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giovedì 22 novembre 2012

In the Silence - A Fair Dream Gone Mad

#PER CHI AMA: Progressive, Opeth, Porcupine Tree
Primo lavoro per i californiani In The Silence, uscito ad aprile di quest'anno. Si identificano come una progressive/atmospheric metal band, e certamente sono degni di nota. Si inizia il nostro tour con l’introversa ma energica "Ever Closer": una delizia per le mie orecchie già dalle prime note, la song gioca molto con le sue diverse sfumature, catturando i miei sensi. Insieme a "Serenity" ed "Endless Sea", potrebbe ricordare gli Opeth, mentre l'americanità si avverte soprattutto nel largo uso delle chitarre così graffianti. "Seventeen Shades" inizia invece dolcemente, quasi sottovoce: se prima ho citato gli Opeth, ora mi permetto di indicare i Porcupine Tree come potenziale punto di riferimento dei nostri. Le parti armoniose ricordano molto infatti la band di Steven Wilson e soci, soprattutto nell’utilizzo della chitarra classica, tastiere e batteria, suonate ritmicamente. Di notevole impatto poi, l'assolo di chitarra elettrica. "Beneath These Falling Leaves" è la traccia acustica e maggiormente progressive di tutto l'album. La prima immagine che mi si forma nella mente, è un paesaggio pieno di colori che sfumano dall'oro al rosso, mentre il vento soffia tra i miei capelli: intrisa di malinconia, è il brano perfetto per essere canticchiato in un pomeriggio di freddo autunno, mentre si passeggia. Verso la fine il motivo cambia e mi ridesto improvvisamente a causa di un sound che diviene quasi sperimentale: una bella sorpresa. "Close To Me" è l'anima strumentale, soave e mesta, dove la mente spazia e si svuota, lasciandomi tuttavia una sensazione di conforto nel cuore. "All the Pieces" è potente fin da subito, cantabile e matura: il canto si inserisce perfettamente in tutto il contesto, diventando una cosa sola con il resto dell'ensemble. "Your Reward" è l'ultima canzone di questo primo entusiasmante lavoro. Assolutamente da non perdere è l'uso astratto della chitarra, capace di toccare qualsiasi livello d'intensità. Non poteva mancare un grido liberatorio verso la fine. Un grande plauso a questo neonato gruppo statunitense, che ha sfornato una perla di rara bellezza e ottima colonna sonora per i miei viaggi in treno (e in macchina). (Samantha Pigozzo)

(Self) 
Voto: 85

Old Pagan - This is Saarland Black Metal

#PER CHI AMA: Black, Avsky, Gorgoroth, Mysticum
Gli Old Pagan sono tedeschi e arrivano dallo stato federale di Germania denominato “Saarland”, sono attivi dal 1997 e hanno dato alle stampe numerose pubblicazioni, tra cui due full lenght, tre demo, quattro EP e due split cd. Questo lavoro è l’EP del 2011, predecessore di un altro EP, dal titolo “My Black Witch”, uscito a supporto del secondo full lenght dal titolo “Battlecruiser Old Pagan”. Come suggerisce la copertina e il nome della band, siamo di fronte ad una black metal band violenta e senza compromessi, che rispecchia tutti i canoni del genere della prima ondata, con suoni e ritmi tiratissimi, screaming forsennati ed una lucida freddezza di esecuzione. Non si spostano mai dal tema conduttore e tutte le quattro tracce si lanciano dritte all'inferno allo stesso modo. La velocità la fa da padrona sulla melodia e la voce, onnipresente, si presenta eccessivamente sopra le righe anche per un uso improprio a parer nostro di effetti echo e riverbero in quantità industriale, fin dal primo brano, che infonde una strana e non troppo indicata forma psichedelica al tutto. Se aggiungiamo il suono di una batteria veramente ben suonata, ma dai suoni inconcepibilmente spenti ed evanescenti, sommata ad innesti di suoni indefiniti che sembrano provenire da Marte (non riusciamo a dare un'altra spiegazione!), ci si accorge con rammarico, che qualcosa è sfuggito di mano alla band. In generale il combo si presenta preparato e con le carte a posto, per proporre delle buone cose, ma devono concentrarsi sulla qualità di registrazione e il mixaggio. Le idee ci sono, ma risultano male direzionate, le canzoni con scie di rozii all'inizio o alla fine del brano, non danno l'effetto (crediamo!?!) voluto del Low-Fi e il fatto di inserire un suono stile “marranzanu siciliano” (o scacciapensieri) ad un volume a dir poco fastidioso, in una buona e veloce composizione tipicamente black, non vuol dire essere innovativi e tantomeno originali! Il pezzo strumentale posto in chiusura, conferma le nostre teorie, con una buona melodia epica, ma una batteria spaventosamente spenta e inconcludente. Chiudiamo nella speranza che il full lenght uscito dopo questo lavoro, abbia raddrizzato un po' il timone degli “Old Pagan”, perchè offrirebbero veramente delle buone composizioni, ma così esposte rischiano veramente di cadere nell'oblio eterno. (Bob Stoner)

