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domenica 22 aprile 2012

Mephisto Waltz - Insidious

#PER CHI AMA: Gothic, Death Rock, Christian Death
Era uno dei lavori più attesi del 2004 in ambito gothic, senza ombra di dubbio. E ammettiamolo, nessuno avrebbe mai scommesso un centesimo sulla rinascita del deathrock. In una realtà discografica che negli ultimi anni ha cercato di seguire le inclinazioni di un pubblico oscuro, sempre più infatuato da contaminazioni elettroniche, nessuno si sarebbe mai aspettato un ritorno di fiamma per le polverose sonorità portate in auge da Christian Death & Co. Eppure anche le realtà musicali di nicchia sono soggette ai soliti corsi e ricorsi storici, con tanto di riesumazioni e reunion sospette che diventano immancabilmente l'argomento preferito dei fan, i quali amano farsi trascinare nelle inevitabili diatribe circa la credibilità o meno di certi veterani del "sacro verbo gotico". Nel caso dei Mephisto Walz le chiacchiere sono messe a tacere dalla qualità della musica e “Insidious” non può far altro che rassicurare anche i più scettici sull'onestà e la sincerità con le quali il gruppo ha saputo rimettersi in gioco negli ultimi trascorsi della propria carriera. “Insidious”, che segue di un paio d'anni l'uscita dell'ep “Nightingale” e di ben sei il full-length “Immersion”, non è affatto una bieca operazione di riciclaggio e nemmeno l'affannoso tentativo di rimanere a galla in mezzo a tante uscite discografiche. Al contrario, è un lavoro ben suonato e molto ben prodotto. È la dimostrazione che i Mephisto Walz hanno ancora qualcosa da dire nonostante la loro veneranda età. “A Magic Bag” è un preludio da brividi, lento e ossessivo. Tra una chitarra in tensione continua e un basso dai rintocchi funebri, la voce di Christianna si insinua sonnolenta e spettrale, accarezzando come un soffio gelido l'epidermide. Più movimentata è invece “Our Flesh”, con i suoi feedback contorti di chitarra, mentre “Watching from the Darkest Places” e “Before these Crimes” decelerano su ritmiche di nuovo plumbee e distese, palesando il volto più etereo del gruppo. Così anche “One Less Day”, adagiata su di un manto sonoro dalle increspature tenui, cede il passo alle spigolose reminiscenze deathrock di “I Want” e l'album cambia ancora una volta registro, per confluire nella danza vorticosa e dissennata di “Witches Gold”. Forse un po' anonime le ultime “Memories Kill” e “Nightingale”, ma il finale serba comunque una sorpresa con “Ombra Mai Fu”, rivisitazione cantata della celebre aria di Georg Friedrich Händel, interpretata dalla cantante Diana Briscoe. Chiudo segnalandovi la confezione digipack della versione americana dell'album, impreziosita da una realizzazione grafica molto più elaborata ed elegante dell'edizione europea. Se ne avete la possibilità, fatela vostra. (Roberto Alba)

