Cerca nel blog

giovedì 1 dicembre 2011

Red Sky - Tra l'Ombra e l'Anima

#PER CHI AMA: Rock, Metal strumentale
Con il passare del tempo, svariati progetti solisti sono saliti alla ribalta, vuoi per le nuove tecnologie disponibili negli ultimi anni, vuoi per il desiderio insaziabile di partorire un progetto non (ancora) condiviso da altri musicisti. Red Sky è riconducibile al frontman degli Ammonal (Melodic Death Metal Band milanese) e questo "Tra l'Ombra e l'Anima" è un EP strumentale di sei tracce. Ottime oserei dire. Si inizia con "Respira", brevissima intro dall' aria molto ambient che lascia subito spazio a "Chiudi gli Occhi". La chitarra cristallina si snoda con dei bei fraseggi ricchi di semplicità e personalità, mentre l' uso sporadico di doppia grancassa e cambi di ritmo repentini, permettono al pezzo strumentale di non annoiare. La chitarra si ingrossa verso il finale, portando ad un'esplosione prog di pregevole fattura. Passiamo poi a "Il Mio Modo di Dirtelo" dove si conferma lo stile chitarristico precedente, dando così un marchio di fabbrica ai Red Sky che permette di emergere dall'universo rock-metal odierno. Sei minuti abbondanti che fanno da colonna sonora originale ad una love story. "La Luna Bacerà le tue Labbra"  è una ballata che inizia in modo classic-rock ma poi accelera subito rivelandosi un pezzo strumentalmente ineccepibile e che lascia traspirare un velo di tristezza. Il penultimo pezzo, "Giada", rispecchia molto la struttura dei precedenti brani, lo stesso utilizzo di distorsioni, wah e puliti lascia pensare ad una mancanza di originalità, ma invece raggiunge l'obiettivo di concentrare l'attenzione dell'ascoltatore sui riff di chitarra, basso e batteria. Ottimo lavoro. L'outro "E poi, Silenzio" chiude ottimamente questo "Tra l'Ombra e l'Anima", rimarcando la vena di tristezza che corre potente in tutti i pezzi ma che trova sempre un riscatto finale, come un'anima in pena che cerca la sua salvezza. Dopotutto, ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera per potersi esprimere a questo mondo di banale normalità. Nota: Red Sky sembra sempre alla ricerca di validi musicisti per i suoi live, quindi impavidi musicisti, risorgete dalle vostre ceneri e volate nel cielo rosso. Inoltre i live sono caratterizzati da un'estrema cura nei dettagli, con una pennellata naif di arte che non guasta mai. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 80

Coreya - Al silenzio

#PER CHI AMA: Rock, Crossover
Reggio Emilia, patria del liscio e del (quasi) rock italiano, dà i natali ai Coreya, cinque ragazzotti venuti su a tortelli, lambrusco (non lo stesso di Ligabue) e distorsioni. Forse proprio questo mix ha fissato nei loro cromosomi un sound originale, rimanendo comunque nel range del numetal e crossover, riuscendo allo stesso tempo ad unire testi impegnati e difficile da proporre senza cadere nella banalità. Quindi ribellione nella musica ma anche nelle parole, lasciando spazio al vocalist che utilizza al meglio il cantato. Il fatto che la voce sia squillante e ben equilibrata conferisce un tono grintoso ai Coreya. Anche l' influenza voluta o non di Marlene & Co. traspare in certi pezzi, questo rimarca una certa maturità dei Coreya che si distinguono anche per questo. Niente da dire sulla parte strumentale, se non che unisce sonorità tipiche del genera ma fa vedere il pelo sulla stomaco di chi suona per passione e non per fare il figo. Complimenti. Parlando dei pezzi, questo LP inizia con "l'Odio", un concentrato di rabbia non fine a stessa e velocità. Apre il cd ma non la ritengo la miglior traccia. "Mentre mi Perdo" stuzzica già di più il mio orecchio, il brano è vario con differenti cambi di ritmo e un bel grasso riff di chitarra nel finale. Bravi Coreya. Il sesto pezzo è una bella sorpresa, infatti "el Sueno es la Vida" è interamente cantata in spagnolo ed accende in me una piccola nostalgia per i grandi Héroes Del Silencio (se non li conoscete non preoccupatevi, sono io il vecchio). Piccola variante in un album totalmente cantato in italiano (scelta coraggiosa per il genere), ma che risulta pure azzeccata. Nell' ultima "Pari a Uno" esplode tutta la rabbia e cattiveria musicale dei Coreya, bel pezzo da concerto che sottolinea a fine lavoro cosa hanno in testa, anche se passano attraverso ballatone classiche , ma non banali, tipo "Distanze". Ragazzi, siete rimasti sulla buona strada quindi avanti tutta e in bocca al lupo. (Michele Montanari)