(Self) 
Voto 55

mercoledì 21 novembre 2012

Menace - Heavy Lethal

#PER CHI AMA: Heavy Metal, Judas Priest, Anvil
“Back to the 80s”… Così si potrebbe sintetizzare l'esistenza stessa dei Menace e questo "Heavy Lethal" è il manifesto di una strada controcorrente che l'heavy metal ("hard and pure" come direbbero gli Skanners) della band vicentina, percorrere ormai da tempo. Nati alla fine degli anni ’90, i nostri danno alla luce, dopo numerosi cambi di line-up, l'EP "Quake Metal" nel 2003, e da poco hanno rilasciato questo full length, sotto My Graveyard Productions. Dopo il primo ascolto la prima reazione è un'improvvisa voglia di farmi ricrescere i capelli, cercare i bracciali di borchie, il chiodo e gli anfibi che usavo quando ero magro, e cominciare a girare per le strade guardando male chi non è vestito come me, ovviamente con la maglietta degli Iron Maiden indosso, t-shirt che ora come ora potrei usare più come top o bandana. L'unico aggettivo che può andar bene per descrivere qualsiasi particolare di questo disco è "heavy metal": l'artwork è heavy metal, il sound è heavy metal, tutte le immagini del cd sono heavy metal, le liriche sono heavy metal, il font è heavy metal. Oltre che heavy metal, questo debut è genuino e personale, completamente autoprodotto, sia in fase di registrazione che di mixaggio, senza nessun ausilio di diavolerie tecnologiche, e ciò fa trasparire tutta la vecchia scuola del gruppo che ci fa scapocchiare, con i suoi travolgenti riff di matrice NWOBHM, le vocals figlie di Rob Haldford e King Diamond, ed una batteria che si lascia scappare up-tempos adrenalinici; peraltro, la rabbia e la potenza che scaturiscono dalle composizioni di “Heavy Lethal” è quella d'altri tempi, ed ogni componente sa dare il suo prezioso contributo a questa eccelsa rappresentanza di classicità. Non c'è molto da dire, se non che questo lavoro, che può sembrare alquanto obsoleto, ci fa notare la più totale mancanza di una solida base nel metal delle nuove generazioni e rappresenta uno spirito ed una devozione alla musica che oramai è difficile da ritrovare; ovviamente vi suggerisco di non perdervi assolutamente un loro concerto, dato che sono rarissime le apparizioni live. Consigliato a tutti quelli che girano ancora con le braghe in pelle. (Kent)

(My Graveyard Productions) 

Gotto Esplosivo - L'Oro Del Diavolo

#PER CHI AMA: Rapcore, Nu Metal, Funk Rock
Con il moniker tratto dal libro "Guida Galattica Per Autostoppisti" di Douglas Adams, questa band dalla Val Brembana, sconvolge letteralmente il mio udito e rimango allibito dalla genialità delle canzoni, sopratutto dai testi cantati interamente in italiano. Come avrete capito dai tag, sto parlando di una musica dalla difficile catalogazione, e di cui io non sono un grosso fan. Però questi Gotto Esplosivo conquistano subito, con i loro movimenti groovy, il cantato velocissimo, i ritornelli catchy. Pura energia concentrata in dieci tracce per una durata complessiva di poco più di mezz’ora. A vantaggio di questo, una produzione cristallina e suoni limpidi, il tutto curato da Davide Perucchini, il fonico live dei Verdena. La ritmica gioca un ruolo importantissimo nelle composizioni del giovane combo e la voce in rima, tiene sempre alta la concentrazione sulla musica e nonostante qualche ripetitività, le canzoni si riveleranno assai creative, differenziandosi molto tra loro, non annoiando mai, vuoi perchè vigorose ed iperattive o semplicemente perchè di facile ascolto. Passiamo dalla prima parte del cd, con tracce come l'opener "Paura" o "Gelosia" con uno stile movimentato ed adrenalinico, verso composizioni meno aggressive, come "Sete" o "L'Occhio". Insomma, un disco variegato, originale e molto (troppo) allegro. Data la proposta musicale molto particolare, sono proprio curioso di vedere cosa salterà fuori dalle prossime pubblicazioni. (Kent)

