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sabato 2 agosto 2014

Blank Faces - A Course Of Infinite Escape

#PER CHI AMA: Post Rock/Progressive, Tool, Porcupine Tree, Isis
Chi mi conosce sa che in questo momento mi trovo in spiaggia a godermi il sole del sud della nostra splendida penisola. Tuttavia anche in riva al mare o sotto l'ombrellone, non smetto certo di ascoltare musica, anzi preferisco riesumare quei dischi che per un motivo o l'altro, ho tralasciato gli scorsi mesi. E' il caso dei polacchi Blank Faces e del loro sound all'insegna del post rock/metal. Cinque tracce, aperte dall'intro di "Adrift", e seguito a ruota dall'ipnotica "Exit: Me", song dall'incipit psichedelico, melodico, oscuro e affascinante, che mettono subito in luce le indubbie qualità del combo di Wrocław. Atmosferici e tribali, i nostri combinano sonorità a la Tool con il post rock sfruttando l'utilizzo di sporadiche clean vocal, per un risultato che a tratti ha del miracoloso. Suoni cibernetici compaiono nell'apertura della strumentale "Degradation", in cui a mettersi in luce è un eccellente lavoro del basso, sorretto poi dai riverberi delle linee di chitarra e da un drumming sicuro ed estroso. L'effetto ha un che di rilassante, ideale per il proseguio della mia vacanza. "The Cleansing Tide" strizza maggiormente l'occhiolino al post metal, almeno a livello della pesantezza delle chitarre, con i consueti richiami a Isis e Cult of Luna ma non solo, perché a echeggiare nella musica dei Blank Faces, ci sono anche accenni progressive di Porcupine Tree o dei conterranei Riverside. Il risultato? Come immaginavo, direi molto buono, per cui sul mio taccuino il loro nome compare già, e sul vostro? Dimenticavo, la chiusura è affidata a "Where to...", song notturna che potrebbe essere estrapolata tranquillamente dall'ultimo album di Steven Wilson. Spero di avervi abbondantemente convinto ad andare ad ascoltarvi la proposta musicale dei Blank Faces, potrebbe essere anche per voi amore a prima vista. (Francesco Scarci)

Cemetery Fog - Towards the Gate

#PER CHI AMA: Death old school, Celtic Frost
Non so molto di questo duo finlandese se non che una spettrale intro apre questo 'Towards the Gate', mini Lp di debutto della band (all'attivo anche tre demo), costituito da cinque pezzi (di cui due sono intro e outro). Andiamo allora a dare un ascolto alle tre tracce vere e proprie di questo dischetto: “Withered Dreams of Death” è la prima song che si affaccia con una chitarra old school, che mostra i suoi richiami glaciali al suono primordiale dei Celtic Frost. L'atmosfera è plumbea, l'incedere lento e minaccioso, il lavoro alle sei corde è sorretto da una tastiera mefistofelica e ingannatrice, mentre le growling vocals si rivelano efficaci nel descrivere sogni di morte. Si tratta di un salto indietro nel tempo di almeno vent'anni, quello che ci regala la musica dei Cemetery Fog e il trend occulto dei nostri si conferma anche con la successiva "Embrace of the Darkness", altra song dai forti richiami retrò ma che comunque sa conquistare per il proprio approccio horror, quasi sulla scia dei King Diamond, ma senza la vocina del "Re Diamante". La song trova addirittura il modo di offrire un bellissimo break acustico, con clean vocals sussurrate e delicate note di pianoforte in sottofondo. Niente male ma anche nulla di nuovo. "Shadow of Her Tomb" è il terzo brano, quello dal piglio decisamente più rallentato e inflazionato. Si tratta infatti di un death doom dalle tinte funeral, in cui compare addirittura la celestiale (ma non troppo) voce di una gentil donzella, il tutto per un risultato a tratti scontato. Poco importa; come opera prima questi errori ci possono anche stare, ma per il futuro cerchiamo di trovare una via più personale di dischiudere il proprio sound. (Francesco Scarci)

