si. Ecco l'intro suonato, accattivante, ripetuto, che mescolato alla voce, ipnotizza, trascina, rende la volontá schiava di questo ibrido sonoro e vocale, come fosse un unico corpo misantropo, carismatico, invisibile, ombra alle luci della luna piena. La magia si spezza. Torno alla realtá con "You're not Alone". Brano alienante rispetto ai precedenti. Pretenzioso. Una confusione di suoni. Forse ci vuole per una pausa! Era solo un momento estroso, perché con "Firelight" gli Anathema, tornano a far danzare lentamente i fiori nel deserto. Ancora una volta i suoni sono puliti, armoniosi, metafisici, cosí delicati da far entrare piacevolmente in questo connubio di ritmiche seghettate in cui si intercala la solita voce dal testosterone avvolto di miele. Se prima ho abbassato le luci, ora le ho spente, per fare spazio al buio ed a questa "Take Shelter". Lenta. Carezzevole. Scorsa da effetti elettronici, piacevoli come una scossa al rallentatore, che si propaga sulla pelle. Sospiri. Improvvisi cambi di ritmo che continuano nella melodia. Scosse ancora. Un album che dovreste ascoltare in una notte di luna piena a picco sul mare o di fronte ad un camino mentre la neve frusta la vostra terra. (Silvia Comencini)

(Kscope Music - 2014)
Voto: 80

The Pit Tips

Don Anelli

Malakyte - Human Resonance
Engulfed in Blackness - Ceremonial Equinox
Majesty of Revival - Iron Gods
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Francesco "Franz" Scarci

Fallujah – The Flesh Prevails
Heretical - Daemonarchrist – Daemon Est Devs Inver...
Septicflesh - Titan
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Kent

The Steeldrivers - Reckless
The Soft Moon - Zeros
Those Poor Bastards - Satan Is Watching
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Claudio Catena

Overkill - White Devil Armory
Expain - Just the Tip
Fu Manchu - Gigantoid
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Michele Montanari

The Wows - Nice day
Lo-Pan - Salvador
The Shimmer - Greetings from Mars
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Mauro Catena

Fire! Orchestra - Enter
Giorgio Canali & Rossofuoco - Rojo
Noir Desir - Tostaky

domenica 31 agosto 2014

Lethal Dosage - Consume

FOR FANS OF: Metalcore/Groove, Caliban, Pantera
The debut offering from Arizona’s Groove-influenced Metalcore band carries on a fine tradition of really bringing the intensity and violence that comes from the modern metal scene. Loaded with tight Groove Metal riffs that really bounce along with pit-ready rhythms and tight patterns filled with the kind of energy that’s made for bashing into your neighbor in the middle of a furious slam-dance battle, this really settles off the influences of these bands quite readily and easily with this really making for a rather intense affair. Pounding along with a tight drumming display that really gets the groove mastered while displaying a rather dexterous affair of double-bass blasts that really adds a lot of intensity to the music, it really furthers the aggressive vibe of the material here. Armed with a steady stream of Metalcore that brings in some minor technicality to the fray without really settling into any kind of showcase wankery at all and tending to use it more to display tight rhythm shifts or pattern variations more than anything else, there’s enough variety here to off-set the angry vibe this carries. Still, the structure of the album does this some harm with it being set so all the best tracks are in the first half with the second half being filled with overlong epics drenched in atmospherics and sprawling tempos against the tighter, more vicious offerings on the first half that really settles in quite well from the onset by being that tight, intense band here. ‘Drink’ sets things off immediately with its blasting drumming, steady grooves and vicious Metalcore rhythms that keep the material charging forth throughout, giving this a rather impressive offering. ‘Black Eye’ follows suit with more breakdowns present but continuous laying down aggressive grooves and more mid-tempo leanings, while ‘Katheter’ displays more of the riffing and variations that made ‘Drink’ so enjoyable. ‘Poor-Man’ continues with the more aggressive and intense approach with some tight grooves and a dynamic second half loaded with more Metalcore rhythms, making this another strong highlight offering. The instrumental ‘Melody’ delivers exactly what is promised, a melodic turn at this style still loaded with grooves and a rather up-tempo vibe that’s quite appealing for a mid-album breather track. The album’s best track, ‘Gods Shall Perish’ weaves the most infectious groove riff on the album into a fiery, up-tempo number with dynamic drumming, tight patterns and boundless energy, really scoring well with this one overall. The overlong ‘Matter of Honor’ is a huge misstep track as there’s very few ways to make an epic-paced song like this without being dragging and boring, which this unfortunately is. ‘Time to Think’ gets things back on track somewhat with more energy and a better sense of pacing with more furious riff-work, but just seems a little underwhelming compared to the tighter, more vicious offerings elsewhere on here. The title track is even better at trying to meld the tight grooves into a longer epic with a little more energy and enthusiasm about it and does a nice job overall. Ending on a sour note is the industrial-tinged bloated epic ‘Sleep’ that carries on for almost ten minutes with sprawling grooves, atmospheric noises and various tempo changes that gives a band a lot of room to work those styles into their music but overall just seems to end this on a whimper. Really, the first half to this really saves it from a lackluster and overlong second half. (Don Anelli)