(Ice Records) 
Voto: 75

Locus Neminis - Weltenwanderung

#PER CHI AMA: Black Symph., Limbonic Art
Black sinfonico… merce rara al giorno d’oggi, dove la contaminazione va per la maggiore, nuovi generi si sono aggiunti e si è dimenticato il passato, le radici dalle quali sono nate le nuove tendenze. Gli austriaci Locus Neminis non fanno altro che rimettere in auge ciò che è stato, modernizzandolo, personalizzandolo ed aprendo a nuovi spiragli di progressione futura. L’intro di “Spiegelbild Der Vergangenheit” sembra uscire da un lavoro dei Negura Bunget, per poi iniziare a pestare grazie al rullare furibondo di un drumming inferocito. Fortuna che qualche tocco di pianoforte stempera un po’ l’aggressività della band di Linz, altrimenti mi avrebbero annichilito dopo i primi mortiferi tre minuti, in cui si raggiungono velocità che vanno oltre la barriera del suono. La cosa intrigante è che tutta questa malvagità dissipata è totalmente pregna di melodia, che si esplica anche attraverso uno splendido solo conclusivo. Pollice verso, non c’è che dire. Il tutto confermato anche dalla title track, che a parte confermare l’irruenza, stile contraerea, in chiave batteristica, non fa che esaltare la brillante proposta dei nostri, bravi in sede esecutiva, quanto in quella compositiva con delle eccellenti melodie, aperture atmosferiche di scuola Limbonic Art, un riffing appassionato e delle vocals grondanti malvagità allo stato puro, sia in formato growl che in chiave scream. La bontà del sound dei Locus Neminis prosegue anche con le tracce successive: un’apertura che sa di suoni black depressive appare in “Wenn Die Nacht Den Tag Verdraengt”, song in cui il drumming impetuoso di Ramiz se ne sta finalmente accuccia e il brano vive di tenebrosi sali e scendi e le parti orchestrate si sprecano. I riferimenti al sound sinfonico ma glaciale di metà anni ’90 sono palpabili, ma il tutto assume connotati positivissimi nella proposta dei sorprendenti Locus Neminis. “Ein Neuer Anfang” ha un inizio oscuro con la voce di Xarius, quasi sussurrata; poi un esplosione di suoni e colori, con una ritmica che galoppa impazzita come nel migliore degli album death metal. Un menzione a parte la voglio fare ad Antimaterie, che grazie alle sue tastiere ariose sorregge tranquillamente il fardello della martellante performance del drummer, il resto lo fanno i due axemen, indiavolati a graffiare con le loro strepitanti chitarre. Gli ultimi sussulti da citare sono per “Totes Licht”, un brano in cui il black dell’act austriaco vola in cielo, nello spazio e acquisisce un’imprevedibilità ed impalpabilità aliena, che nuovamente ha indotto un trasalimento durante la mia scrittura e l’infinita traccia conclusiva (24 minuti e passa) che risponde al nome di “Die Begegnung” che ripropone il feeling maestoso, epico e orchestrale dei Dimmu Borgir più ispirati di “Stormblast” per poi concedersi apparentemente ad un finale ambient (ho pensato che la band volesse raggiungere la durata complessiva di 66 minuti), nascondendo in realtà nella sua coda, una ghost track spettrale, di una ferocia inaudita e dall’attitudine maligna. Certo c’è ancora qualche accorgimento da settare qua e là: una migliore impostazione vocale e decisamente, il ridimensionamento delle velocità ultrasoniche della stramaledetta batteria (a volte ci sta correre dei forsennati, ma non di certo per tutto l’album), per il resto “Weltenwanderung” si candida ad essere una delle sorprese più positive di questo 2012. E che il regno delle tenebre avanzi pure… (Francesco Scarci)

