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sabato 26 luglio 2014

Raum Kingdom - S/t

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, Cult of Luna, Tool, Neurosis
Di solito penso all'estate come il miglior momento dell'anno per spassarsela, uscire con gli amici e andare in vacanza. Viste le pioggie pseudo-tropicali di questa stagione e le temperature autunnali, meglio starsene a casa e godersi della buona musica. Gli irlandesi Raum Kingdom e il loro album omonimo, mi danno ampio conforto in tutto questo, con un EP che ho amato immediatamente, fin dal primo riff imbastito che, li per li, mi ha fatto pensare ai Primordial, ma che nel suo successivo evolversi tortuoso, mi ha concesso di costruirmi mentalmente una mitologica creatura, una sorta di minotauro metà Primordial appunto (per il suono delle chitarre) e metà Neurosis (per l'approccio claustrofobico). Spaventosa solo da immaginarsi, meravigliosa da sentirsi. E cosi quando lenta e sinuosa, "Wound" varca i confini della mia mente e ne odo i suoi riff, avverto una certa sublimazione dei miei sensi. I riff pachidermici, l'atmosfera magica, le vocals profonde rigurgitano immediatamente il meglio della band. "Barren Objects" inizia con un sussurrato del vocalist, e poi rieccoli quei lenti e magici giri di chitarra che a questo punto bollerei come tipici "made in Ireland". La song è pigra a crescere, ma non temete, piano piano, aumenta di intensità e il coinvolgimento con il sound del quartetto Irish diventerà quasi totale, con i nostri che strizzano l'occhiolino ai Cult of Luna ma anche ai Tool, con basse tonalità e vocals che si alternano tra il clean oscuro e il growl. "Cross Reference" è una traccia ambient fatta di insulti vari e "fuck you" prima di "These Open Arms", tripudio di suoni post-metal, lugubri e desolanti. "This Sullen Hope" è ahimé l'ultimo pezzo del cd (un bel digipack dalle tinte oscure): quasi dieci minuti di sonorità melmose e magmatiche, in cui il vocalist si lancia addirittura in acuti simil System of a Down e la musica lenta e inesorabile avanza avvolta da una nebbia impenetrabile. Un pezzo che alla fine dispone i Raum Kingdom come vera sorpresa di questa fresca estate 2014. Un pensierino per un EP come questo è d'obbligo per tutti coloro che amano sonorità post, sludge e alternative: il download è gratuito, ma fossi in voi un minimo sforzo per l'acquisto del cd lo farei ad occhi chiusi. (Francesco Scarci)

Hawkmoth - Calamitas

#PER CHI AMA: Post strumentale, Isis, Pelican
Band come Isis e Pelican hanno grandi meriti, è indubbio, ma anche discrete colpe, se è vero che, da qualche anno, c’è una distesa sconfinata di band che sfornano album di post-metal/stoner/sludge strumentale, che per la gran parte difficilmente reggono la prova del secondo ascolto. Cosa quindi potrebbe mai farmi venire voglia di ascoltarne un altro, l’ennesimo disco post-metal/stoner/sludge strumentale? Saranno forse le scarse aspettative con le quali mi accingo all’ascolto, saranno – piú probabilmente – le qualità di questi quattro ragazzi australiani, ma questo 'Calamitas', alla fine mi sembra un mezzo capolavoro. Già, perchè, pur non inventando nulla di nuovo, gli Hawkmoth hanno quello che serve per fare grande musica, e che manca troppo spesso a tante altre band: sincera passione, tante cose da dire e i mezzi tecnici ed espressivi per farlo nel migliore dei modi. La caratteristica che colpisce immediatamente è l’armonia dell’alternanza tra parti piú riflessive e rarefatte ad altre in cui la potenza si sprigiona in una maniera che sembra inarrestabile. A questo contribuisce non poco una resa sonora fenomenale (e stiamo parlando di un’autoproduzione), in grado di esaltare tanto le sfumature quanto la furia. Succede sempre qualcosa, in queste otto composizioni, qualcosa che non ti aspetteresti ma che, una volta accaduto, ti rendi conto essere esattamente la cosa che avresti voluto accadesse. Merito di uno spettro di influenze vastissimo, che va dallo stoner al noise, dal doom al grunge, dal post rock al metal classico, e merito anche di quattro musicisti di primo livello: come non citare la prestazione mostruosa della sezione ritmica, in grado di tramutare la musica in evento meteorologico, in un tuono che preannuncia temporali da fine del mondo; come non rimanere affascinati dal lavoro di due chitarre che si fronteggiano e interagiscono in modo sorprendente e mai banale. Otto brani per 54 minuti, e l’impressione che non ci sia nulla, nemmeno un secondo, di superfluo. Tutto qui dentro è funzionale alla riuscita del pezzo. Difficile segnalare i pezzi migliori, tanto ognuno ha una sua identità ben precisa e i suoi punti di forza. Potrei citare "Tundra" e "Big Black Birds Circle the Sky", perchè sono tra quelli che meglio trasmettono un’immagine fedele del lavoro intero, nel loro andamento tortuoso, tumultuoso, sorprendente. Lo dico senza nessun dubbio, e dopo aver ascoltato questo disco per settimane intere: gli Hawkmoth sono una grande band, e 'Calamitas' un grande album. Non potete esimervi dall’ascoltarlo. (Mauro Catena)