(Battleground Records - 2014)
Score: 70

https://www.facebook.com/LethalDosageTucson

mercoledì 27 agosto 2014

Patrons of the Rotting Gate - The Path Less Travelled

#PER CHI AMA: Black/Death, Anaal Nathrakh
Il Pozzo dei Dannati prosegue la sua opera di scandaglio negli abissi profondi dell'underground e oggi fa tappa a Belfast, Irlanda del Nord, per conoscere i Patrons of the Rotting Gate, duo formatosi lo scorso anno e costituito da Adam "Arc" Irwin (chitarrista) e Andrew "Manshrew" Millar (tutto il resto), ex membri dei Kiriath. Il duo nord irlandese, abbandonate quasi del tutto le velleità techno death della precedente creatura, si lancia in un sound all'insegna del black metal, quello sinistro e più difficile da definire, perché sporcato da suoni caotici che talvolta sfociano in dimorfismi musicali terrificanti. La consueta intro apre le danze creando sin da subito una palpitante atmosfera orrorifica che sfocerà nella furia distruttiva "Tři Závěti" che mi investe come fosse una violenta tempesta polare. Il black delle linee di chitarra stile sega circolare, si fonde con partiture tipicamente death progressive, in cui ritmiche infuocate si alternano a tempi medi. La parola d'ordine rimane comunque quella di infrangere ogni limite di velocità e per questo ne sono certo, i nostri si beccheranno una bella multa per l'autovelox che li ha visti sfrecciare ben oltre i limiti concessi, quasi a ridosso del grind melodico degli Anaal Nathrakh. Con "Carnassial", l'atmosfera si fa funerea: un po' Aevangelist, ma anche Dodecahedron, la musica del duo infernale si rivela assai scorbutica nella sua paranoica dissonanza. Un growling profondo ci accompagna nella prima metà del brano prima che si infiammi in una cavalcata isterica sostenuta da velocità insostenibili e urla strazianti. "Secrets in the Soil" è il classico pezzo interlocutorio, quello che ci concede l'attimo di respiro prima di affrontare una nuova parete irta di pericoli. "Pride in Descent" è un'altra psicotica traccia all'insegna di un black malato e suonato a velocità ipersoniche che mostra comunque una band a proprio agio in qualsiasi tipo di situazione, da quella più estrema a quelle più ragionate e atmosferiche. La band di Belfast trova il tempo di concedersi il lusso di rallentare il passo e lo fa con "Chest of Light", pezzo black doom dalle tinte fosche e rarefatte. Non cullatevi sugli allori, perché con "Clandestine Fractures" si torna a viaggiare su ritmi sostenuti, in cui tempi sono dettati da una batteria sempre puntuale e che riesce anche ad essere fantasiosa. Con "A Perfect Suicide", i PotRG scrutano ancora gli anfratti più oscuri della loro bellicosa mente, giocando tra situazioni horror doom e altri tempestosi pattern carichi di groove. 'The Rose Coil' non rimarrà certo agli annali per essere un album geniale, tuttavia credo che gli amanti dell'estremo si possano avvicinare senza timore per scoprire quali menti poliedriche si celino dietro al monicker di Patrons of the Rotting Gate. (Francesco Scarci)