Woe Unto Me - A Step Into the Waters of Forgetfulness

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Skepticism, Shape of Despair
Russia, Ucraina, adesso anche Bielorussia: ormai sembrano queste le terre più prolifiche in termini di musica funerea, branca estrema del nostro amato doom. Ancora una volta la Solitude Prod. ci porta su un piatto ossidato ed incrostato di ruggine, una band che ha fatto proprio il vessillo delle lacrime trattenute, del momento limite tra il lasciarsi andare per sempre all’oblio ed il volgere ancora una volta il capo verso l’alto. Gli Woe Unto Me, con il loro debut fresco fresco, regalano questo: un album che contiene poca luce e ancora meno speranza, anche se non completamente assente perché resiste un capillare di melodia a condurre ogni singolo brano, un lamento che tenta di medicare la devastazione di un growl a tratti quasi effettato e riverberato, creando un contrasto molto apprezzabile tra clean vocals (maschile e femminile, per nostra fortuna bypassando il solto dualismo a la “beaty and the beast”) e grugniti. Tutto questo a frantumare ogni singola nota imbastita dalle due chitarre e sorretta in modo marziale da una sezione ritmica che offre comunque una discreta variabilità di tempi, con qualche accelerazione tuttosommato appropriata per spezzare il mood monocromo che permea il disco. Aspettatevi molti effetti, molti intermezzi rumoristici quali scrosci d’acqua piovana, tuoni in lontananza e rumori di passi, a fare da collegamento tra i vari brani, il che forse rappresenta una delle pecche dell’album, per un certo sentore di già sentito, un po’ un cliché del genere che forse varrebbe la pena di abbandonare in favore di un ben più apprezzabile stacco netto tra i pezzi. Sicuramente l’utilizzo delle tastiere e dei sintetizzatori facilità la vita di non poco nel realizzare sonorità così decadenti, ma per quel che può valere, ritengo che questo possa rappresentare la solita nota (ma sempre ben affilata) lama a doppio taglio, perché il rischio di cadere a volte nello stucchevole si avvicina in più di un’occasione (vedasi il finale del pezzo conclusivo), senza però compromettere troppo il risultato finale. I pezzi sono in media lunghi, si parte dai nove minuti e mezzo per arrivare ad oltre i quattordici, con l’eccezione del quarto brano solo strumentale che si aggira intorno ai sette (e forse rappresenta il miglior esempio di utilizzo delle tastiere di tutto l’album, sarà ripetitivo ma tant’è...). In definitiva, questo disco può essere considerato come un valido esordio per una band che dimostra di avere già idee personali e carattere e che deve solo rendersene conto, ma che dimostra di aver compreso la strategia da usare per il futuro: prendere quanto già esiste e rimaneggiarlo a propria immagine e somiglianza. Con qualche riserva ma bene. (Filippo Zanotti)

(Solitude Productions - 2014)
Voto: 70

woeuntome.bandcamp.com

mercoledì 30 luglio 2014

Manthra Dei – S/t

#PER CHI AMA: Hard Prog, Psych
'Ladies and Gentlemen, We are Floating in Space'. Cosí, nel ’97, gli Spitritualized intitolavano il loro indiscusso capolavoro e cosí, oggi, si potrebbe sottotitolare questo esordio del quartetto bresciano Manthra Dei, fuori per la ottima Acid Cosmonaut Records. Non tanto per le affinità stilistiche (invero pochine) con la band di Jason Pierce, quanto perchè la musica contenuta in questo album sembra essere in grado di staccarsi dal suolo e portare l’ascoltatore a fluttuare nelle profondità del cosmo. Di certo i Manthra Dei, di musica, devono averne ascoltata parecchia, in particolare tanto rock anni '70 ma non solo, del genere piú acido e meno terrigno, tale è la ricchezza di suoni, pulsazioni e suggestioni rilasciata dalla loro musica, come una spugna ben imbevuta. L’elemento caratterizzante del loro suono è senza dubbio l’organo hammond di Paolo Tognazzi, sia quando si erge protagonista con assoli acidi e pastosi, sia quando srotola tappeti preziosi per le digressioni dei suoi compari (Michele Crepaldi alla batteria, Paolo Vacchelli alle chitarre e Branislav Ruzicic al basso). Quello dei Manthra Dei è un rock fondamentalmente strumentale, che si colora qua e là di tinte hard, psych o prog, risvegliando un range di influenze e rimandi davvero sterminato, che va dal kraut dei Can ai Pink Floyd di mezzo, dagli Atomic Rooster agli Ozric Tentacles, dai Nice fino ai Deep Purple, dai Tool al prog italico (quello sul versante piú rock e meno jazzato). Ci sanno fare, i Manthra Dei, e l’iniziale "Stone Face" lo mette subito in chiaro, con una frase circolare (che ricorda un po’ quella di "The Wheel" dei Motorpsycho) ripresa piú volte nello sviluppo di un pezzo affascinante, dall’andamento ondivago. Immaginate i Tool catapultati nel 1972. "Xolotl" è invece un hard rock potente, dove il ruolo di guida viene conteso tra la chitarra e un organo acidissimo. "Legendary Lamb" è l’unico brano cantato, peraltro benissimo, dal batterista Michele Crepaldi, e sembra un inedito dei Deep Purple piú groovy, quelli dello sfortunato Tommy Bolin e David Coverdale. A spezzare il ritmo prima del gran finale ci pensa "Urjammer", inquietante suite per organo chiesastico. Gran finale che arriva poi con la monumentale "Blue Phantom", 17 minuti che iniziano con un germe melodico semplicissimo, quasi elementare, per poi irrobustirsi attorno a riff trascinanti, ritmiche complesse e soli di organo effettato, prima di virare verso atmosfere orientaleggianti punteggiate dal glockenspilel, per poi concludersi come una versione heavy dei Goblin di Claudio Simonetti. C’è ancora il tempo per un reprise acustico di "Stone Face", che aggiunge un altro lato ad una proposta già di per sé molto sfaccettata e di portata sicuramente internazionale. Bravissimi. (Mauro Catena)