(The Fossil Dungeon)
Voto: 85
 

Ov Hollowness - Drawn to Descend

#PER CHI AMA: Black/Epic, primi Katatonia, Windir
Ultimamente, sto constatando che la terra canadese rappresenta un altro territorio con un costante brulicare di band assai interessanti. Oggi ci avviciniamo ad un’altra di queste, messa ovviamente sotto contratto dalla sempre più presente (nei nostri archivi, intendo), Hypnotic Dirge Records e noi non possiamo che esserne felici. Altra one man band quella degli Ov Hollowness, quasi fosse una costante per l’etichetta nord americana; e sempre di suoni assai strazianti si parla. Il factotum di turno, ossia l’enigmatico Mark R., ci presenta sei lunghe tracce, contraddistinte da un riffing malinconico, poco pulito, ma sicuramente di forte impatto emotivo. Fin dalla opening track, “Old and Colder”, ci lasciamo condurre nel grigio e desolato ambiente creato da Mark, dove, palesemente influenzato dagli albori sonori di Katatonia, da lunghe cavalcate “burzumiane” e dall’epicità dei Windir, ha il solo rischio di peccare in termini di ripetitività. La song è infatti piacevole nei primi minuti, poi il ripetere dello stesso riff (per 9 minuti!) espone il tutto ad una certa noia di fondo, anche se tuttavia l’inserimento di alcune parti atmosferiche e di epiche partiture chitarristiche, che si sovrappongono alla ritmica di base, vivacizzano la proposta. Pensavo con la seconda traccia, la title track, di trovarmi di fronte ad un altro brano dal tocco ambient e nostalgico, invece ecco esplodere un sano black a corrodere il tutto con la sua furia, tuttavia sempre pregna di una certo flavour di cupa disperazione. “Desolate” ritorna a indurre desideri autolesionisti a chi si appresta ad ascoltarlo, con quell’alone del “Conte”, costantemente ad aleggiare sulla testa, grazie alle classiche chitarre ronzanti di accompagnamento, un efferato, quanto valido screaming e qualche sporadica comparsa di clean vocals, per un risultato finale a tratti assai valido, e che trova il suo apice nella successiva “Winds of Forlorn”, un mid tempo che, mostrando anche qualche reminiscenza di scuola Amon Amarth, riesce a dare un maggior spazio, all’evocativa prova pulita del vocalist. Lentamente ci avviamo verso la conclusione dell’album: all’appello mancano ancora “Drone”, claustrofobica song come il suo titolo può lasciar presupporre e dalla dinamica quasi suicidal. A chiudere ci pensa “The Darkness”, canzone ruvida, in linea con alcun produzioni black thrash old school e che decisamente si distacca da tutte le altre song del lotto; strana ma efficace, soprattutto alla luce di un assolo decisamente rock’n roll che si staglia su una ritmica che sembra presa in prestito da “Kill’em All” dei Metallica. In conclusione, “Drawn to Descend” è un disco valido, ma che evidenzia ancora qualche lacuna da un punto di vista compositivo. Da tenere comunque sotto stretta osservazione! (Francesco Scarci)

(Hypnotic Dirge Records)
Voto: 70
 

Taste of Tears - Once Human

#PER CHI AMA: Death/Thrash, Nevermore
Sarà un caso o cosa, ma da quando lavoro in Svizzera, la mia scrivania ha visto aumentare progressivamente il numero di cd proveniente dalla Confederazione Elvetica. Questo per dire che i Taste of Tears arrivano dal paese di orologi e cioccolato e che dopo poco più di dieci anni dalla loro fondazione, giungono finalmente al tanto sospirato debutto: un death metal portentoso, arrembante, violento e carico di groove, che vede in chitarra e basso, i propri pezzi forti. Si parte minacciosi con “Ames Room” che denota immediatamente la potenza di fuoco prodotta dal quartetto di Chur. Granitici. È il primo vero pensiero che ho fatto; tuttavia una discreta dose di melodia (mai straripante a dir la verità), contribuisce a rendere il platter più digeribile, altrimenti la lunga durata dei brani, avrebbe messo a dura prova il mio ascolto. Con “Phlegraen Fields”, i nostri mostrano di non essere solo tecnici, ma di aver in serbo una serie di “sorprese” che potrà ampliare il “raggio d’azione” di coloro che si avvicineranno per la prima volta a “Once Human”: la song infatti mostra alcune similitudini con i Nevermore, anche in termini di performance vocale, dove l’ottimo growling di Ivan si alterna a clean vocals, che non mi è dato di sapere a chi appartengano, se a Ivan stesso o al secondo vocalist della band, il batterista Marcus. Deliziosa anche la componente solistica, dove trovano largo spazio aperture melodiche assai accattivanti. La title track ci mostra il lato più tecnico e cerebrale della band, con un attacco degno dei migliori act dediti a questo genere di sonorità, e con lo spettacolare basso di Gion, in palese evidenza. La song segue poi la proposta sciorinata sin qui dall’ensemble, del Cantone dei Grigioni; e questo vale anche per le successive tracce. Facciamo però una pausa su “Profound Rain” che pur muovendosi sui territori solcati fino a qui dai Taste of Tears, non può non essere menzionata per quell’inattesa intromissione da parte di una folle tromba (qualcuno si ricorda l’esordio dei Pan.Thy.Monium?), che si inserisce improvvisamente all’interno del selvaggio tappeto death. Ho dovuto riportare indietro il cd per avere la certezza di non essermela sognata, mentre la ritmica macinava km di riff tentacolari e mastodontici di scuola Pestilence. Bella anche “A Great Paradox”, una song che pur proponendo una debordante base ritmica di derivazione scandinava (Meshuggah), ha il pregio di risultare comunque un po’ più soft nel suo marziale incedere. Vorrei infine segnalare la presenza del grande Tommy Vetterli (ex Coroner e Kreator) dietro al mixer a rendere più poderosa la proposta del combo svizzero. Monolitici! (Francesco Scarci)