(The Path Less Traveled Records - 2013)
Voto: 70

martedì 26 agosto 2014

Doom:Vs - Earthless

#PER CHI AMA: Death Doom, Saturnus
Sono passati parecchi anni da quando recensii 'Aeternum Vale', album di debutto di Johan Ericson e dei suoi Doom:Vs, side project dei doomsters svedesi Draconian. Era il 2006, e il polistrumentista scandinavo si proponeva di esplorare il lato più buio e straziato del proprio animo. Otto anni più tardi, eccoci qui a godere del terzo lavoro del poliedrico musicista, dal semplice ed esplicativo titolo 'Earthless', la perfetta colonna sonora atta a dipingere la natura mortale della condizione umana. Il mastermind nordico questa volta non percorre il suo cammino in solitario, ma è coadiuvato alle vocals da Thomas A.G., vocalist dei Saturnus. Mettete pertanto insieme il talento di due mostri sacri della scena doom malinconica e, fatto banalmente 2+2, otterrete un album di classe che certo non sprizzerà gioia dai suoi solchi, un lavoro all'insegna della disperazione più totale, narrato in sei lunghi pezzi, in cui il death doom di Johan tende in alcuni momenti a travalicare il confine del funeral. Il growling profondo e peculiare di Thomas, unito alle splendide melodie di Johan non possono che garantire un risultato complessivo impeccabile, che vede le sue punte di diamante nella deprimente "A Quietly Forming Collapse", song dalle ritmiche tanto flemmatiche quanto opprimenti, che vive di deliziosi squarci di onnipresente atrabile umor nero, affidato alla sei corde di Mr. Ericson. Inevitabili gli echi che si rifanno ai primissimi My Dying Bride (un must per i fan del genere) nelle linee di chitarra di "The Dead Swan of the Woods", cosi come il raro dualismo vocale tra la catacombale timbrica del bravo vocalist danese e i rari passaggi sussurrati del chitarrista svedese. Ma il mio pezzo preferito alla fine sarà "Oceans of Despair", song dalle movenze delicate, con una certa alternanza a livello vocale, tra growl, clean, sussurrato e urlato, ma sempre contraddistinta da commoventi linee di chitarra. Quella dei Doom:Vs continua ad essere musica emozionale, che vive di pause, scariche elettriche, attimi struggenti e crepuscolari, frangenti che si annidano toccanti il nostro io interiore, luci soffuse, tenebre, chiari e scuri, un moto che entra dentro e non ci lascia più. Ben tornati. (Francesco Scarci)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 80

