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domenica 17 luglio 2016

The Charles Ingalls - S/t

#PER CHI AMA: Stoner Rock
Ecco ciò che questo quartetto francese originario di Chamesol, riporta per descrivere se stesso e la propria musica: "I The Charles Ingalls (chissà se il moniker fa riferimento ad uno dei protagonisti de "La Casa nella Prateria" ndr) sono una band proveniente dalla Francia orientale, ai confine con la Svizzera, persa tra i boschi e i monti nebbiosi, una terra di boscaioli coraggiosi. Il nostro "woodrock" è influenzato da Black Sabbath e dall’heavy metal di fine anni 70”. Mi verrebbe di chiudere qui la recensione, perché c’è davvero ben poco altro da dire su un EP di quattro brani e 17 minuti di durata in cui i transalpini fanno la loro cosa esattamente come te la aspetteresti avendo letto la definizione qui sopra. Tanto cuore, tanta passione, come traspare anche dall’artwork curato e da un aspetto da cui cui si intuisce che non siano esattamente di primo pelo, e una devozione sincera per i modelli di riferimento, ma non molto di più. Il loro è uno stoner saturo e pestone di grana piuttosto grosso che nulla aggiunge al genere e a quanto detto mille altre volte e mille volte meglio da tante altre band in giro per il mondo. Detto questo, è innegabile che i brani siano in fondo piacevoli coacervi di stereotipi rock'n'roll (di Sabbath ce ne sono pochini, giusto nello pseudo doom di, appunto, "Thulsa Doom") che possono divertire e intrattenere senza offendere le orecchie, e che probabilmente la dimensione migliore per apprezzarli è quella live. Troppo poco per ora per dare un giudizio che non sia per forza di cose parziale, la sufficienza se la sono comunque guadagnata e pure un qualcosa di più, di incoraggiamento, per la simpatia e la passione. (Mauro Catena)

At the Graves - Cold and True

#PER CHI AMA: Post Rock/Metal, Solstafir, The Black Heart Rebellion, Neurosis
Inizierei col chiarire che la band del Maryland di oggi non va confusa con l'omonimo ensemble dedito ad un melo death ma proveniente dalla Pennsylvania. Ben Price, la mente, il factotum che si cela dietro agli At the Graves, suona infatti uno sludge/post rock contaminato assai accattivante, ricco in termini di groove e carico di una forte componente emotiva. 'Cold and True' è il secondo album (il primo in cui Ben si cimenta completamente da solo in tutti gli strumenti) dopo 'Solar' datato 2012; in mezzo e prima, una sfilza di ben cinque EP. Veniamo comunque a questo nuovo capitolo della discografia della one man band di Arnold, che ci viene introdotto dalla delicata vena melodica di "Viscous State" che sottolinea quelli che sono i capisaldi dell'At the Graves sound: sognanti atmosfere post rock che poggiano su di una ritmica post metal di scuola Cult of Luna in una versione più meditabonda, per un risultato in grado di stamparsi nella mia testa con una certa facilità, grazie a delle soffuse linee di chitarra che facilitano non poco l'approccio alla musica dell'artista statunitense. Con "Fulgor" le cose non cambiano e lo stile, ricercato, colpisce sicuramente per l'immediatezza della proposta, qui resa ancor più onirica e protesa a dare ampio respiro alla componente strumentale, con un'eleganza di fondo impostata dai delicati tocchi alla sei corde di Ben (peraltro vocalist caleidoscopico ed assai originale) e da un drumming fantasioso costantemente in primo piano. Il disco (o se preferite la cassetta, fate pure la vostra scelta) prosegue dilettandosi tra le lugubri, distorte e tribali melodie di "Between Two Thirds", che potreste immaginare come una danza sciamanicadi una tribù indiana attorno al fuoco, con i sensi che lentamente abbandonano la realtà. Il colpo di grazia viene inferto però dalla successiva "Repress I", che contribuisce, nonostante la sua brevità, a palesare le visioni lisergiche del bravo Ben. "Shimmer" continua nella sua opera di destrutturazione del sound degli At the Graves, con alcuni frangenti che strizzano l'occhiolino addirittura al grunge rock, pur mantenendo un'atmosfera decisamente noir che comunque, attraverso la mutevole voce di Ben, ha modo di spaziare all'interno di più generi, tutti caratterizzati da una profonda dose di emotività. La title track potrebbe essere assimilabile ad una versione più nera dei Neurosis, seppur mantenga i contorni delicati del post rock e incanti per la distorsione delle sue linee di basso, il suo essere ridondante e per le corde vocali di Ben, qui bagnate di whisky, che chiamano in causa gli islandesi Solstafir. Lentamente arriviamo alla conclusione di questo spettrale lavoro: "As a Dirt" ha il compito di trasmettere le ultime malinconiche note di dolore di 'Cold and True' e direi che assolve pienamente al suo compito. Un'altra band nel frattempo mi è venuta in mente mentre ascoltavo e riascoltavo questo disco: i belgi The Black Heart Rebellion nel loro capolavoro 'Har Nevo' e la definizione che inquadrava quell'album, blues apocalittico, che ben calzerebbe anche per gli At the Graves. Insomma, 'Cold and True' è un riuscitissimo lavoro di sperimentazione sonora in cui convogliano un sacco di influenze e idee stravaganti, per cui sarebbe davvero un peccato negare la vostra attenzione. (Francesco Scarci)