(Self - 2014)
Voto: 80

https://www.facebook.com/Hawkmoth

lunedì 21 luglio 2014

Splatters - Fear of the Park

#PER CHI AMA: Horror Rock
Oi! Oi! Oi! Queste sono le prime tre parole che mi sono saltate alla testa ascoltando l'album di esordio di questa band lombarda, formatasi nel 2011 e con un demo di 5 canzoni all'attivo. L'ensemble è formato da Drow come voce e seconda chitarra, Alex Damned alla chitarra e cori, Mr. Sprinkle al basso e Paul Destroyer alla batteria. Di loro però parla la musica: come si può già intuire dal titolo, è un gioco di parole che riprende il famosissimo disco degli Iron Maiden, e quella piccola sensazione di disagio che si prova entrando in un luna park (magari scancanato e semi abbandonato): la si sente meravigliosamente nella “Intro”. Pronti per un giro sul rollercoaster? Ottimo, perché ”Killer Clown” è la colonna sonora adatta, così scattante, incisiva e rimembrante il sound più punk/hardcore, con la voce roca e urlata, oltre a dei cori che risulterebbero migliori tenendo le braccia alzate e agitate per aria. Non che ”Welcome to Zombieland” sia tanto diversa, ma qui la differenza è nella sonorità meno spedita e più profonda: giusta proprio per il tunnel degli orrori, o degli specchi. Il ritornello è difficile da non cantare, magari agitandosi per la stanza... Questo potrebbe essere l'incipit adatto per la terza traccia ”Here Come the Monsters”, magari rincorrenti questi audaci (o sconsiderati?) visitatori del luna park in declino, formati magari dagli storici freakshow: la batteria, grazie anche alle note di chitarra ripetute in rapida successione, ricordano facilmente le gambe che scappano e il rumore dei piedi sulla terra, in fuga da questi fenomeni da baraccone. Come se volessero collegarsi al precedente brano, ”Die in a Leather Jacket” sembrerebbe quasi voler ricordare "Die With Your Boots On" degli Iron. ”Hope” si distacca dalla melodia ascoltata finora: addirittura ricorda Alice Cooper con la sua strafamosa “Poison”, anche se gli Splatters si limitano a modificarne il tempo e renderlo più spedito e battuto, mantenendo un profilo più hardcore. “Why Do They Always Die in This Way?” inizia con note di pianoforte, chitarra elettrica e voce grave, ma chiara e limpida. Lasciato trascorrere il minuto (e mezzo) di calma, si torna alla carica con un bel incitamento musicale “Run! Faster than You Can Run!” cantato urlando, mentre la batteria non lascia un attimo di tregua. Ma i peccatori vanno in paradiso? E perché no, con la vertiginosa ed energica “Sinner in Heaven” sembra che possano accedervi, magari con qualche pedata nel fondoschiena, come il motivo lascia intendere... Probabilmente “My Lucky 13” potrebbe essere un plauso, o ringraziamento, a Jason Voorhees per la grande fortuna che ha portato questo infausto numero, o semplicemente un richiamo ad uno dei B-Movie che hanno scandito i grandiosi anni '80. Tornando al nostro luna park infestato, quando i malcapitati si trovano nel labirinto di specchi ritrovano “Minotaury”, da cui è difficile scappare. Si sa che ogni cosa arriva ad una fine: ed è così anche per questo primo lavoro degli Splatters, un viaggio psicotico in un parco divertimenti malefico e invaso da diverse creature. “Dark Way” è la traccia conclusiva, suonata al pianoforte e cantata alla stregua dell'incipit di “Why do...”. Ovviamente le ultime note del piano riprendono quelle dell'intro, creando una specie di vortice da cui è difficile uscire... non puoi scappare dagli incubi. In chiusura, quest'album mi ha letteralmente entusiasmato e ispirato, trovandolo geniale e folle al tempo stesso. Una richiesta: aggiornate il profilo myspace, se volete tenerlo come sito ufficiale; troppo scarno per i miei gusti. (Samantha Pigozzo)