(Saol)
Voto: 75
 

giovedì 19 aprile 2012

Odradek Room - Бардо. Относительная реальность

#PER CHI AMA: Death, Avantgarde, Doom
Per un cd come questo, scritto e cantato interamente in cirillico, permettemi di non riportare i titoli delle canzoni; mi limiterò semplicemente a citare le song come la prima, la seconda e via dicendo. Odradek Room è una strana entità proveniente dall’Ucraina, il cui nome trae ispirazione da una storia di Kafka, "Die Sorge des Hausvaters", dove lo scrittore parla di una piccola ed enigmatica creatura, chiamata appunto Odradek. Ed enigmatici ed intriganti anche questi ragazzi, di cui è difficile trovare qualcosa in rete che non sia scritto, tanto per cambiare, in cirillico. Quindi, spazio alla musica e alla genialità del combo ucraino. Mi accomodo nella poltrona del mio teatro virtuale e mi godo la musica inquietante e farneticante dei nostri, capaci sin dalla traccia che apre il disco, di coniugare sapientemente death e black (poco a dire il vero) con contaminate sonorità post metal, per un risultato probabilmente di difficile digeribilità iniziale, ma che, dopo molteplici passaggi, vi saprà conquistare per quella sua fantomatica aura. È cosa ormai assodata che le band dell’Est Europa abbiano un qualcosa in più, una carica, una cultura, delle tradizioni, che inevitabilmente riescono a convogliare nei suoni espressi. La prima song è aggressiva si, con sonorità talvolta in collisione tra loro in modo disarmonico, con cambi di ritmo disarmanti, che rappresentano il vero punto di forza del quartetto. Death, black, passaggi acustici, avantgarde e post rock collidono tutti in un punto, una sorta di buco nero che attrae tutto quanto verso di sé; cosi pure la mia attenzione viene catalizzata dalla molteplicità di colori che emergono dalle note di questi baldi giovani e vengo rapito dall’emozionalità espressa dalla musica dell’act. Quanto parte la seconda traccia, rimango estasiato dalle atmosfere “post”, da casa infestata che aprono il brano, con la voce del vocalist qui in versione pulita (peccato che il russo non sia una lingua cosi piacevole da sentire) su un tappeto vellutato di chitarre malinconiche. Un parlato in lingua madre apre la terza song, che per feeling assomiglia a quanto fatto nell’ultimo lavoro degli Ulver. Poi parte un riffing doom che per ideologia va a ricalcare le gesta dei soliti maestri My Dying Bride, senza tuttavia trovare un vero e proprio punto di contatto con i gods inglesi. Gli Odradek Room hanno una propria e ben definita personalità che emerge forte nel corso di queste lunghe e ben architettate canzoni, che evidenziano già una grande maturità da parte dell’ensemble ucraino. Convincenti, molto. E accattivanti, in quanto non è del tutto semplice suonare questo genere, senza risultare troppo ripetitivi o copiare quanto fatto da altri. Tuttavia la band, ha saputo sfornare una propria ben definita proposta che lascia ben sperare per sviluppi futuri; giusto il tempo che qualche etichetta discografica (la Solitude Productions ad esempio) si accorga di loro e sentiremo ancora tanto parlare degli Odradek Room, anche se il consiglio che mi sento di dare, è esclusivamente quello di cambiare lingua per cantare, questo per poter dar modo alla loro musica, assai poetica, di poter raggiungere masse più grandi di fan. Mezzo punto in meno per il cantato in lingua madre, tuttavia si tratta sicuramente di un ottimo lavoro, a cui vi invito di avvicinarvi! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 80
 