domenica 18 novembre 2012

Betrayal at Bespin - Rains

#PER CHI AMA: Post Rock Sperimentale, Archive, *Shels
Non avrei dovuto recensirlo questo disco, ma mi sono reso conto che sarebbe stato un peccato madornale se vi foste persi un lavoro di grande interesse qual è “Rains”, cosi come lo era stato il precedente “Diary of a Dead Man Walking” che nessuno di voi avrà mai sentito nominare, ma che a me mi aveva entusiasmato non poco. Abbandonate le suggestioni southern del passato cd, i finlandesi Betrayal at Bespin, si lanciano in una rivisitazione assai meditativa ed evocativa del post rock, in una chiave estremamente raffinata ed originale, che esula da tutte le proposte fin qui analizzate dal sottoscritto. L’album si apre con il sensuale sax di “Strange Days” e il primo pensiero che faccio è se questi Betrayal at Bespin sono gli stessi che avevo sentito nel 2010 o se ho preso una cantonata con un gruppo omonimo. L’irruenza southern carica di groove degli esordi, ha infatti lasciato il posto ad un sound mellifluo che ricorda gli inglesi Archive nella loro veste più dolce e delicata. Non riesco a trovare alcun punto di contatto col passato, che sembra essere stato spazzato via con un colpo di spugna dalla rivoluzione musicale del seven pieces finnico. C’era già un che di particolare in “Diary of a Dead Man Walking”, che lasciava presagire l’unicità di questa band, ma qui, cari i miei lettori, la band propone un che di emotivamente destabilizzante. Ascoltavo “Cherbourg” una mattina mentre andavo a lavoro, guidando lungo le sponde del lago della mia città; il cielo era grigio, e la musica fluiva piena di malinconia nelle casse della mia autoradio e quando ho sentito i passaggi centrali di questo pezzo, e la pelle d’oca si palesava sulle mie braccia, mi sono detto che avrei dovuto recensirlo, sebbene il cd me lo fossi comprato. Echissenefrega, ho pensato; se un album è figo meglio dirlo al mondo e condividere questa gioia con chi come me, ha la passione della musica. Il mare, l’acqua, la pioggia, sono tutti elementi che contraddistinguono e si odono in questo “Rains” ed eccole le onde infatti che aprono “Atlantic”, song vellutata ed eterea che riesce a mettere a proprio agio chiunque con il suo incedere in stile *Shels, soffuso, strumentale e in cui fa la sua comparsa anche una tromba e un violino che rendono il tutto più sinfonico, come se una vera orchestra facesse parte del cuore pulsante della band. Per carità i nostri sono in sette, più tutta una serie di ospiti che si susseguono nel corso di questa intrepida release, che mi fa gridare al miracolo. Comunque a poco a poco, per la sfortuna dei Betrayal at Bespin, sono riuscito a ritrovare delle possibili fonti di ispirazione per la band, o un punto di riferimento per chi si volesse avvicinare alla proposta del combo lappone. Parti acustiche, lunghe fughe completamente strumentali (credo che solo in qualche sporadica occasione ci sia la presenza di un/una vocalist), parti al limite del trip-hop, atmosfere pink floydiane, inserti di archi, sassofono o altri strumenti a fiato (tromba e clarinetto) compaiono qua e là nell’evolversi di un disco, che definire metal, sarebbe la più grande tra le bestemmie. Una volta c’erano i Betrayal at Bespin, band di musica estrema molto sperimentale, oggi ci sono i Betrayal at Bespin, ensemble di musica quasi esclusivamente sperimentale, ma di grandissima personalità. Pertanto, se non avete paura di mettervi alla prova con questo genere di sonorità (gli estremisti si astengano, vi prego), fate in modo di reperire la vostra copia di “Rains”, un album che non vi deluderà assolutamente. Consigliatissimo. (Francesco Scarci)

