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sabato 15 ottobre 2011

Bloodshed - Inhabitants of Dis

#PER CHI AMA: Black Death, Dissection
Se vi piace il black-death svedese e non siete ancora sazi di queste sonorità i Bloodshed fanno per voi! La band proviene appunto dalla Svezia ed ha già all'attivo un mcd pubblicato nel 2001 per la Code666, dal titolo "Skullcrusher", che poneva in evidenza la passione del quintetto per il suono di formazioni quali Merciless e Marduk. Nel debutto "Inhabitants of Dis" le influenze citate sono ancora presenti ma i brani contenuti nel cd respirano di una freschezza compositiva che prende le distanze dalla "monotematicità" delle ultime prove in studio dei Marduk e ricorda maggiormente alcuni passaggi dei Dissection. I Bloodshed non riescono di certo ad eguagliare la classe della storica band svedese e i loro pezzi, oltre ad essere più brutali, sono caratterizzati da una maggiore velocità, ma numerosi sono gli elementi che rimandano alla band di Jon Nödtveidt, come i perfetti cambi di tempo, i riff circolari e cadenzati nelle parti più rallentate e gli sporadici intermezzi di chitarra acustica. A queste caratteristiche si aggiunge un drumming ultra-veloce e preciso che segue il lavoro tagliente e ferino delle chitarre e una voce che passa alternativamente dalle urla arcigne ad un growl soffocato e gutturale. In definitiva, un lavoro non fondamentale ma degno di attenzione. (Roberto Alba)

(Code 666)
Voto: 65

The Denial - Claws

#PER CHI AMA: Death, At the Gates, Hypocrisy
Grande è il vuoto lasciato dai Death, con la morte del suo leader carismatico, Chuck Schuldiner, grande uomo e grande artista. È bello vedere però, che nel mondo il ricordo per quella band e per quei suoni, non si è mai spento e riecheggerà per l’eternità. Innumerevoli anche i tentativi di riprendere quel sound e riproporlo con un minimo di personalità: è la volta dei pugliesi The Denial, che forti di una produzione agli Underground Studios in Svezia (con Pelle Saether dietro la consolle) e di una distribuzione da parte della Season of Mist, rilasciano questo validissimo lavoro, “Claws”. Il combo di Altamura ci regala nove tracce di sano e ispirato death metal di stampo americano, influenzato tuttavia da sonorità swedish, ma non solo: l’ausilio infatti di impercettibili (ma utilissime) tastiere, sulla scia dei primi Fear Factory, rendono il risultato assai godibile e meno banale. Ottima la preparazione tecnica dei musicisti, cosi come pure notevole è il gusto per le melodie che la band produce. Ritmiche incalzanti, ipnotiche e grooveggianti, smuovono band del calibro di Meshuggah o Nocturnus; le chitarre al vetriolo marciano di gran carriera, pesanti al punto giusto e con dinamici assoli. Un plauso speciale va poi alla voce di Giuseppe Falcicchio, che in taluni frangenti cerca di rimembrare quella del buon vecchio Chuck o di John Tardy degli Obituary; comunque Giuseppe mostra grandi doti canore e questo va sottolineato, perché se il risultato di “Claws” è a dir poco positivo, lo si deve anche alla sua performance dietro al microfono. Interessanti infine, le ultime due track dell’album: “Soundtrack of Apocalyptic Visions” è un brano strumentale che viaggia su un mid-tempo melodico, mentre l’ultima “Nanoman” è la cover, ben suonata, dei monumentali Voivod. Sperando in un po’ di fortuna, il destino di questa band, è già scritto… (Francesco Scarci)