Eric Castiglia - The End Of Our Days

#PER CHI AMA: Death/Progressive/Heavy/Black
Eric è un tranquillo ragazzo romagnolo, che ha una grande passione (forse due, ma sorvolerò sulla seconda), la musica. Non solo è infatti chitarrista nei seminali Sedna, nei White Noise e chissà quant’altri progetti, ma ha pensato bene di convergere la sua voglia di suonare anche nel suo progetto solista, questo “The End of Our Days” e devo dire che il risultato è a dir poco entusiasmante. Prendendo una drastica distanza da quanto suonato nella sua band “madre”, i Sedna, Eric pesca a piene mani dal panorama mondiale, reinterpretando il tutto un po’ a modo suo e il risultato che ne viene fuori ha a dir poco del sorprendente. Se nella opening track, “God Won’t Save You” emergono delle sonorità death gothic, man mano che ci si addentra in questo lavoro emergono forti i gusti del buon Eric: Scar Symmetry, Meshuggah, Devin Townsend, Raunchy, musica djent e progressive, black ed elettronica, passando dal pop di anni ’80 e dall’heavy classico. Un pour porri di generi che hanno ben poco da condividere tra loro, ma che nella release di Eric, trovano il modo di incastrarsi alla perfezione. Esterrefatto si, questa è la parola giusta ascoltando e riascoltando il cd, che da settimane è in cima ai miei ascolti. Bravo Eric, mi hai davvero impressionato e se con “Broken Hourglass”, mi sembra di ascoltare un bel pezzo hard rock anni ’90 con delle belle vocals corrosive, con la successiva “Vaccumba” ci spostiamo in territori cyber death con il growling del mio nuovo eroe che si alterna a delle clean vocals in Scar Symmetry style. Ruffiano? Può anche essere, ma a me sinceramente non me frega nulla, anche quando il mastermind si cimenta con la bellissima e riuscitissima cover dei Talk Talk, “Such a Shame”. Vai alla grande Eric, continua cosi. Eh si perché il factotum cesenate, ci delizia con “The Seventh Gate”, song dal forte sapore nord Americano, quello del folletto canadese Devin Townsend però. E quindi potrete capire la genialità della proposta e anche la grande capacità che ha di conquistare le mie orecchie, ormai abituate a devastazioni varie in ambito black. Breve pausa strumentale di ampio respiro prima della violenza controllata di “Coward Circus” dove a fare la comparsa c’è uno screaming acido, tastieroni dal sapore black sinfonico e passaggi di velata e oscura malinconia, nonché di follia dirompente nella parte conclusiva del brano. Sono frastornato dalla capacità di picchiare ed essere al contempo eterogenei e originali. “No One Like You… Because You’re Nothing” ci conferma l’amore di Mr. Castiglia per le sonorità claustrofobiche e devastanti di Meshuggah e compagni, mentre la successiva “The Pulse of Time” sembra estratta da “Killers” degli Iron Maiden, prima di abbandonarsi in una splendida epica cavalcata strumentale, in cui lo splendido lavoro alle chitarre di Eric, si esplica in una serie di riff che si rincorrono alla velocità della luce in un orgasmo caleidoscopico. Ancora stordito dalla montagna di riff calati dal guitar hero italiano, ecco lanciarmi negli ultimi due pezzi, dove ad assurgere il ruolo di co-protagonista accanto alle chitarre ci sono anche le tastiere, ben presto relegate in secondo piano per dar modo alla furia di esplodere potentemente. A chiudere questo eccellente album ci pensa la title track, che conferma nuovamente le ottime idee di questo ragazzo che deve comparire al più presto all’interno delle vostre liste di cd da acquistare. Obbligatoriamente da far vostro! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85
 