(Atomic Stuff - 2012)
Voto: 80

domenica 20 luglio 2014

Bound by Entrails - The Stars Bode You Farewell

#PER CHI AMA: Black Symph, Emperor, Bal Sagoth
Mi sa che sono parecchio distratto ultimamente: sotto il naso mi passano un sacco di cd, ma non credo di dargli il giusto peso. La band di oggi l'avevo già notata un annetto fa ma solo ora ho realmente prestato il mio orecchio ad un ascolto più attento e cavolo cosa mi sono perso. Con un certo ritardo quindi vi descrivo di 'The Stars Bode You Farewell', album dei Bound by Entrails, uscito nel 2012, che ha visto una marea di consensi positivi nel web (tranne in Italia ovviamente, dove il disco non è stato quasi mai preso in considerazione). La band del Wisconsin ci propina un sound estremo che si dipana vertiginosamente tra il black e il death, offrendo tuttavia anche frammenti che potrebbero essere presi in prestito dall'avantgarde od dal jazz, come accade appunto in "Threshold of Fear", song feroce, ma che propone anche un inedito intermezzo che di metal non ha davvero nulla. La base dei nostri pesca da quei suoni epico-sinfonici da cui sono partite band come Emperor, Borknagar, Limbonic Art o Bal Sagoth, in cui si alternano voci urlate/growl e pulite, e in cui la ritmica martellante di sottofondo è attenuata dalle splendide orchestrazioni. Peccato solo per una produzione non proprio impeccabile, che penalizza notevolmente la qualità dei suoni; ma pure un esuberante utilizzo del drumming conferisce al lavoro una resa sonora talvolta un po' troppo caotica. Tuttavia, l'album si lascia apprezzare offrendo ottimi spunti nella maggior parte dei suoi pezzi. Vorrei citare a tal proposito la vena progressiva di "Swan Song" (particolarmente ruffiana nei confronti degli ultimi Opeth), la malinconica e al contempo feroce "Search for Sunken R'lyeh" o la lunga atmosferica "With Vernal Impunity", che si muove tra un death/black sempre accompagnato da ambientazioni notturne, cariche di un feeling epico, oscuro e spettrale e che vanta peraltro un bellissimo assolo di pianoforte (eccolo qui il mio pezzo preferito). Citazione a parte per i quattordici minuti conclusivi di "Ghost of Our Former Selves", song dall'attacco spiritual-etnico che divamperà in brevissimo tempo in un melting pot di stili, pescando dalla musica estrema ma pure dal progressive d'avanguardia, mostrando comunque le infinite potenzialità di questo ensemble che è giunto addirittura al terzo album, senza che nessuno, nel nostro amato paese, se ne accorgesse. Bound by Entrails, finalmente un nuovo nome, nel desolato panorama black symph, da tenere sott'occhio. (Francesco Scarci)

(Runefire Records - 2012)
Voto: 75

Torrential Downpour - Truth Knowledge Vision

#PER CHI AMA: Math Progressive, Dillinger Escape Plan, Between the Buried and Me
Prima delle mie ferie di agosto e dei suoi consueti Back in Time, meglio darsi da fare per segnalarvi le ultime proposte bollenti di quest'estate un po' timida a venire. Oggi è il turno degli statunitensi Torrential Downpour, quartetto sperimentale che ci offre undici caleidoscopiche tracce che sapranno catturare la vostra attenzione. 'Truth Knowledge Vision' è un album che inganna all'ascolto del suo primo brano, perché sembrerebbe di essere proiettati in una galassia vicina a quella di Devin Townsend. Errato. Quando "TKV", la seconda traccia entra in loop nel vostro cd, vi renderete subito conto che il New Jersey, stato di nascita di questi mattacchioni, dista anni luce dal mondo fatato del folletto canadese (anche se qualche rimando lo si ritroverà nel corso dell'ascolto). I Torrential Downpour ci investono con un sound spaziale, visionario e psicotico, in cui miscelano il math dei Dillinger Escape Plan con il progressive dei Between the Buried and Me, la genialità dei Follow the White Rabbit e la violenza del death, infarcendo il tutto anche con un approccio a la Meshuggah e una stralunata effettistica noisy. Tutto chiaro quindi? Inoltrarsi nel mondo di questi alieni sarà un'esperienza davvero unica: l'arrogante "Satan, Whatever...", la lunga, atmosferica e schizofrenica "Hyperion", la caotica "Basilisk" o la cervellotica e malinconica "The Offering" (la mia song preferita), vi sorprenderanno per tutto il loro armamentario di trovate che consente ai nostri di differenziare la propria proposta dalle altre band di cui sopra. Chitarre ribassate, percussioni tribali, clean vocals che si dipanano tra l'acido e l'isterico, ambientazioni horror, per un album che vanta anche un eccezionale mixering e mastering a cura di Kevin Antreassian (Dillinger Escape Plan) ai Backroom Studio. Torrential Downpour il nuovo nome da segnarvi sulla vostra agenda in quest'estate diventata improvvisamente torrida... (Francesco Scarci) 