(Self - 2016)
Voto: 80

venerdì 15 luglio 2016

Mallory - Sonora R.F. Part 1

#PER CHI AMA: Rock/Grunge/Blues
Avevamo lasciato i Mallory a marzo dello scorso anno, quando il quartetto parigino ci aveva fatto pervenire il precedente lavoro '2'. Oggi abbiamo tra le mani il nuovo 'Sonora R.F. Part 1' e devo dire che è già qualche settimana che gira in loop nella mia auto, il posto migliore per godere appieno dei Mallory e della loro musica on the road. La band era matura allora e un altro passo in avanti è stato fatto con quest'album, mantenendo quel loro mix personale di rock, grunge e blues. Ad un primo ascolto, le atmosfere sembrano essersi incupite ulteriormente, in realtà molte tracce hanno un'alta capacità introspettiva, unita ad una malinconica dose di rabbia, come in "On The Shelf". Dopo un'intro parlata in castigliano, le chitarre si sporcano di polvere, la ritmica lenta tiene le redini, ma non cela perfettamente quella collera mascherata da tristezza ed accidia. Una ballata grunge come non si sentiva da anni, interpretata perfettamente dal vocalist, a cui dobbiamo riconoscere una timbrica pressoché perfetta. In "Zero" scatta qualcosa nei Mallory che ora cantano in francese, mentre le melodie di basso e chitarra si fanno nervose grazie alla batteria che scandisce accenti come un profeta inascoltato. Il crescendo non si fa attendere, ottima l'esplosione che non necessita di distorsioni estreme e si affida ad un unisono di suoni ed esecuzione. La scelta della lingua francese potrebbe rivelarsi rischiosa, tuttavia è stato fatto un ottimo studio delle metriche che qui calzano a pennello. Rimane solo il dubbio che il testo non sia uscito così spontaneamente, comunque onore ai Mallory. In "Shu", l'influenza dei vecchi Pearl Jam si fa sentire, ma la band riesce a tirar fuori qualcosa di buono da un semplice classico giro armonico. Consapevoli di ciò, il quartetto ha finito egregiamente i compiti per casa in termini di suoni (difficile non riconoscere la timbrica del single-coil della Fender) accostata ad un'interpretazione che esprime al meglio lo struggimento di una generazione che va per i quaranta ma si sente ancora tradita da una società in cui non si rispecchia. Anche "Silex" segue il medesimo filone e si incastra perfettamente nelle note di questo 'Sonora R.F. Part 1' che probabilmente è stato pensato e suonato nell'ottica di un concept album. I suoni ruvidi ma curati di chitarra si abbinano perfettamente alla timbrica vellutata del basso, a creare un ipotetico amplesso sessuale coronato dalla voce sempre graffiante del frontman con le ritmiche che si rivelano semplici e variopinte. Il gran equilibrio dei Mallory sta nel regalare un'accelerazione nel momento giusto in cui la si desidera, lo stesso vale quando i nostri decidono di abbassare i toni per dare maggior risalto al cantato o alle melodie intimistiche, che svolgono un ruolo importante nel tessuto sonoro dell'act transalpino. Un gran bell'album, forse non una vera evoluzione verso un obiettivo ben definito, ma un'altra tappa sulla loro personale mappa che ha bordi sfuocati come quelli di una vecchia foto. A dimostrazione che abbia più importanza il viaggio che la meta, siamo felici di seguire i Mallory e portare la loro bella colonna sonora nella nostra vita di tutti i giorni. Che tu abbia venti, quaranta o sessant'anni... (Michele Montanari)