domenica 27 novembre 2011

All the Cold - One Year of Cold

#PER CHI AMA: Black, Ambient, Burzum
“One Year of Cold” (letteralmente “Un anno di Freddo”) è una compilation che racchiude i migliori brani del duo di Murmansk costituito da Winter e Nordsjel, contenuti negli innumerevoli split rilasciati in passato. Quel che balza subito all’orecchio sin dall’iniziale “Cast Winter” è l’impronta “Burzumiana” assunta dalla band russa: atmosfere gelide, in cui è il solo vento siberiano a soffiare e pungere il viso; melodie malinconico/depressive, figlie di un underground (quello russo) pullulante di realtà funeral doom; un incedere lento, quasi ipnotico per il ridondante enunciare delle stesse ritmiche quasi a voler ricalcare costantemente uno stato di disagio perenne. Non so esattamente da dove nasca questo malumore di fondo, questo senso di inquietudine che avvolge tutte le band provenienti dall’ex grande Unione Sovietica, so solo che c’è un qualcosa che le accomuna tutte, ossia il rifiuto del mondo che li circonda e che li spinge a vomitare (qui non solo in senso figurato, dovreste sentire la voce del vocalist, nelle sue sporadiche apparizioni) tutto il proprio dissapore, odio e disperazione nei confronti della vita e della società. La seconda traccia vede proprio l’affacciarsi del vocalist nella sua veste dannatamente oscura e malvagia con uno screaming spaventosamente disumano mentre la musica continua ad essere maledettamente atmosferica, melodica e capace di dipingere paesaggi invernali, ma senza montagne o foreste, solo il camminare nella neve ghiacciata in mezzo al nulla, con la sensazione di quel suono ovattato, attutito, quel silenzio in grado di stordire per l’enorme rumore che fa. Ecco le innumerevoli sensazioni che vengono sprigionate da questo “One Year of Cold”, che oltre a descriverle in musica, le narra anche all’interno delle sue liriche. Il senso di disagio contagia anche me, mi aliena da tutto e da tutti, soprattutto nella quarta desolante “New Day Without Me” e nella successiva “Message of Silence Space”, in grado di lasciarmi una profonda sensazione di disperazione al termine dei suoi infinitamente ripetitivi e strazianti lunghissimi minuti (sedici e undici rispettivamente) fatti di suoni ambient, decisamente lugubri e avvilenti. Non c’è luce, non c’è positività, non v’è alcun briciolo di speranza nei nove brani contenuti in questo lavoro; e ciò che affascina maggiormente è che non ci troviamo al cospetto della solita band funeral doom da cui aspettarsi realmente questo genere di sentimento, appesantito solitamente da una ritmica soffocante e pachidermica. Qui gran parte dello spazio è lasciato ai sintetizzatori mortificanti, a quei tocchi di pianoforte tristissimi che lasciano solo segni indelebili nel più profondo dell’anima, ferite che con somma difficoltà si rimargineranno. Sono cresciuto con la musica di Burzum e da poco la sto rivalutando, ma qui siamo al cospetto di due grandissimi artisti che riprendendo le sonorità del conte, rielaborandole con il feeling polare tipico russo, hanno rilasciato una testimonianza meravigliosa della loro genialità; da sottolineare tra l’altro che le ultime due splendide tracce sono inedite bonus track, cariche di un feeling autodistruttivo senza precedenti. Peccato solo che una simile release non possa essere apprezzata da un pubblico numeroso e sia, ahimè, destinata ad un esiguo gruppo di anime dannate che, come il duo Winter & Nordsjel, è tormentato nel corpo e nell’anima. Io lo sono e non posso far altro che celebrare questo lavoro e custodirlo gelosamente nella mia collezione di cd speciali. (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 85
 