(Hurricane Entertainment)
Voto: 80

Exence - Hystrionic

#PER CHI AMA: Thrash/Death, Nevermore, Death, Anacrusis, Atheist
Guardando la il booklet di “Hystrionic” avrei scommesso 100 euro, che quello che avevo fra le mani era un cd di musica progressive... niente di più sbagliato o quasi! Potete ben immaginare la mia sorpresa, quando il genere che usciva dalle casse del mio stereo, in realtà era un thrash/death ultra tecnico e assai incazzato. La gioia maggiore è stata poi nello scoprire che la band in questione è italiana e ci ha impiegato ben 16 mesi di lavoro (dico 16!) per comporre e registrare questo istrionico debutto (tra l’altro registrato ai Not Quiet Studios di Helsingborg, in compagnia di Klas Ideberg e Peter Wildoer dei Darkane). Ho strabuzzato infine gli occhi, leggendo nella biografia della band, che i nostri hanno fatto da supporto ai Cynic. Insomma le carte in regola per fare bene ci sono tutte, bisogna dare ora un ascolto più approfondito al quartetto, guidato dal talentuoso chitarrista dei Vision Divine, Federico Puleri. I 50 minuti di “Hystrionic” si aprono con un pezzo abbastanza convenzionale di thrash metal che richiama vagamente i Nevermore, ma con la voce di Massimiliano Pasciuto (forse unico punto debole della band), stridula e un po’ fastidiosa, La song, dopo questo stentato avvio, prende a poco a poco il volo, deliziandoci con passaggi alla Death e le vocals di Max alla costante ricerca (purtroppo non riuscita) di emulare il buon caro Chuck Schuldiner. Si prosegue con “In Eternal Dynamics”, molto più ritmata ma che comunque dimostra l’ottima tecnica dei nostri e l’amore viscerale per il techno death che trova nella terza “Shaman” il proprio picco, con una serie di assoli dalle forti tinte power-progressive. Accanto agli ottimi solos di Federico, c’è da annotare una ritmica non brillantissima: è forse un po’ da rivedere a livello di suoni di batteria e potenza delle chitarre, sempre e comunque ben affilate. Il disco prosegue attestandosi su un livello medio alto dei brani, che mostrano la vena assai ispirata dell’act italico, passando con estrema disinvoltura da pezzi ispirati ritmicamente ai Pantera ad altri più complicati in pieno stile Death. “In Loving Memory” è un pezzo strumentale che ci dà modo di prendere un attimo il respiro e ripartire poi ancora più forti con la successiva debordante e palesemente “deathiana”, “Primal Mystic Substance”. Peccato, peccato solo per la non convincente prova a livello vocale di Max: se solo si fosse potuto prediligere un cantato più espressivo, il voto sarebbe stato più alto, ma comunque, come debutto non è poi cosi male. Da tenere quindi, costantemente monitorati, perché il capolavoro si nasconde dietro l’angolo. (Francesco Scarci)

(Punishment 18 Records)
Voto: 75
 

mercoledì 12 ottobre 2011

Alverg - Elde

#PER CHI AMA: Black Old School, Immortal
Della serie “a volte ritornano”: la Soulseller Records ha riesumato band scomparse da tempo dal panorama metal. Dopo aver rispolverato alla grande gli svedesi Thornium, ecco ricomparire dall’oltretomba gli sconosciuti norvegesi Alverg, che dopo sei anni dal loro demo di debutto, nel 2009 tornano a calcare la scena, proponendo finalmente il loro debut sulla lunga distanza, dopo un susseguirsi di sfortunate circostanze. La proposta dell’enigmatico duo di Arendal è un inno alla maestosa natura della propria nazione, almeno cosi si evince dalle note biografiche della band, dato che l’intero album è cantato con liriche in lingua madre, comunque ispirate alle montagne, i fiordi e cascate norvegesi. Il sound della band poi riprende il filone old school di metà anni ’90, che aveva in Immortal, In the Woods ed Enslaved, i maggiori esponenti. Peccato che nel sound dei nostri non ci sia un granello di quella genialità che ha caratterizzato le band succitate. Non basta infatti creare pezzi che giocano sull’alternanza tra furia black e mid tempos doom, con le grim vocals di Lóge a decantare tutto il proprio amore per la natura. Neppure le epiche cavalcate in stile Burzum, le malinconiche (e banali) incursioni col piano, l’alone misterioso conferito dalla bassa registrazione (di volume intendo) o le deprimenti distorsioni chitarristiche, riescono a rendere “Elde” un pregevole prodotto; si scade purtroppo più volte nel classico già sentito. Tengo comunque a precisare, che il debut degli Alverg non è che sia brutto, però non è nemmeno questo gran capolavoro: è un lavoro che galleggia sulla sufficienza e niente più, quindi esclusivamente consigliato a chi ha nostalgia per questa tipologia di sonorità. Speriamo di non dover aspettare altri sei anni ora… (Francesco Scarci)

