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sabato 3 dicembre 2011

Delirium X Tremens - Belo Dunum - Echoes From the Past

#PER CHI AMA: Brutal Techno Death, Folk
E adesso come la mettiamo con la definizione da dare al genere proposto da questi quattro folli musicisti delle Dolomiti bellunesi? Partiamo allora da un po’ più lontano: avevo già avuto modo di apprezzare il precedente lavoro di techno death, datato 2007, della band veneta e quello che oggi devo recensire parte esattamente da quel “CreHated From No_Thing”, che si configurava come un concentrato di death metal ultra tecnico e brutale, scevro da alcun tipo di contaminazione; nel frattempo le cose sono un po’ mutate, a partire dal look della band (di stampo montanaro), per proseguire con una vena assai sperimentale dei nostri mai palesata prima d’ora. La spina dorsale del sound dei Delirium X Tremens continua certo a rimanere il techno death degli esordi, sempre potente (complice una produzione spettacolare), preciso e tagliente, inserendo però nel contesto brutale delle songs, alcuni elementi addizionali di stampo patriottico - folcloristico, capaci di rendere la proposta del combo bellunese assai intrigante e mi verrebbe da dire unica. Se il feeling che ho percepito nell’ascolto dei primi tre brani è lo stesso che infuse in me l’ascolto 20 anni fa di “The Key” dei Nocturnus, con la quarta “Artiglieria Alpina” non si può che rimanere stupefatti di fronte alla proposta dei nostri: “Al comando dei nostri ufficiali, combatteremo fucile alla mano. Difenderemo il suolo italiano, onore alpino nella storia vivrà”. L’eco del coro alpino echeggia nell’aria e mi sembra di essere tornato indietro di 15 anni, quando mi misi a disposizione dell’arma sulle montagne friulane. E cosi sparandoci in faccia dei killer riffs di puro death metal, ecco i nostri parlare della Prima Guerra Mondiale o del Vajont, con il cantato in growling (comprensibilissimo) italiano a ricordarmi la performance degli Spite Extreme Wing. Sono conquistato dalla proposta coraggiosa dell’act di Belluno, mai avrei pensato in vita mia di trovarmi di fronte ad una sorta di death metal alpino. Giusto un pezzo strumentale “The Guardian” a tramortirci e poi un coro gregoriano apre la dinamitarda “33 Days of Pontificate” a ricordarci invece che i nostri “montanari” continuano a suonare musica estrema e di non lasciarci fuorviare dalla vena troppo sperimentale di questo lavoro. I Delirium X Tremens continuano a fare male, con ritmiche violente, veloci, massicce; non importa poi se nel bel mezzo di un brano compare improvvisamente una parte atmosferica, un coro alpino o un canto gregoriano, un inserto di tastiera aliena, o un assolo da urlo, echi bucolici o una fisarmonica schizoide: i nostri baldi giovani si rivelano ispiratissimi e costantemente carichi di rabbia, in grado di incanalare brillantemente tutta la sperimentazione che è mancata nei precedenti lavori, in questa nuova geniale opera, la cui importanza (sicuramente legata alle tematiche) è avvallata anche dal patrocinio della Provincia di Belluno – Dolomiti. Che dire, se non che l’ascolto di questo cd è consigliatissimo per tutti coloro che seguono la scena estrema e anche e soprattutto per tutti gli impavidi amanti della sperimentazione. In onore alla memoria. Valorosi! (Francesco Scarci)