(Acid Cosmonaut Records, 2013)
Voto: 75

domenica 27 luglio 2014

Epistheme - Descending Patterns

#PER CHI AMA: Death Progressive, Opeth
he botta ragazzi! E' una bella mazzata nei denti quella che si presenta in uscita dal mio stereo quando faccio partire 'Descending Patterns': a divampare è infatti il sound degli EpisThemE, band nostrana che arriva dalla calda Sicilia (Catania) con il loro concentrato di death progressive che giunge al tanto agognanto cd di debutto, dopo gli ormai consueti anni di instabilità di line-up. Sembra infatti che ormai tutte le band un periodo di assestamento ce l'abbiano per contratto, anche se qui di contratto non vi è ancora ahimè l'ombra ed è un vero peccato perchè i nostri lo meriterebbero eccome. La proposta della band sicula è infatti assai affascinante sin dalla opening track, "Eyeland" che parte bella aggressiva, ma tenendo in serbo un bellissimo break acustico in grado di rizzarmi i peli delle braccia di 1 cm. Il perchè presto detto: i nostri rallentano il loro sound roboante per far posto ad un intermezzo che potrebbe esser stato tranquillamente partorito da Mr Åkerfeldt e i suoi Opeth in 'Damnation', con tanto di bellissime vocals pulite e un fantastico assolo conclusivo. Mmm, la cosa si fa interessante anche nella successiva "Erase That Frame" quando la sezione ritmica emula quella dei gods svedesi, mentre la voce di Luca Correnti urla disperatamente, addolcendosi nei momenti in cui la musica stessa, sfodera attimi di calma. Ma il flusso sonico costruito dai nostri è come quello di un fiume in piena, quasi incontrollabile: notevoli sono le spinte elettriche, i cambi di tempo improvvisi, ma altrettanto fantastici sono i frangenti melo-acustici in cui l'ensemble mostra maggiormente la propria classe. Come approccio, 'Descending Patterns' mi ha ricordato quello che riscontrai nel debut album degli Edenshade, 'Ceramic Placebo for FaintHeart': una certa freschezza compositiva, un mare di idee ("Silent Screaming" ne è un fulgido esempio con il suo incedere inquieto, l'alternanza delle vocals - ribadisco eccezionale la pulita - e la parte conclusiva, ottima nella sua sezione solista) e un'eccellente preparazione tecnica che fa degli EpisThemE e del loro album una graditissima sopresa di quest'estate. "Shade of May" è una splendida traccia strumentale in cui emergono tutte le qualità dei singoli musicisti, con il basso di Riccardo Liberti che ben si amalgama con le chitarre del duo composto da Francesco Coluzzi e Enrico Grillo e il raffinato drumming di Daniele Spagnulo. "Blind Side" è una traccia dall'incipit oscuro che evolve linearmente con dei bei chitarroni thrash spinti ad una velocità più sostenuta, in una delle song più normali del disco. Con "Endless Apathy" torniamo ad addentrarci in sonorità più articolate e contorte che si riflettono anche nell'uso delle vocals e di un cupo intermezzo la cui melodia vagamente richiama "My Angel" dei Massive Attack. La chiusura del disco è affidata a "Nemesis", un mid-tempo oscuro e controllato, in cui maggiormente mi rendo conto della produzione bombastica di 'Descending Patterns', che si candida sin d'ora ad essere uno dei miei album preferiti, prodotti in Italia in questo tiepido 2014. Finalmente qualcosa torna a muoversi nella nostra statica penisola, dopo qualche tempo di silenzio. Consigliatissimi. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 80