domenica 15 aprile 2012

Hate Eternal - I, Monarch

#PER CHI AMA: Brutal Death
Direi che il 2005 è stato l’anno della definitiva consacrazione del death metal!!! Dopo i vari lavori di Nile e Cephalic Carnage, tanto per citare i più meritevoli, abbiamo dato il benvenuto al feroce disco dell’ex-Morbid Angel Erik Rutan, quasi a voler mettersi in competizione con le band sopraccitate per chi ha sfornato l’album più devastante dell’anno. Eh sì ragazzi, questo “I, Monarch” fa davvero male: è un album senza fronzoli, selvaggio, violento e brutale che non concede la benché minima tregua dal primo all’ultimo minuto. A differenza dei colleghi, capaci nei loro lavori di spezzare la furia dei brani con intermezzi acustici (per i Nile) o jazzistici (per i Cephalic Carnage), qui c’è solo puro ed intransigente brutal death metal. Probabilmente proprio per l’incapacità di discostarsi con nuove o diverse idee, il sound proposto dal trio statunitense mostra i suoi limiti in questo nuovo album, il terzo per la band di Rutan, che vede tra l’altro in “I, Monarch” l’ingresso del nuovo bassista Randy Piro. La musica degli Hate Eternal è costituita da tecnicissimi e dissonanti riff, da un lavoro dietro alle pelli non umano, caratterizzato da blast beat continui e una doppia cassa devastante, e con growling vocals profonde e maligne. L’album ci consegna una band mostruosa sotto il profilo tecnico, ma un po’ carente in fatto di idee, o meglio, radicale nella scelta di voler essere il più violenta possibile, con il risultato finale che il disco è troppo monolitico. È un peccato, perchè se solo si fosse potuto lavorare con un briciolo di fantasia in più e rendere armonico l’intero lavoro, ne sarebbe sicuramente uscito un grande album. Ottima la quarta traccia “To Know Our Enemies” con un assolo finale “rasoiante”... Con l'ingresso in formazione di un secondo chitarrista di sicure se ne sentiranno delle belle. Mi auguro solo che si scrollino di dosso questo compulsivo desiderio di devastazione e ci mostrino realmente di cosa sono capaci. Per me questo è un album di transizione, fiducioso per un futuro migliore... (Francesco Scarci)

(Earache Records)
Voto: 60

http://www.facebook.com/Hate.Eternal

Limbo - Compendium: The Light Fall

#PER CHI AMA: Electro, EBM, Kirlian Camera
Conclusa definitivamente l'esperienza Limbo, Gianluca Becuzzi ha preso il largo verso altri lidi musicali che attualmente lo vedono impegnato con il progetto Kinetix. Prima di dare l'estremo saluto al suo affezionatissimo pubblico, il musicista italiano non ha voluto, però, lasciare a bocca asciutta chi aspettava il terzo capitolo della trilogia "Millennium Trax" ed è così che, grazie alla Cursed Land Entertainment, “Compendium: The Light Fall” ha visto la luce. Oltre ad offrire numerosi elementi d'interesse dal punto di vista "revisionistico", l'album chiude nel migliore dei modi una carriera lunga vent'anni e celebra degnamente la fine di uno dei progetti elettronici più importanti del nostro paese assieme ad act quali Pankow, Kirlian Camera e TAC. La raccolta esplora diversi momenti della carriera dei Limbo attraverso diciotto brani estratti dall'intera discografia del gruppo, rivisitati per l'occasione in una chiave moderna, grazie ad un'operazione di rimasterizzazione in digitale delle tracce originarie e, in alcuni casi, di remixaggio completo delle stesse. Un lavoro realizzato con l'ovvia supervisione di Gianluca Becuzzi, ma prodotto e coordinato da Diego Loporcaro (aka D. Loop), membro dei Limbo fin dal 1998. La materia musicale del cd non può che definirsi ghiotta, già a partire dall'introduttiva “No Mercy”, traccia del 1984 estrapolata dalla prima demo-tape del gruppo e qui restaurata per sopperire alla pessima qualità del nastro di partenza. Brani come “Carnalia” e “Dein Gott ist Tot” (rispettivamente dagli album “Our Mery of Cancer” e “Vox Insana”) sono stati invece completamente riscritti rispettando gli arrangiamenti suonati nell'ultima performance live del gruppo. Curiosa anche la riedizione di “Libido Mater Nostra” in una versione più potente e danzabile rispetto all'originale, come pure il remixaggio di “Blutfeuchtræume”, azzeccata rielaborazione di un pezzo gothic-metal in una traccia dalle forti connotazioni trance/EBM. Inclusa nel cd anche “Red Latex Jesus”, remix di un brano dei Kebabträume che il duo Becuzzi/D. Loop presentò a suo tempo in “Cospiratorium: The Ice Line”, facendosi affiancare da Ivan Iusco dei Nightmare Lodge per l'esecuzione delle parti campionate. Unico episodio live della compilation è “Widowmaker”, brano ispirato ad una ballata di pianoforte scritta da Le Forbici di Manitù e registrato durante l'ultima (e già citata) esibizione di Limbo, tenutasi il 31 Marzo del 2001 al Tam Tam Club di Bisceglie (Bari). Infine, a chiudere il sipario è l'ultima traccia in studio del gruppo, “Madre, Chiesa, Libido”, un medley che abbraccia, in poco meno di sei minuti, brani storici quali “Libido Mater Nostra”, “Thee Pack”, “Mater Libido”, “Control, Sex, Technology” e “Madre, Chiesa, Clinica”. Da avere! (Roberto Alba)