sabato 26 novembre 2011

Cut the End - Dawn’s Death to Dusk

#PER CHI AMA: Death/Post Metal, ultimi Entombed, Neurosis
Non appena ho ascoltato la prima traccia di questo cd, me ne sono immediatamente innamorato. “Born From the Earth” apre in modo tiepido, malinconico e dannatamente accattivante, lasciandomi intuire (erroneamente) fin da subito che quello che ho oggi fra le mani è un cd di post rock. Sicuramente si può cadere nella tentazione di una simile definizione durante l’ascolto degli iniziali sei minuti della traccia d’apertura, perché non appena prende il sopravvento il suono roboante delle chitarre e le vocals rabbiose dei due cantanti, il timido sound della band catalana diventa un’ondata di metallo contaminato trasudante rabbia, in grado di mischiare le carte più e più volte nei suoi 43 minuti di musica, distribuiti su cinque brani. Dicevo delle bellissime melodie poste all’inizio del cd, che si trasformano ben presto in una cavalcata apocalittica, in cui converge tutto quanto di buono in ambito post metal è concepito oggi. Come al solito, rimango disorientato quando di fronte mi ritrovo qualcosa di innovativo, perché sono felice di poter credere che nel metal ci sia ancora un sacco di cose da dire e sono certo che gli spagnoli Cut the End rientrino nella schiera di band capaci di sperimentare e stupire, anche con poco, ad essere sinceri. Eh già, perché la successiva “Treason, Pleasure & Pain” sembra più un pezzo degli ultimi Entombed (che centri qualcosa il mastering ai Cutting Room Studios di Stoccolma?), quelli più grooveggianti ma che comunque non disdegnano una certa pesantezza e velocità nelle ritmiche, il growling feroce delle vocals, ma che tuttavia strizzano l’occhiolino a qualcosa anche di più “commerciale” (vi prego passatemi il termine). Il sound del quartetto di Barcellona si fa più soffocante ed oppressivo con la terza “Les Malheurs de la Vertu”, dove a sostenere il tutto c’è un riffing nervoso di chiara matrice svedese death metal, sporcato però nelle sue parti strumentali, da influenze tipicamente statunitensi (stoner/western mi verrebbe da dire). La mia testa viene avvinghiata da un riff di chitarra che si insinua, come una cimice nel corpo, impossibile da identificare, e che quindi mi tiene costantemente compagnia. Nel suo incedere, la song si fa più cerebrale, si condisce di nuovi elementi, talvolta assai psicotici, pescati anche in ambiti più disparati quasi progressivi, tenendo comunque come elemento portante, quella ritmica iniziale selvaggiamente inquietante. Passano i minuti e vengo annichilito dal furente sound dei nostri, che in “The Sound of Fallen Leafs”, danno sfoggio a tutta la rabbia, investendoci con un pezzo tirato di death/hardcore assai tecnico (mostruoso il lavoro alla batteria, assai fantasioso). Siamo quasi giunti alla conclusione di “Dawn’s Death to Dusk” ma ci aspettano ancora i dieci minuti finali di “Expired Shortest Distance”, con i quali i Cut the End, fanno breccia definitivamente nel mio cuore con una miscela condensata di post metal, con il growling che si intreccia con linee pulite di voce, un drumming costantemente preciso e ipnotico, le chitarre alla costante ricerca del riff sperimentale, il riff che si incunea nel nostro cervello e non ci molla più. Sono folgorato, esaltato dalla proposta musicale dei quattro musicisti di Barcellona, che oggi mi hanno dato una bella lezione: la Spagna non è solo calcio, belle donne, spiagge assolate o sangria; oggi c’è una cosa in più: i geniali e selvaggi Cut the End. Post Moderni! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85