(Self - 2014) 
Voto: 80 

sabato 19 luglio 2014

Falloch - This Island, Our Funeral

#PER CHI AMA: Post Rock/Shoegaze, Alcest
Li stavo aspettando al varco da tre anni, li ho anche dati per dispersi ad un certo punto, ma finalmente gli scozzesi Falloch hanno dato seguito al meraviglioso 'Where Distant Spirits Remain' del 2011, con un lavoro nuovo di zecca, che fin dal suo epilogo sembra voler dare una certa continuità al debut album, concentrandosi su sonorità che miscelano amabilmente post rock e shoegaze, il tutto intinto di un tenue folk. Il risultato, come potrete intuire, non è affatto male, anche se devo ammettere che il quartetto di Glasgow ha perso un po' di quella magia e di quel misticismo e folklore che avvolgevano il precedente Lp. Non fraintendetemi però, l'album è godibile in ogni suo momento, dalla lunga opening track, notturna e malinconica alla successiva traccia, in cui le ritmiche sembrano pestare non poco, ma dove a convincermi non troppo è invece la performance vocale, un po' sottotono rispetto al passato, in quanto sembra aver perso parte del suo calore primigenio. La musica riesce a ritagliarsi i suoi consueti spazi acustici e le sue classiche ambientazioni autunnali, affrescando ancora l'etere di quelle immagini tipiche delle verdi colline scozzesi. Una voce femminile fa capolino nella terza song, più che un reale brano, un passaggio verso la lunga quarta traccia. Tiepida, dalle spiccate atmosfere post- nelle sue nervose chitarre, il brano vede affiancarsi alle clean vocals anche delle urla che rappresentano un retaggio della precedente release. L'influenza dei francesi Alcest tiene banco, ma in 'This Island, Our Funeral' è completamente scomparsa quella componente black che ogni tanto divampava in alcuni pezzi di 'Where Distant Spirits Remain'. Non che sia un difetto, ma il feroce turbinio estremo rendeva l'album più dinamico e imprevedibile. Un altro interludio e poi i 10 minuti della traccia numero 6 (non me ne vogliate ma i titoli delle canzoni non ci sono), che per certi versi mi ha ricordato gli ultimi Lingua, quelli prima dello scioglimento, ma anche qualcosa dei A Perfect Circle, segno che la band in questi ultimi tre anni ha subito comunque una certa mutazione/evoluzione musicale, a discapito di quella componente black folk di cui dicevo poc'anzi, dando invece maggior peso a un approccio all'insegna dello shoegaze/alternative rock. Non so dirvi se questo sia bene o male, io li preferivo nella loro veste primordiale, ma 'This Island, Our Funeral' è l'esatta fotografia di quello che i Falloch sono oggi, una validissima band che ha le carte in regola per sfondare e ottenere il successo che merita con un piacevole mix di suoni che strizzano l'occhiolino ai trend più in voga del momento. Ah dimenticavo: la mia song preferita dell'album? L'ultima, quella di cui non vi ho parlato volutamente. 12 minuti da pelle d'oca, per cui vi incito all'ascolto... (Francesco Scarci)