(Soulseller Records)
Voto: 60

We Made God - As We Sleep

#PER CHI AMA: Post Metal, Shoegaze
Li avevamo apprezzati enormemente a inizio estate con il loro nuovo album targato Avantgarde Records, “It’s Getting Colder“; ora quello che ho fra le mani è in realtà il loro primo lavoro che risale al 2008, un six-tracks, che mise in luce fin da subito le enormi potenzialità della band islandese e del particolare post metal, influenzato dalle sonorità di Sigur Ros e deviato da forti richiami shoegaze. Lo si deduce sin dall’iniziale “Gizmo”, song che viaggia sulle stesse coordinate stilistiche dei transalpini Alcest: melodie altamente introspettive, squarciate dal riffing mai troppo violento della band, con le vocals di Magnus sempre lamentose e poste in background. Una chitarra pesantemente malinconica, apre ”Bathwater”, sorretta da un basso pulsante e da un drumming sempre ben bilanciato. Ancora una volta è il lamento di Magnus a prendere le redini della partita, ma questa volta si sdoppia tra uno screaming selvaggio, di chiara matrice hardcore, e titubanti clean vocals, mentre il riffing post punk, seppur si mostri ancora un po’ acerbo, lascia già intravedere la strada, che il quartetto nordico avrebbe preso in futuro. Oscure ambientazioni esaltano il lavoro dei nostri in “Deir Yassin”, la mia song preferita, anche per l’accurato lavoro chitarristico e per l’uso del basso, alla fine vera e propria anima pulsante del sound dei We Made God, come dimostrato anche nell’incipit di “Theory Of Progress”, traccia che poi si dipana tra melodie assai ruvide. Menzione finale per i presunti sedici minuti (in realtà ne dura sei) conclusivi di “The Color”, in cui si notano ancora lacune in fase di canto pulito, ma che comunque incorpora tutte gli aspetti di un ensemble dalle grandi prospettive: linee di chitarra psichedeliche, toni drammatici, un’aura malinconica che ammanta l’intera song. Poi solo silenzio, prima della sorpresa finale, la tanto (anche se un po' scontata) attesa ghost track, un pezzo strumentale che non fa altro che confermare le eccelse qualità dei nostri. Audaci! (Francesco Scarci)