giovedì 14 luglio 2016

Slaughtbbath/III Omen - Pestilential Hierophanies

#PER CHI AMA: Black/Death/Doom/Thrash
Estate 2016, ma per le nostre due band di oggi, si tratta in realtà di inverno, visto che entrambe provengono dall'emisfero australe: gli Slaughtbbath dal Cile e i III Omen dall'Australia, per uno split 7" all'insegna della violenza targata Iron Bonehead Productions. Tocca alla band del Nuovo Galles del Sud aprire il side A del dischetto con "Whited, Pestilent Sepulchre...", lunga song mortifera di oltre otto minuti, fatta di chitarre minimaliste suonate a rallentatore e screaming vocals poste delicatamente in sottofondo a questa litania infernale, che trova modo di esplodere solamente nella sua seconda parte, grazie ad una ritmica serrata, di cui sottolineerei l'affilatissimo rifferama e un chorus epico che mi ha ricondotto ad un che dei primi Arcturus. Niente male affatto, anche se un po' troppo cacofonici in taluni frangenti. Un riffing più pesante e palesemente old school (come da tradizione sud americana) apre invece il side B del disco, quello occupato dagli Slaughtbbath e dalla loro "Inverted Hierophany", una song inizialmente mid-tempo di death metal classico, che ha da offrire tutti i cliché del genere: growling vocals, killer riff e giusto un pizzico di melodia ma che si contraddistingue per un bel finale in crescendo di intensità e brutalità. Un interessante 7" per poter conoscere due nuove band e la loro musica diabolica. (Francesco Scarci)