Dread Sovereign - All Hell's Martyrs

#PER CHI AMA: Doom, primi Cathedral, Candlemass
Continua la mia ricerca estiva di nuove new sensation da poter segnalare ai lettori del Pozzo dei Dannati. Oggi mi soffermo su una band che in pochi minuti è riuscita a catturare la mia attenzione e spingermi alla recensione. Sto parlando dei Dread Sovereign (side project dei Primordial) e alle 10 tracce contenute in 'All Hell's Martyrs'. Dopo un intro in cui mi è sembrato di udire i Pink Floyd (ma forse me lo sono solo sognato), ecco che faccio conoscenza dei nostri con “Thirteen Clergy”, song heavy doom che mostra, come a quasi vent'anni di distanza da 'Tales of Creation' dei Candlemass, sia ancora possibile proporre una forma abbastanza originale del genere. Detto dell'incedere doom dei nostri, mi soffermerei sulla performance del vocalist, Alan Nemtheanga leader dei Primordial, a proprio agio sia su tonalità alte che su quelle medie; notevoli le linee di chitarra a cura di Bones dei Wizards of Firetop Mountain, abile nel costruire atmosfere horror, ma notevole anche in fase di solo. La prova dei Dread Sovereign è già molto convincente e con la successiva “Chtulu Opiate Haze”, prospetta di essere ancora meglio. Le ambientazioni spennellate puzzano di zolfo, con la musica dei nostri che si assesta su tempi medio bassi e che acquisisce una certa epicità grazie a una componente vocale più cattiva che emula quella della band madre, esaltandone il risultato conclusivo. L'incedere è lento, il sound funereo, le chitarre fanno egregiamente il loro lavoro e il disco non può passare inosservato, anzi non deve. Vibranti, emozionanti, magnetici ed epici, ecco poche parole che in breve potrebbero descrivere la musica dei Dread Sovreign. “Pray to the Devil in Man” è un pezzo dal flavour epico che ancora a livello ritmico prende come riferimento i gods irlandesi, con le vocals che si muovono verso lidi d'avanguardia a la Arcturus, alternato a un growl più torbido. Si prosegue con la liturgica “Scourging Iron” e l'ensemble convince sempre di più, con un suono assestato su un mid-tempo, in cui inevitabilmente il ruolo di protagonista è assunto dall'ottimo vocalist irlandese e dalle favolose linee di chitarra che sciorinano riffs da favola (pensate a 'The Ethereal Mirrors' dei Cathedral) e mi inducono a pensare: questo è rock! Non aggiungo altro, inutile soffermarsi anche sulla malinconica e lunghissima “We Wield the Spear of Longinus” o sulla conclusiva title track, altre due gemme di notevole spessore di questo sorprendente lavoro. Da avere! (Francesco Scarci)

(Vàn Records - 2014)
Voto: 80

lunedì 25 agosto 2014

Toolbox Terror – Bind Torture Kill

#PER CHI AMA: Death Metal, Carcass, Six Feet Under
Nella descrizione inviataci assieme al cd, uscito per ASDR Recordings, il gruppo si dice ispirato a band come Cannibal Corpse, Carcass, Aborted e The Black Dahlia Murder, ma niente corrisponde a verità più sacra, salvo che i Toolbox Terror applicano agli stilemi del genere un suono molto caldo, non chirurgico tanto meno gelido, bensì più avvolgente e vagamente vintage anni '90 primi anni 2000 nello stile di Soulfly, The Haunted o Six Feet Under. La band ligure riesce a fondere gli stili vari dei loro beniamini con ottima intensità e tecnica, rilasciando anche quel sapore ribelle nelle composizioni che non guasta mai ed il sound non è necessariamente rivolto sempre e solo al macabro ma spesso sguinzaglia uno spirito iper metallico di tutto rispetto che dal vivo deve essere una vera goduria. Il tiro è esaltante e innalza la band genovese agli altari più sacri del death metal, nonostante certe soluzioni sonore rischino di essere un po' datate, ma un cantante dalle doti notevoli e un chitarrista dal curriculum vitae come quello di Roberto Lucanato (ex Hastur, ex Malombra, Ballo delle Castagne, Egida Aurea, Il Segno del Comando) rendono l'opera super papabile a tutti gli estimatori del genere con esposizioni chitarristiche funamboliche e una batteria mozzafiato. Artwork degenerato nel segno degli ultimi Carcass in puro stile serial killer tra uncini da macellaio, bisturi, seghe circolari e sguardo femminile letteralmente divelto, segno inconfondibile dell'amore che la band osanna verso i film horror degli anni '70 e '80. L'album è godibilissimo senza cadute e mostra una band (nata nel 2007 e con un solo demo alle spalle) molto in forma e agguerrita. Come già detto, in questo loro primo lavoro non abbiamo scoperto nuovi orizzonti sonori che possano far evolvere in qualche maniera il genere ma la qualità di questo album basta e avanza per saziare i nostri palati. Album variegato e potente, death metal di maniera e stile, ottima la produzione e l'esecuzione, semplicemente il miglior incubo uscito da questa magnifica scatola del terrore.. Ottimo disco! (Bob Stoner)

(ASDR Recordings - 2013)
Voto: 75