Paragon Belial - Nosferathu Sathanis

#PER CHI AMA: Black old school, Marduk, Aura Noir
Svaniti nel nulla più di 10 anni fa, tornano sulle scene i teutonici Paragon Belial, autori di un solo cd di tiratissimo e rozzo black metal, ancora nel lontano 1996, dal titolo “Hordes of the Darklands” e poi di un demo-cd nel 2001, passato pressoché inosservato. Dopo questo lungo silenzio, quello che ci ritroviamo fra le mani oggi, è un disco forse non molto al passo con i tempi, ma che comunque potrebbe fare la gioia degli amanti di questo genere. Il terzetto tedesco sciorina nove tracce di furioso, oscuro e anticristiano black metal, privo di ogni tipo di melodia: una scarica di lava proveniente direttamente dagli inferi, che non ci lascerà tregua. “Nosferathu Sathanis” ci catapulta indietro nel tempo, per quei suoi suoni primordiali, glaciali e grezzi, grazie al suo riffing tipico scandinavo e allo screaming demoniaco di Andras, in grado di risvegliarmi ricordi ormai assopiti e abbandonati nel tempo, come i debut dei mai dimenticati Bathory o Venom. Non siamo certo di fronte ad un capolavoro di arte nera, tuttavia questi forti richiami al passato e l’idea di inserire la cover degli Hellhammer, “Horus/Aggressor”, non fanno altro che rafforzare questa mia impressione. Per chi non avesse la prima release dei nostri, sappiate che le prime mille copie verranno rilasciate in un doppio elegante digipack, contenente anche il loro primo lavoro, che sarà venduto sotto il nome “Dying under the Wings of Satan”. Forti di una buona produzione, i Paragon Belial ci regalano uno squarcio di sano e incontaminato black metal, in una scena ormai priva di spunti interessanti. Coraggiosi. (Francesco Scarci)

(Bloodred Horizon Records)
Voto: 65

http://www.paragonbelial.de/

Le Maschere di Clara - 23

#PER CHI AMA: Rock, Stoner, Psichedelia
Un'altra interessante realtà veronese arriva tra le mie affamate mani e anche questa volta devo dire che la fattura è pregevole. Questo "23" è l' EP di esordio de Le Maschere di Clara e contiene quattro pezzi che anticipano l' uscita del full lenght "Anamorfosi" (già disponibile). Sentire fratello e sorella che si danno battaglia rispettivamente a colpi di basso e violino, arbitrati da una batteria che ha il compito di portare sulla retta via gli eccessi artistici delle anime in pena quali sono Le Maschere di Clara, genera una fusione intima ed esplosiva di rock-stoner e venature prog. I suoni rozzi del basso distorto duellano con un sinuoso violino che non nasconde affatto la sua rabbia tramite riff che non hanno nulla da invidiare alle migliori chitarre dei 70s. Il fatto stesso di distorcere uno strumento così storicamente elegante è un chiaro messaggio di sperimentazione e disobbedienza. L'utilizzo di strumenti come il clavicembalo (o simile) e testi tra la letteratura e la poesia, mantengono Le Maschere di Clara sul filo di lana, tra gruppo spontaneamente alternativo e banalmente di tendenza. Non voglio addentrarmi a descrivere i singoli pezzi, ma mi appello al vostro buon senso e vi chiedo di sentire con mano questo piccola chicca che anticipa (glielo auguro) la pregiata fattura di "Anamorfosi". (Michele Montanari)