(Cursed Land Ent.)
Voto: 85

Mare Infinitum - Sea of Infinity

#PER CHI AMA: Funeral Doom, Ahab
Solitude Production. Ormai si va sul sicuro. I Mare Infinitum sono solo una delle tante perle che risplendono di maestosa armonia dal magico universo della terra russa. Certo, il becero antagonismo storico con gli Stati Uniti sembra quasi d’obbligo in questi casi, ma qui stiamo parlando di musica, non di politica, e per di più di un genere che gli USA non sono ancora riusciti a comprendere nella sua profonda interezza (ovviamente generalizzo). Si parla di doom metal. Anzi, funeral doom. La fugacità delle occupazioni occidentali, l’eterno senso di ansia nel quotidiano e una snervante necessità, lavorativamente parlando, di fare sempre di più in sempre meno tempo impedisce in molti casi di ritagliare un angolo per sé stessi. Riflettere. Ascoltare le proprie emozioni. La faccio breve: una determinata tipologia di musica non può nascere in contesti geografici, culturali e sociali che si estendono ai suoi antipodi. Se il black metal è nato nel nord Europa e non a Los Angeles un motivo ci sarà, no? Perdonate il discorsone, ma mi sentivo in dovere di farlo. “Sea of Infinity” presenta cinque tracce di puro funeral doom dalla lunghezza variabile. Il tema che fa da collante è quello dalla sensazione di eterno e immutato perpetrarsi delle cose, metaforizzato simbolicamente dall’orizzonte infinito del mare che si intreccia in modo definitivo con il dominio e la pesantezza dei cieli. Di riflesso, gli strumenti cercano di portare all’attenzione una decisa mimesi con l’effetto perpetuo delle onde che si infrangono sull’acqua. “Beholding the Unseen”, in particolare, riproduce chiaramente questo effetto nei primi due minuti della canzone. Rappresenta senza ombra di dubbio un momento topico all’interno dell’album; è la traccia più strutturata, condensa vari passaggi di tempo e unisce al growl una voce pulita molto avvolgente. Le chitarre si muovono come a rilento, potenti, nitide nelle note, precise come un metronomo. Un apprezzamento del tutto personale devo farlo a “November Euphoria”, probabilmente la miglior composizione strumentale di doom atmosferico che io abbia mai ascoltato, con la giusta dose ed equilibrio di tastiere e melodie a sei corde. Otto minuti di trance che avrebbero qualcosa da insegnare anche ai grupponi funeral già navigati. Unica nota dolente e un po’ fuori luogo: l’utilizzo del violino nella track di chiusura, “In the Name of my Sin”, molto My Dying Bride. Una cosa è chiara: dall’intero album traspira una sorta di timore reverenziale verso tutto ciò che esiste di infinito. Non vi sono grida di sofferenza o penombre minacciose alla Skepticism o alla Catacombs. Si respira qualcosa di diverso. È più un elogio agli abissi oceanici dell’oltrevita, un marciare cadenzato di rispettoso silenzio di fronte all’antitesi dell’esistenza. L’ascolto è doveroso per chi è rimasto affascinato dalle atmosfere degli Ahab di “The Divinity of Oceans”, immensi pionieri del nautic-doom. (Damiano Benato)

(Solitude Productions)
Voto: 85