martedì 12 luglio 2016

Toska - S/t

#PER CHI AMA: Black Epic, Windir, Melechesh, Enslaved
Partiamo da un assunto che potrebbe influenzare questa mia recensione sin dall'inizio: amo l'Islanda, come luogo, come storia, come attitudine, come popolo, ancor di più dopo le ultime vicende calcistiche degli Europei di Calcio. L'Islanda ha stupito tutti, non solo per l'exploit della sua nazionale ma per quella spinta emozionale della loro gente, espressa attraverso l'ormai celebre, e ahimè copiato, "geyser sound". Avrete pertanto intuito che la band di cui andrò a parlare arriva proprio dalla terra dei vulcani, celebre soprattutto per quell'esplosione di Eyjafjöll nel 2010 che investì dapprima l'isola nordica e poi l'intera Europa, con le sue nubi di cenere. I Toska arrivano da quel luogo primordiale, magico aggiungerei io, coperto di ghiaccio e nel cui interno invece ribolle lava. Le analogie tra la musica del combo islandese e la propria terra si sprecano lungo le sette tracce di questo vibrante EP. Una breve intro e poi ecco le palpitanti melodie e scorribande sonore di "Night I - Algid Gales", tre minuti di incandescenti ritmiche tra funambolici suoni black e parti folkloriche. Il disco potrebbe essere assimilabile ad un'unica traccia che prosegue con "Night II - Throbbing Tumulus" e le sue serrate ritmiche punkeggianti, tra misteriche vocals in background, deflagrazioni disarmoniche che però ben si amalgamano nel sound schizofrenico dei Toska, in un condensato sonoro che rievoca lo spettro dei Windir, lo sublima con influenze alla Melechesh, lo estremizza con le nuove forme di post black americano e lo arricchisce con il sound pagano dei conterranei Árstíðir Lífsins, in un lavoro quasi unico. Gli amanti di sonorità black sperimentali, si faranno deliziare dalle chitarre di "Night III - Iced Spectres" e dalle sue parti atmosferiche che collidono con aperture di furia vertiginosa. Un temporale in lontananza echeggia nella quinta ambientale "Spirits Of The Winter Moon" che preannuncia lo scatenarsi degli agenti atmosferici in "Night IV - The Howling Descent", song dotata di un aura primordiale che si manifesta nelle nevrotiche ritmiche, nella ferocia dei suoi arrangiamenti e nella struggente malinconia delle sue melodie ataviche. L'ultima "Notte" è affidata alla maestosa epicità di "Night V - Blizzard Tales" e al suo piglio battagliero che sfocia dapprima in una cacofonia musicale che si altalena fra parti più atmosferiche (in stile Fleurety) e nuove ondate di flusso magmatico. Un'ultima curiosità: le liriche si ispirano al poeta e drammaturgo polacco Tadeusz Miciński, tra i precursori dell'espressionismo e surrealismo in Polonia. Pericolosi. (Francesco Scarci)

(Eihwaz Recordings - 2016)
Voto: 80

https://toskabm.bandcamp.com/album/toska-2

(EchO) - Head First Into Shadow

#PER CHI AMA: Death/Doom/Progressive, Swallow the Sun
Cinque anni di silenzi. Il vecchio vocalist che ha lasciato. Non era semplice rimettersi in carreggiata, ricominciare daccapo e dare un seguito a quel 'Devoid of Illusions' che ben mi aveva impressionato nel 2011. I bresciani (EchO) non si sono demoralizzati anzi, si sono rimboccati le maniche, forti di quella consapevolezza, che da sempre li contraddistingue, di potercela fare. Arruolato Fabio Urietti alla voce, coperti alle spalle dal lavoro di Greg Chandler alla consolle e coadiuvati da due ospiti d'eccezione come Daniel Droste, chitarra e voce dei teutonici Ahab e Jani Ala-Hukkala, vocalist dei finlandesi Callisto, i nostri sono tornati sulla scena, con un attesissimo secondo cd, 'Head First Into Shadow'. Sei lunghissime tracce, che si presentano con la decadente (e progressiva) melodia di "Blood and Skin", in cui fa il suo positivo esordio dietro al microfono, il bravo Fabio, inizialmente in una timida veste pulita, poi anche in growl. Le chitarre, inserite nel consueto contesto atmosferico, tracciano linee malinconiche nella più pura tradizione death doom, chiamando in causa alternativamente Saturnus e soprattutto gli ultimi Swallow the Sun. Ma è la sezione solistica a colpirmi di più, con un ispirato assolo conclusivo. "This Place We Used To Call Home" apre assai rilassata grazie alle clean vocals del frontman (forse un po' in difficoltà sulle timbriche più elevate) che da li a breve, cederanno ad un impulso di rabbia e frenesia, che per alcuni attimi porterà ad inasprire i toni. La traccia trova però il modo di placare il proprio iracondo spirito e continuare a dipingere affreschi di rock progressivo dai tratti eterei, enfatizzato anche da un assolo acustico posto poco oltre la metà del brano e da un break onirico verso il finale. C'è da sottolineare una certa dinamicità di fondo ascoltando questa prima manciata di pezzi degli (EchO), il che è senza dubbio positivo. In "Beneath This Lake" fa la comparsa il primo ospite del disco, il buon Daniel degli Ahab, ad impreziosire la proposta del sestetto lombardo: l'incipit è dapprima robusto per poi divenire delicato e sognante (i rimandi ad atmosfere "pink floydiane" si sprecano), poi le chitarre appesantiscono il proprio mood, ma sembra che la nuova direzione intrapresa dai nostri, privilegi maggiormente i frangenti più atmosferici, pur non mancando le improvvise accelerazioni. Tuttavia le novità per gli (EchO) non si fermano qui, visto che una serie di artefatti elettronici si accompagna con un rifferama di meshugghiana memoria in un lisergico finale del tutto inaspettato. È il turno di "Gone", che segna la partecipazione del secondo ospite in una lunghissima traccia, che vede sicuramente i nostri alzare l'asticella, complici anche nuove fonti di ispirazioni convergenti in questo nuovo disco: non solo i paladini del death doom (in questo caso direi 'The Silent Enigma' degli Anathema), ma anche, in molteplici sfaccettature, gli ultimi Opeth, i Katatonia, i Porcupine Tree, le ultime performance dei nostrani Plateau Sigma (soprattutto nella successiva "A New Maze", dove la voce di Fabio va nuovamente in sofferenza nelle alte frequenze), senza dimenticare gli stessi Callisto del bravo Jani. Gli (EchO) stanno maturando di giorno in giorno sempre di più, sebbene partissero già da una base piuttosto elevata. In chiusura, "Order of the Nightshade" si presenta non priva di ambientazioni decadenti, suoni suadenti e malinconici, rapiti da fughe rabbiose, che mettono in luce il compartimento ritmico di primissimo livello dei nostri. Non era lecito aspettarsi oltre da questo nuovo platter, che segnerà forse un nuovo punto di partenza per questa ambiziosa band italiana. (Francesco Scarci)