(Jestrai)
Voto: 80
 

Raventale - Bringer of Heartsore

#PER CHI AMA: Black Doom, Shining
Ecco che a cadenza quasi annuale, mi ritrovo fra le mani il nuovo lavoro della one man band ucraina Raventale che, guidata dal suo leader Astaroth, continua quel percorso all’insegna del black doom atmosferico, iniziato nel 2006 con “На Хрустальных Качелях” e passato attraverso le recensioni del Pozzo, degli album “Mortal Aspiration” e “After”. Eccomi quindi qui a recensire il quinto album dell’act di Kiev, che conferma quanto di buono fatto fin’ora e anzi ci sembra ormai pronto a fare il grande salto per una etichetta un po’ più “commerciale” della russa BadMoonMan Music. L’album si apre con “Anything is Void”, che ci dà immediatamente prova della bontà della nuova proposta dei Raventale. Non tradendo comunque il proprio passato, Astaroth ci consegna un sound che viaggia costantemente sulla linea a cavallo tra un black atmosferico, con quella tipica vena doom che si arricchisce di qualche sprazzo avantgarde/progressive. Quello che ne viene fuori sono otto tracce, abbastanza lineari, dirette, ma sempre permeate di quel feeling malinconico autunnale, che da sempre contraddistingue la musica del combo ucraino. “Twilight… the Vernal Dusk” mostra il lato più oscuro di Astaroth Merc, influenzato dal periodo di mezzo degli Shining, ma che al suo interno apre anche a quelle sonorità progressive appena citate, grazie ad un lavoro di chitarre assai entusiasmante, sorretto egregiamente dal supporto atmosferico delle tastiere. Il disco, facendo tesoro degli errori del passato, scivola via più facilmente rispetto al suo predecessore, forse vuoi per la durata mai eccessiva dei brani o anche per un’accresciuta semplicità nelle linee di chitarra. È sempre tuttavia piacevole ascoltare quelle tipiche sfuriate black, come nella terza “These Days of Sorrow”, che ancora una volta richiama le epiche cavalcate del buon vecchio Burzum, grazie a quel suo riffing ridondante e stracolmo del tipico feeling glaciale nordico. A differenza di “After”, sembra mancare la componente tipicamente desolante/angosciante del genere ed avere invece più spazio una parte più ariosa, che sembra rifarsi in questo caso a sonorità più prettamente finlandesi (penso agli ultimi Insomnium, ma anche al prog degli ormai defunti Decoryah, che si fondono insieme). Certo non siamo di fronte a qualcosa di unico ed estremamente originale, ma come detto più volte, quel che conta sono le emozioni che la musica dei Raventale è in grado di sprigionare e come sempre devo ammettere di trovarmi di fronte a qualcosa che realmente riesce nel suo intento, ossia scuotere la percezione dei miei sensi. Ben poco spazio è lasciato al cantato di Astaroth, che continua comunque a dimostrarsi eccellente nella sua prova vocale, con una timbrica a cavallo tra screaming/growling che non va mai fuori dal seminato. Ultima segnalazione relativa alle liriche che includono nei suoi testi, parti della poesia di Alexander Blok, uno tra i più grandi poeti russi insieme a Puskin. Ancora una volta Astaroth non tradisce le mie attese, pertanto sarà in grado di soddisfare anche le vostre. Consigliato! (Francesco Scarci)

(BadMoonMan Music)
Voto: 75
 

Absurd Universe - Habeas Corpus

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Slayer, primi Entombed
Una intro inquietante apre il debut album degli olandesi Absurd Universe, intro che cede il passo a “Freedom Less”, song che dichiara immediatamente (e apertamente) la direzione stilistica dei nostri: un classico death metal che mischia, con una certa abilità, sonorità di scuola “slayeriana” con quelle tipiche più oscure scandinave (primi Entombed). Non male vero? In effetti rimango piacevolmente stupito dalla carica distruttiva del quintetto proveniente dalla terra dei tulipani e mi lancio con loro alla scoperta di questo lavoro. Come sempre, quando ci si imbatte in generi che fanno del rigore “morale” il loro credo, si rivela sempre assai difficile uscire dagli schemi e proporre qualcosa di realmente originale. E cosi molto spesso, la recensione di un disco di death risulta alla fine essere un esercizio di puro scarico di adrenalina. “Habeas Corpus”, non è esente da questa situazione, pur proponendo alcune soluzioni, in grado di spingermi ad un ascolto più attento. Di sicuro, quello che balza all’orecchio sin dall’inizio è la profonda densità ritmica, nonché lo spessore tecnico-stilistico dei nostri. Immaginate le nove cavalcate qui contenute, come un pugile che dà dei pugni ben assestati ai fianchi del suo rivale, con una più che discreta velocità, interrotta solamente dal suono del gong. E in quei rari momenti, i nostri rallentano il proprio dinamismo (come nella parte centrale dell’angosciante “Under Command”), forse per prendersi gioco di noi, prima di riaggredirci con una serie di schiaffoni là, nel punto giusto, senza dimenticare quelle belle rasoiate, che ricordano non poco il duo Hanneman/King (“Red Water” o “Boiled by Dead Water” tanto per citare le mie preferite). Non male davvero; alla fine gli Absurd Universe riescono nell’intento di non risultare sterili nella loro proposta, ma anzi di catturare l’attenzione anche del più distratto degli ascoltatori. Gong, fine del match, i tulipani vincono per ko tecnico! (Francesco Scarci)

(Punshment 18 Records)
Voto: 75