http://www.epistheme.it/

Kvity Znedolenykh Berehiv – Za Nebokray Mriy

#PER CHI AMA: Death Doom, primi Anathema, Officium Triste
Certo, presentare alla stampa una band dal nome Kvity Znedolenykh Berehiv potrebbe essere un problema, tanto vale traslarlo in inglese e farsi cullare dal romanticismo decadente dei The Flowers of Crestfallen Shores e dall'EP 'Beyond the Horizon of Dreams', molto meglio no? Trattasi di una one man band ucraina, per cui mi piace pensare che, nonostante il tragico periodo che quella parte di mondo sta vivendo, ci sia ancora spazio per dedicarsi all'arte della musica. Due i pezzi inclusi nell'elegante digipack, due song il cui sentiero è tracciato nel doom, genere che va per la maggiore in Ucraina. Il primo brano mette subito in chiaro quali siano le coordinate stilistiche del mastermind di Kiev, alias Dmytro Pryymak: nove minuti di quel consueto death doom atmosferico, costituito da bei riffoni pesanti, growling vocals profonde, qualche discreto passaggio arpeggiato, che può rievocare 'Pentecost III' dei primissimi Anathema, e tanti cambi di tempo a rendere un po' meno scontato l'evolversi del brano. La seconda song si assesta su dieci minuti abbondanti di un sound che si rende ancora più carico di tristezza e disperazione, che forse si rifà per maestosità, agli Officium Triste e che lascia trasparire solo uno stato di desolazione scevro da qualsiasi tipo di speranza. Da segnalare un romantico e tragico break centrale, sorretto da una delicata chitarra elettrica e dalle clean vocals di Dmytro, per una song che evolverà poi verso un ridondante ripetersi del riff portante e da una cavernosa performance vocale. Che altro dire, se non suggerire in primis di vedere tramutato definitivamente il nome della band nella sua traslitterazione inglese, per garantire una maggiore accessibilità del prodotto, soprattutto alla luce della volontà dell'artista ucraino di trovare una etichetta (Solitude Productions?) che ne possa promuovere la musica. In secondo luogo, raccomanderei di rendere molto più personale la proposta della band, che si muove oramai in un ambito a dir poco saturo e per cui probabilmente è rimasto ben poco da dire. (Francesco Scarci)

(Self - 2014)
Voto: 65

http://uakvity.com/

sabato 26 luglio 2014

Dalla Nebbia - The Cusp of the Void

#PER CHI AMA: Black Epic Progressive, Windir, Enslaved, Agalloch
Apro questa recensione ringraziando Jeremy Lewis e la sua infinita pazienza per avermi inviato due copie di 'The Cusp of the Void', e bacchettando poi le poste svizzere che si sono perse una delle due copie. Comunque mi fa specie (e piacere) trovare una band statunitense che sceglie come proprio nome una parola italiana, Dalla Nebbia appunto. I Dalla Nebbia sono un quartetto del South Carolina che debutta su lunga distanza sul finire del 2013 con questo album di black metal progressivo, che raccoglie in realtà le song del demo ('From the Fog') e dell'Ep ('Thy Pale Form...'), precedentemente prodotti dall'ensemble americano. Andiamo meglio ad inquadrare qual'è la proposta dei nostri: dicevo di black progressive e infatti quando "Dimmed Through the Smoke" fa irruzione nel mio stereo con le sue malinconiche melodie autunnali (perfette per questo periodo), mi lascio travolgere dal suo incedere che trae forte ispirazione in primis dai suoni etno-folk cascadiani degli Agalloch, ma anche dalle produzioni più ricercate degli Enslaved. Insomma mica pizza e fichi, questo a dimostrare che la proposta dei nostri assume una certa rilevanza artistica per i suoi contenuti davvero interessanti e mutevoli. La traccia alterna infatti diversi umori con una linea di chitarra flebile e triste che si stampa nella testa e successivamente muta tra bilanciati slanci black, momenti acustici e altri atmosferici, e infine parti corali da brivido. Ottimo il mio giudizio fin qui anche se dopo il solo ascolto della opening track. Irrompe la furia selvaggia di "Standing on the Precipice", song carica e veloce ma avvolta da un'aura magica ed epica, con lo spettro dei Windir che ammanta la song e la carica di puro misticismo. Sono rapito dalla proposta dei Dalla Nebbia, che si rivelano band dotata di grande intelligenza e capacità tecniche. E dire che le song sono vecchie di 2-3 anni, chissà quindi cosa attenderci dalla maturità compositiva di questi ragazzi. "Thanatopsis" conferma le influenze nord europee per il combo, con una traccia ricca di pathos e maestosità, nonostante tracimi del black metal velenoso e incazzato: ci pensano poi degli intermezzi in cui compaiono strumenti ad arco o break rock progressive, a restituire l'ordine a quell'empio caos sonoro su cui i nostri poggiano, ma solo per alcuni frangenti, la loro proposta. Proseguo con la spettrale "Humanity (The True Art)", song che mostra un ipnotico giro di chitarra a guida del pezzo e un chorus liturgico spezzato dalle scorribande sonore dell'axeman Yixja e dal growling acido di Zduhać (simile per certi versi a quello di Grutle Kjellson dei già citati Enslaved). Le song dei Dalla Nebbia continuano a stupire per la loro ecletticità, la capacità di modulare i propri suoni disorientando non poco l'ascoltatore, offrendo un qualcosa a dir poco fenomenale. Speranzoso che stiate già segnando l'ennesimo nome sul vostro taccuino, "Sovereign Moments" mi concede un paio di minuti di tregua con un interludio acustico che ci prepara a "The Apex of Human Sorrow", il brano più brutale del disco che mostra le capacità guerrafondaie di Tiphareth al basso e di Alkurion dietro le pelli, gli ultimi entrati in casa Dalla Nebbia. Non è solo violenza quella offerta da questa song, ma come sempre ci si imbatte nei consueti break acustici, prima di venire nuovamente mitragliati dalla sezione ritmica esplosiva della band. "Shade of Memory" chiude la serranda con i suoi quasi dieci minuti di tenue atmosfere, sperimentazioni varie e accelerazioni black. Il disco non si chiude qui perchè in serbo ha la sorpresa della cover dei Windir, "Black New Age", song del 2001 contenuta in '1184' che anche nella sua rilettura, conserva intatto quel suo spirito epico e battagliero che resero la band di Valfar davvero unica. Onore ai Windir, onore ai Della Nebbia per aver creato questo splendido 'The Cusp of the Void'. (Francesco Scarci)