(Maybe Records)
Voto: 70
 

sabato 8 ottobre 2011

Sacratus - The Doomed to Loneliness

#PER CHI AMA: Death/Doom, primi Anathema, Saturnus
Ditemi voi, cosa può racchiudere un album di una band chiamata Sacratus, che nel titolo del proprio album di debutto riporta le parole doom e solitudine e la cui casa discografica si chiama “Disperazione Infinita”? Facile no, funeral doom penserete voi, come ha fatto d’altro canto il sottoscritto ancor prima di infilare il cd nel lettore. Facile cadere in tranelli di questo tipo, perché in realtà la band russa propone un death doom estremamente dinamico (strano a dirsi) ma che comunque, pur cedendo alle scontatissime influenze di My Dying Bride, primi Paradise Lost, ma soprattutto degli Anathema di “The Silent Enigma”, convince inizialmente per la vivacità della propria proposta, pur spingendosi con i propri brani a delle durate al limite del sopportabile (oltre i dieci minuti per brano, per una durata complessiva di settantanove sfiancanti minuti). Affrontare le prime tracce mi è sembrata infatti una passeggiata di salute e immergermi nelle calde melodie di “Blackeyes” o “Interlace”, dove gli echi dei fratelli Cavanagh di metà anni ’90 sono forti più che mai, è stato assai piacevole; mano a mano che si procede con l’ascolto dell’album, s’inizia a sentire la fatica, nemmeno stessimo affrontando il Passo del Mortirolo durante il Giro d’Italia. I toni si fanno più cupi e drammatici, il ritmo rallenta paurosamente, scadendo in riff triti e ritriti all’interno del genere, e provocando un improvviso calo di interesse. Non bastano infatti le tastiere (o qualche effetto) a destare un maggiore interesse nella proposta del quintetto di Cherkessk: “Madness” è aperta da un’intro felina e “Sub Hokhi” da un belligerante incipit, la musica dei Sacratus non convince appieno, complici se volete le lunghe durate dei brani, il cui immediato effetto è quello di skippare al brano successivo, alla ricerca di qualcosa di più accattivante. Certo non mancano alcuni spunti che hanno il marginale ruolo di risollevare le sorti della band russa: alcuni riff effettati di chitarra catturano l’attenzione ma è solo questione di qualche secondo, dopo di che il rischio di distrarsi si fa largo lungo gli infiniti 80 minuti, fino alla conclusiva strumentale “Melancholy”. Un plauso particolare però va alla voce di Serge che muovendosi tra un growling mai troppo pesante, sulla scia dei Cemetary of Scream e qualche episodio clean, contribuisce a salvare un lavoro che forse avrebbe rischiato una forte stroncatura. Per ora il consiglio è di lavorare duramente per prendere le distanze dalle vecchie glorie del passato ed acquisire una propria definita identità. Non vorrei mai che il death doom, da fenomeno dell’anno possa diventare la rottura di palle dell’anno, mi dispiacerebbe molto, perché è un genere che ha ancora un sacco di cose da dire. Esortando i nostri a dare di più, rimango curioso e in attesa di ascoltare il nuovo cd. (Francesco Scarci)

(Endless Desperation)
Voto: 65

venerdì 7 ottobre 2011

Blank - Overhead

#PER CHI AMA: Future Pop, EBM
E' ormai da diversi anni che sento circolare il nome Blank e probabilmente anche per molti fan e addetti ai lavori il duo parmense non risulterà affatto sconosciuto. Dopo aver raccolto consensi più che positivi nei circuiti electro underground, per Riccardo Mattioli (aka Der Mate) e Davide Mazza (aka The Maze) era logico attendersi il salto di qualità e sarebbe parso strano se ciò non fosse accaduto, vista la bontà dei due promo autoprodotti "424C414E4B" e "Brain Trigger" che la band era riuscita a diffondere dal proprio sito ufficiale grazie a centinaia di download. Agli inizi del 2003 i Blank siglano dunque un contratto di tre album con l'etichetta canadese Artooffact Records e giungono in questo modo alla tanto sospirata firma che, sono sicuro, permetterà loro di imporsi come una realtà decisamente competitiva e di affiancarsi ai nomi più importanti della scena EBM internazionale. "Overhead" è solo il primo passo in questa direzione, un singolo che anticipa di qualche mese l'uscita del primo full-length dal titolo "Artificial Breathing". I Blank non sono gli Assemblage 23 e nemmeno gli Icon of Coil, ma dell'una e dell'altra band hanno evidentemente assorbito il piglio melodico e la forte componente danzabile, caratteristiche che vanno ad inserirsi in un costrutto sonoro variegato e trascinante. Riferendosi ai Blank, qualcuno vi parlerà di future-pop, ma trovo che la radice compositiva dei duo sia più inquadrabile nella complessità ritmica dell'EBM e debba quindi pagare minor dazio alle correnti spensierate e talvolta mielose di certa musica da dancefloor. Il mcd è composto dal brano "Event Horizon" e il singolo "Overhead", presente nella versione "extended dance mix" e nei remix di Implant, Moonitor e Tim Schuldt (!): il materiale è perciò ancora poco per parlare della "rivelazione EBM italiana", ad ogni modo ho voglia di sbilanciarmi in termini entusiastici, perché quello che si può ascoltare su "Overhead" promette dannatamente bene e carica di aspettative per il full lenght. (Roberto Alba)