Nile - Annihilation of the Wicked

BACK IN TIME:
#PER CHI AMA: Techno Death
La Relapse Records da sempre fa grandi cose, ma nel 2005 si fece portavoce del ritorno sulla scena degli High on Fire e dei Cephalic Carnage tra gli altri, senza scordare gli statunitensi Nile. Un ritorno sulle scene ancor più terremotante, rispetto al precedente 'In Their Darkened Shrines', grazie ad una produzione eccellente ad opera di Neil Kernon (Queensryche, Nevermore). L'album vide in primis l’ingresso in formazione del bassista Jon Payne, appena diciannovenne e qualche altra novità: il fantomatico “Egyptian Death Metal”, tipico della band, fu infatti relegato in secondo piano, lasciando il posto ad un death metal sontuoso. Siamo di fronte a dei veri mostri di tecnica, capaci di torturare i loro strumenti e farne scaturire un sound permeato di una malvagità senza eguali, un robusto tritabudelle, feroce e brutale. Gli echi orientaleggianti, come dicevo, sono quasi inesistenti, si possono individuare in qualche assolo, sempre fantasioso e selvaggio, e nell’arpeggio iniziale di “User-Maat-Re”. L’abilità della band, oltre ad offrire un ottimo songwriting, fu nel combinare alla perfezione, il putiferio sonoro, suonato sempre con classe estrema, a momenti atmosferici, che riportano con la mente sulle tranquille acque del Nilo, dove cinquemila anni fa sorgeva l’antica civiltà egizia. Ottimo come sempre, il growling efferato di Karl Sanders, capace di rievocare antichi riti pagani; spaventoso poi il supporto ritmico, grazie ad una batteria potente e precisa, che fa largo uso di blast-beat; le chitarre si esibiscono in riff violentissimi e serrati, ma sono abili nel passare da momenti “schiacciasassi” a passaggi distorti più doom-oriented. Spero di avervi convinto che l’album in questione, è quanto di meglio prodotto dall'ensemble statunitense, un lavoro che prese e prende tutt'ora a calci nei fondelli ogni altra band in ambito estremo. Nile...”L’annientamento del male”. (Francesco Scarci)