(Razed Soul Productions - 2013)
Voto: 85

https://www.facebook.com/dallanebbiamusic

Raum Kingdom - S/t

#PER CHI AMA: Post Metal/Sludge, Cult of Luna, Tool, Neurosis
Di solito penso all'estate come il miglior momento dell'anno per spassarsela, uscire con gli amici e andare in vacanza. Viste le pioggie pseudo-tropicali di questa stagione e le temperature autunnali, meglio starsene a casa e godersi della buona musica. Gli irlandesi Raum Kingdom e il loro album omonimo, mi danno ampio conforto in tutto questo, con un EP che ho amato immediatamente, fin dal primo riff imbastito che, li per li, mi ha fatto pensare ai Primordial, ma che nel suo successivo evolversi tortuoso, mi ha concesso di costruirmi mentalmente una mitologica creatura, una sorta di minotauro metà Primordial appunto (per il suono delle chitarre) e metà Neurosis (per l'approccio claustrofobico). Spaventosa solo da immaginarsi, meravigliosa da sentirsi. E cosi quando lenta e sinuosa, "Wound" varca i confini della mia mente e ne odo i suoi riff, avverto una certa sublimazione dei miei sensi. I riff pachidermici, l'atmosfera magica, le vocals profonde rigurgitano immediatamente il meglio della band. "Barren Objects" inizia con un sussurrato del vocalist, e poi rieccoli quei lenti e magici giri di chitarra che a questo punto bollerei come tipici "made in Ireland". La song è pigra a crescere, ma non temete, piano piano, aumenta di intensità e il coinvolgimento con il sound del quartetto Irish diventerà quasi totale, con i nostri che strizzano l'occhiolino ai Cult of Luna ma anche ai Tool, con basse tonalità e vocals che si alternano tra il clean oscuro e il growl. "Cross Reference" è una traccia ambient fatta di insulti vari e "fuck you" prima di "These Open Arms", tripudio di suoni post-metal, lugubri e desolanti. "This Sullen Hope" è ahimé l'ultimo pezzo del cd (un bel digipack dalle tinte oscure): quasi dieci minuti di sonorità melmose e magmatiche, in cui il vocalist si lancia addirittura in acuti simil System of a Down e la musica lenta e inesorabile avanza avvolta da una nebbia impenetrabile. Un pezzo che alla fine dispone i Raum Kingdom come vera sorpresa di questa fresca estate 2014. Un pensierino per un EP come questo è d'obbligo per tutti coloro che amano sonorità post, sludge e alternative: il download è gratuito, ma fossi in voi un minimo sforzo per l'acquisto del cd lo farei ad occhi chiusi. (Francesco Scarci)