(Artoffact)
Voto: 75

Winterdome - Weltendämmerung

#PER CHI AMA: Viking, Folk, Epic Pagan
Il vento che soffia sul mare, un rumore di barca che cerca di solcare le onde, una voce che inizia a raccontare: così si apre Weltendämmerung, il secondo lavoro della band di Hannover. Prima di parlare dell’album, è meglio fare una piccola introduzione dell’ensemble. I Winterdome si sono formati nel 1996 in Sassonia e al momento ha prodotto solo due album: “Moravian – or a Gods’ dawn”, un EP formato da 4 tracce rilasciato nel 1997 e quest’ultimo, uscito nel 2006. La peculiarità di questa release è che si tratta di un’opera d’arte: alterna brani narrati, con tanto di sottofondo per rendere più realistico il racconto di una terra lontana, a brani ricchi di sonorità sintetizzate e molto malinconici. Come presentato sul loro sito ufficiale, le sonorità gothic metal incontrano il “medieval rock” (ricordiamo anche che hanno aperto i concerti degli In Extremo). Il brano che apre il disco è totalmente narrato: sebbene la lingua usata sia il tedesco, ciò non toglie musicalità, anzi, accentua la storia epica e le gesta di un popolo che addirittura crea una propria religione e una propria lingua. Ascoltando la traccia che dà il titolo al concept-album, si può sentire come il cantante faccia largo uso del growl, che associato a suoni più campionati e chitarre distorte, trasmette un profondo senso di malinconia. L’impostazione della tracklist vede un brano (raccontato da Bernd Seestaedt) che si alterna ad uno cantato/suonato, in cui prima viene spiegata la storia e poi cantate le gesta di Ashaj, il protagonista principale. Degna di nota è "Land der Nacht", che si avvale anche di violini: l’atmosfera medievale è preponderante, mitica. Violini che ritroveremo anche in "Die Elasaj", accompagnati dalla voce dolce e melodiosa della violinista Lisa Hinnersmann, in totale contrapposizione a quella grave e ruvida di Henrik Warschau. Il senso di malinconia nominato precedentemente, irrompe nel leit-motiv di "Ein Letztes Mal": sebbene la parte cantata assomigli più ad una litania, l’apporto vocale di Lisa, aiuta a sopportare di più questa parentesi melodica. Anche i violini, nel ritornello, contribuiscono a mantenere l’aria malinconica assieme al ritmo cadenzato e lento. In "Flammentanz" le atmosfere medievali ritornano, grazie soprattutto agli archi e all’arpa: oltre a chitarre e batteria appena accennate, tutto il brano sembra proiettare l’ascoltatore in una fiera contadina, come sempre accompagnato dal racconto fantastico sulle vicissitudini del protagonista (a metà tra cantato e raccontato). Degno di nota è un assolo di chitarra elettrica, molto convincente. Il ritmo cambia in "Leid und Qual": velocità, cattiveria e chitarre incalzanti fanno da leitmotiv del brano. Le tastiere sono suonate in modo da accentuare una sensazione di ansia ed inquietudine, rendendo il tutto una delle canzoni migliori dell’album. Nel caso tutta questa velocità non piacesse, ma si volesse un ritmo più rallentato, "… Wenn das Ende Naht" è la traccia adatta. Grazie anche ai violini, il suono risulta quasi pesante e più indicata per qualche cerimonia funebre. Questo album svela, ad ogni traccia, nuove sonorità: in "Der Hoffnung-Tod" (oltre ai sopraccitati violini e chitarre elettriche) i cori femminili si aggiungono alla voce roca di Warschau, dando così una piccola impronta lirica, che non guasta affatto. Si arriva alla fine di quest’opera “quasi magna” con "Ein Stiller Schrei", che sembra più composta per una sezione di archi piuttosto che di chitarre: persino la parte cantata si adatta alla melodia dei violini, quasi a volere chiudere con una forte nota malinconica. Di buono c’è la scelta di alternare racconto epico/fantastico ad un metal con più sfaccettature; di meno buono la scelta di usare il tedesco nelle liriche: non tutti sono in grado di svelarne i contenuti, sentendosi così meno coinvolti in questa storia che, nonostante sia inventata, risulterà anche per voi, sicuramente raccontata con passione. (Samantha Pigozzo)

(Massacre Records)
Voto: 80