(Avenger Records) 
Voto: 85

martedì 13 novembre 2012

Necromanther - Between Mankind and Extinction

#PER CHI AMA: Swedish Black/Death, Dissection, Unanimated
Chissà perché, ma da sempre ho erroneamente associato il Portogallo ai Moonspell e ad un sound gotico ed oscuro, cosi quando ho ricevuto questo cd, ed ho letto il nome della band, Necromanther, ho immediatamente pensato ad un qualcosa, musicalmente parlando, legata all’alchimia, al misticismo e a suoni eterei. Mai avrei immaginato di trovarmi di fronte una band dedita ad un black death, nella vena svedese di Dissection o Unanimated; potrete pertanto immaginare la mia sorpresa nel ritrovarmi fra le mani i suoni taglienti, e al contempo melodici, di questo “Between Mankind and Extinction”. Sin dalla sua apertura, “Opal”, la band risente, in lungo e in largo della tradizione swedish, pur mostrando anche una certa intelligenza artistica, curata dal buon Valter Abreu, mastermind di questo combo lusitano, qui supportato da Stefan Sjöberg in tre tracce e da Claudio Frank in “To Reign in Dusk”. Come sempre, facciamo immediatamente chiarezza perché di certo non siamo di fronte allo svolgersi di sonorità originali, rimangono pur sempre derivative di una corrente che lentamente va offuscandosi, soprattutto dopo la scomparsa dalle scene dei mitici Dissection. Comunque quello che i Nostri ci offrono è un qualcosa che cerca di divincolarsi dalla morsa di un genere pur sempre tradizionalista, e cosi, fa certo specie sentire l’inserimento di qualche tastiera all’interno di una matrice chitarristica corrosiva. Cosi come invece non mi stupiscono i rallentamenti e qualche squarcio acustico, che fungono come interruttore di quei frangenti in cui Valter accelera un pochino di più sull’acceleratore (“A Sacred Passage”). A differenza degli heroes svedesi, non ritroviamo ritmiche esageratamente veloci, anzi il tutto è estremamente controllato dal musicista portoghese, che si permette il lusso di uno splendido giro di chitarra all’ingresso di “Peak of Imagination” che mi ha ricordato i defunti Sarcasm e poi una portentosa aggressione ritmica contribuisce a rendere questo il mio pezzo preferito dell’album. È la volta di “Sungrave”, traccia che parte tranquilla, con una linea di chitarra melodica ben definita, su cui, da li a poco, si staglia una rabbiosa ritmica e le vocals maligne di Valter, a cui va un grosso applauso per la sua espressività sia in formato growl che soprattutto più stridulo, e magnetica la parte centrale, con un breve break che sembra influenzato da sonorità mediorientali. Il black qui cede il passo ad aperture heavy progressive e il tutto assume dei contorni totalmente differenti, con un assolo che si incastra alla perfezione nella matrice sonora di questo album. Il lavoro piano piano prova a percorrere una propria strada, cercando di staccarsi dagli schemi rigidi imposti dal genere: in taluni momenti il polistrumentista lusitano ci riesce anche, in altri tende forse a rimanere troppo ligio ai suoi doveri. Un contrabbasso apre “Toneless Scarlet”, poi la song si instrada su una ritmica quasi thrash, per poi lanciarsi, con la successiva “A Portrait of Obscurity” verso anfratti più prettamente death metal. Insomma in “Between Mankind and Extinction”, c’è molta carne al fuoco, che di certo accontenterà un po’ tutti gli amanti di sonorità estreme, tuttavia ricoperte da un pizzico di suoni progressive. Credo che ci sia da lavorare sodo ancora un po’, ma di certo Valter ha dimostrato di essere sulla strada giusta, per ottenere ottimi risultati. Da seguire nella sua evoluzione artistica… (Francesco Scarci)

(Self) 
Voto: 70

Shiftlight - Distance

#PER CHI AMA: Post/Death Doom, Isis, Saturnus
Dopo ben cinque demo, di cui il primo uscito ormai nel lontano 2000, finalmente gli svedesi Shiftlight vedono la luce e giungono al tanto agognato album di debutto. “Distance” è un lavoro di sette brani per una durata di 37 minuti, una mezz’ora abbondante di suoni all’insegna di un death doom assai ispirato, perché contaminato da sonorità post. Magnetico. Il suo risultato l’ho raggiunge quasi istantaneamente, colpendomi diritto al cuore con la miscela di suoni rabbiosi e pacati di “Blinded”, che mi conquistano, e mi inducono poi alla riflessione con “End”, ed al suo passo ultra ritmato, alle vocals nerborute del bravo Mattias, ma soprattutto alle melodie di fondo create dalle pesanti ed ipnotiche chitarre, in taluni frangenti addirittura travolgenti e trasudanti un pesantissimo groove. Se proprio vogliamo pensare ad un nome, potremo immaginare una creatura mitologica creata dalla fusione di Isis, Tool e Saturnus. “Endeavour”, come da copione, dà ancora risalto al fraseggio chitarristico dell’act scandinavo, con un arrangiamento che conquista per la semplicità con cui scorre, poi per la comparsa di un chorus pulito e per concludere con un’ambientazione in pieno stile post metal, seguendo le orme dei maestri di Boston. Un arpeggio di chitarra accompagnato da basso/piatti di sottofondo, apre “Black River”, song che percorre ancora le orme dei maestri statunitensi, cosi come sarà per il resto del lavoro, in cui vorrei elogiare l’intimistico break centrale di “Subways” inserito in uno scosceso ed irto saliscendi di chitarre e vocals gutturali. “Wound” si apre con un bel basso, e prosegue con un giro di chitarra abbastanza “tooliano”. A chiudere questo sorprendente lavoro, ci pensa la più tranquilla “Mountain Under the Sea”, che in sottofondo esibisce il folkloristico suono della ghironda, quello strumento medievale a corde azionate da una manovella, il cui feeling inneggia qui invece ai danesi Saturnus. “Distance” è un lavoro che ha saputo rapire la mia attenzione per le emozioni che trasmette e le atmosfere che è in grado di creare, quindi non posso far altro che consigliarvelo a scatola chiusa. New sensation from Sweden… (Francesco Scarci)


(Kamarillo) 
Voto: 75