(Candlelight Records - 2014) 
Voto: 80 

Ars Moriendi - La Singuliere Noirceur d'un Astre

#PER CHI AMA: Progressive Black, Avantgarde
Ancora una volta ho peccato di presunzione: pensavo di conoscere praticamente quasi tutto dell'underground e ignoravo ingiustamente gli Ars Moriendi. Trattasi di una one man band in piedi addirittura dal 2001, capitanata da Messieurs Arsonist, originario di Clermont-Ferrand nell'Alvernia. 'La Singuliere Noirceur d'un Astre' è il terzo album per la band transalpina che esce per la label ucraina Archaic Sound, dopo un'infinita serie di demo. Fatte le dovute presentazioni formali, andiamo a vedere che cosa troverete dentro questo cd di 5 pezzi. Si parte con "De l'Intouchable Mort" il cui cantato in francese e le iniziali atmosfere barocche, hanno istintivamente rievocato nella mia mente una band che era finita nel dimenticatoio, i Misanthrope. A differenza di quest'ultimi però, nel sound degli Ars Moriendi c'è una maggior predominanza del black, almeno nelle sue lunghe sfuriate che mantengono tuttavia una buona linea melodica senza mai superare i limiti del buon senso. La traccia dura 10 minuti, nel cui mutevole corso, si alternano le emozioni contrastanti del mastermind occitano: furia black, acustici frangenti ambient, sperimentalismi d'avanguardia che contribuiscono a nutrire la mia curiosità per la band. "Vanité" segue a ruota con i suoi abbondanti otto minuti, dediti a un black metal melodico in cui si possono trovare riferimenti ai primi Alcest, senza tralasciare una vibrante componente space rock (vicina ad alcune cose dei Pink Floyd) che spezza a metà brano l'incedere minaccioso dello stesso, prima che la musica riesploda in un'inebriante epica cavalcata conclusiva. La voce di Arsonist dona poi una decadente poesia all'intero lavoro in quanto non si manifesta con il classico screaming delle band estreme, ma è sofferta, tragica e sussurrata, in una performance davvero convincente. L'album mi prende sempre di più, e la cupa "De Ma Dague..." avvicina la creatura francese alle cose dei teutonici Nocte Abducta e al loro ultimo 'Umbriel'. La nebbia sembra avvolgere, affascinante e misteriosa, la musica degli Ars Moriendi in una lenta e spettrale nenia da brividi. La traccia omonima suona in modo più classico e forse è anche l'esempio più feroce contenuto nell'album, anche se non mancano spunti liturgico-corali, che riferiscono di una genialità latente che non tarderà ad esplodere in un futuro non troppo lontano e a seguire il successo di realtà quali i già citati Alcest, Blut Aus Nord e Deathspell Omega, band ormai di culto dell'eccezionale panorama d'oltralpe. La conclusiva title track apre all'insegna di enigmatici e glaciali suoni prima che a prendere il sopravvento sia il funambolico ed imprevedibile sound del bravo musicista francese. Una bella sorpresa che lascia presagire notevoli sorprese per il domani degli Ars Moriendi. (Francesco Scarci)

(Archaic Sound - 2014)
Voto: 80

venerdì 18 luglio 2014

Navalm - Recovery of Sync

#PER CHI AMA: Techno Brutal Death, Cannibal Corpse, Nile
Quintetto ucraino, i Navalm fanno parte di quell'ondata di gruppi provenienti dall'est Europa che si propone come bacino d'utenza primario per quello che riguarda metal ed affini. Il cd in questione, pubblicato per la Metal Scrap Records nel 2013, ci propone un bel gruppo dedito al death estremo con alcune sortite nel technical death metal (in alcuni punti mi hanno ricordato i Nile). 15 tracce che scorrono via senza intoppi, rispettando i canoni dettati dai capolavori del genere (pescare tra le migliori uscite dei Cannibal Corpse, Napalm Death e Pestilence potrebbe esservi d'aiuto per capire in che lidi sonori ci troviamo); le composizioni sono di buon livello, la preparazione del gruppo è invidiabile e i suoni sono più che sufficienti. Non ho idea di quali siano i trend di missaggio in auge dalle parti dell'ex Unione Sovietica, ma sembra che di un bel filtro “effetto grattuggia” sulle vocals proprio non se ne riesca a fare a meno; in questo caso però il cantante riesce a produrre un growl bello tosto e quindi il filtro serve più che altro come aiuto alla povera ugola del singer, martoriata per 40 minuti. Menzione particolare e i miei più sinceri complimenti alla prestazione della sezione ritmica: batteria e soprattutto basso, fanno un figurone sfoderando una performance di livello primario. Bravissimi. Per quello che riguarda la tracklist, mi sento di consigliare le prime due songs “ Let Others Pray” e “Sign” e la mazzata da poco meno di 2 minuti “Frank Decomposition”; molte tracce hanno una durata inferiore ai 2 minuti, esplicando la marcata attitudine del gruppo a spaccare tutto in tempi brevissimi. Poche decelerazioni, i ritmi si mantengono molto alti per tutta la durata, quando si rallenta lo si fa per poco e per dare spazio a svisate di basso (Steve DiGiorgio docet) mai troppo stucchevoli, ma che anzi, aiutano a rendere più edulcorato un contesto che potrebbe risultare fin troppo aspro. Cresce con gli ascolti “Recovery of Sync” e risulta essere una bella sorpresa; niente di fenomenale, ma finisce per farsi volere bene. E per i Navalm può considerarsi un ottimo risultato. (Claudio Catena)

(Metal Scrap Records - 2013) 
Voto: 65