(Relapse Records - 2005)
Voto: 85

https://www.facebook.com/nilecatacombs

lunedì 11 luglio 2016

Vita Museum – Frozen Limbo Zero

#PER CHI AMA: Alternative/Electro Rock/Gothic/Indie
Con un artwork sinistro e alquanto gotico, si presenta egregiamente al pubblico questo quartetto italo-britannico di base a Londra che, formatosi nel recente 2014, senza perdere tanto tempo e cavalcando l'onda della creatività più immediata, nel 2015 ha fatto uscire il suo primo lavoro, distribuito dalla visionaria Sliptrick Records. Stravagante e contraddittorio sono i due termini che potrebbero definire questo 'Frozen Limbo Zero' a cui aggiungerei anche astuto e coraggioso. In realtà la band sa perfettamente dove andare con la propria arte anche se lo fa in tutte le direzioni musicali possibili, pur di farsi notare. Diciamo che al primo ascolto, si rimane leggermente disorientati dal sound del quartetto che non si riesce bene a mettere a fuoco, inquadrandolo in un genere ben definito. Fin da subito però, si ha l'idea di aver a che fare con una musica ricercata, piena di ambiguità e assai creativa. Non è un tabù per questa band parlare di glam rock moderno, in sintonia con i migliori Sixx:A.M., con quel sound carico di pop ma pur sempre legato all'hard rock tossico e malato quanto lo poteva essere Marilyn Manson ai tempi di "Sweet Dreams", irradiato dal nu metal tecnologico dei Linkin Park, da soluzioni elettroniche di certe frange più morbide dell'EBM e del rock trendy dei 30 Seconds to Mars. Un mix di generi rivisitati da un'angolatura spigolosa e alternativa come lo è ad esempio la musica dance punk dei Death From Above 1979. "Somebody to Destroy" è il singolo perfetto corroborato da un video immerso in un'ambigua oscurità che inganna e attrae la vista dell'ascoltatore, una musica pop dal ritornello rock carico di groove che ammicca alla gettonata "Souljacker" degli Eels ma che potrebbe essere un brano dei T-Rex passato tra gli acidi dei Primal Scream di 'Riot City Blues' o tra il rock elettronico dei Manic Street Preachers di 'Futurology'. Il brano "Alive" macina i contesti musicali dei Paradise Lost, epoca 'One Second', in una veste elettro wave alla IAMX, scatenando la mia incomprensione, ma facendosi comunque apprezzare per il gusto e le qualità non superficiali con cui la band si dedica a brani radiofonici, creando delle vere hit da classifica. "Leave Me" delizia con ricordi semiacustici del rock da incubo del buon vecchio Manson, cosi come la seguente "Never Be the Same", anche se qui manca il peso della sua perversione e i Vita Museum finiscono per assomigliare a degli Stone Temple Pilots ultimo periodo, filtrati da un effetto pregevole stile radiolina anni sessanta, quello della partita della domenica pomeriggio per intenderci. Da qui il sound si fa sempre più sintetico e la rarefatta malinconia di "Alone", introduce la triste cadenza alternativa di "Another Time, Another You". A cavallo tra svariati generi e sfacciatamente senza remore verso i puristi del rock, i Vita Museum sfoderano dodici brani tutti da cantare a squarciagola, contribuendo alla contaminazione del rock a tutto tondo. Incuranti delle etichette e apertamente predisposti allo star system più scandaloso e glamour, i Vita Museum scardinano i canoni del classic rock e del metal, abbracciando indie ed elettronica di varia natura, addirittura il pop nella sua forma migliore, dando vita ad un album intelligente e motivato, anticonformista (non certo innovativo) ma sicuramente personale e curato. Da ascoltare e gustare a più non posso. (Bob Stoner)