(Punishment 18 Records)
Voto: 80

venerdì 2 dicembre 2011

Sadael - Diary of Loss

#PER CHI AMA: Funeral Doom, My Dying Bride, primi Anathema
Rare volte mi è capitato di trovare un album perfetto per un sottofondo da notti solitarie in riflessione senza dire: “Beh, questa canzone si… Questa no… Questa forse…”. Sono impressioni personali, senza ombra di dubbio, ma quel senso di nera filosofia astrale che mi hanno trasmesso i Sadael (anzi, Sadael e basta, visto che si tratta nuovamente di una one-man band) è qualcosa di cui solo un altro gruppo, i Moonspell di Ribeiro, sono riusciti a instillare nel mio inconscio. Lo consiglio vivamente, questo “Diary of Loss”, ennesima fatica di una terra leggendaria, affascinante e piena di mistica come è l’Armenia. Trovano rifugio in questo calderone di sensazioni sette tracce di saggia poesia, una più evocativa dell’altra. Grande interprete di questo album è l’organo-pianoforte, accompagnato da elementi ambient che aumentano l’atmosfera sulfurea di ogni passaggio di tempo o mutamento di melodia (l’ho chiamato ‘piano-riff’, che sia un neologismo?). Il nichilismo, la solitudine e la chimera di una costante perdita dell’essere abbracciano nenie adombranti amori perduti, odiati o mai trovati, testimoniando in questo caso un avvicinamento alle liriche più gothic che doom. Contaminazione. La adoro. Apprezzerete anche gli assoli di chitarra, puliti e perfetti come solo gli Anathema di “Eternity” o “Alternative 4” sono riusciti a fare. Riguardo la lunghezza (questi viaggi non dovrebbero mai terminare) si spazia dai tre minuti dell’intro ai dieci dell’ultima traccia; azzarderei che tutto è stato calcolato per non pesare eccessivamente sull’ascoltatore. Ve lo consiglio vivamente questo album, anche per gli appassionati di dark-ambient. Prendetevi un’ora libera prima di andare a letto, versatevi un bicchiere di vino (“My Wine in Silence”: My Dying Bride docet) e lasciatevi trasportare da questa vera e concreta opera d’arte musicale. Se poi siete studiosi di occulto non lasciatevi mancare un ascolto attento della terza tappa, “Loss”, una metafora dell’eterno ritorno. (Damiano Benato)

(Silent Time Noise Records)
Voto: 80

www.myspace.com/sadael

giovedì 1 dicembre 2011

Riul Doamnei - Fatima - English

#FOR FANS OF: Symph Black, Dimmu Borgir, Cradle of Filth
If Cradle of Filth had the miraculous growth of Riul Doamnei during these last years, they would have probably sold hundreds of millions of records until today, perhaps even as Michael Jackson. But instead the progression of the British band has been very gradual, but they were lucky enough to be always closely linked to the typical screaming of Dani Filth, which has so far also influenced the vocal performance of "Cardinal" Federico DB, vocalist of the Italian band that I am here to review today. This entire intricate preamble was to tell you that in the meantime, the singer of the Veronese ensemble is shockingly improved since the days of "Apocryphal", distancing largely from the "old" Dani, and with him the overall performance of the other members of the band. Certain accomplice is the experience gained by touring with monsters of the caliber of Rotting Christ, Krisiun, Decapitated, Vader and other extraordinary realities of extreme metal, but the Riul Doamnei, with this new job can have their saying in the field of symphonic black, next to the already mentioned Suffolk and the band of Norwegian Dimmu Borgir, perhaps the reality which extends more the five-pieces of Fede and Associates. A really ambitious work this of the Riul which presents us the new controversial concept of the album based on the figure of the Virgin Mary: twelve pieces for a total duration of nearly an hour, an hour full of dense emotions, related to fierce raids in black territories, from the harsh vocals of Fede, to the majestic orchestrations of "Bishop" Giorgio M. and to the symphonic chorus Therion like. Starting from the enigmatic opening track, "13th Oct. 1917, Miracle and Apocalypse," which commemorates the Miracolo del Sole by Fatima, in which a substantial number of people claimed to have seen the solar disk change color, size and position for about ten minutes, we are immediately overwhelmed by their extreme music. The release, which revolves around the events related to Marian apparitions brings out, one after the other, excellent tracks, which shows the class of the five "servants of evil." Going back to what has been done in previous work, the Riul continue to develop their own sound, enriching it with phenomenal arrangements of explicit derivation of Dimmu Borgir (period "Death Cult Armageddon"), and for this reason a big applaud goes to the talented Giorgio and a special mention as well to the deserter drummer "Friar" Enrico P., who at the end of the recordings has left the band after eleven years of militancy. It will be hard to replace him with another drummer of equal value. But back to the music, which is overflowed with sublime melodies, epic black cavalcades, screaming of great value and exceptional chorus (beautiful "Bestiary of Christ" and "Sodom Convention"). A brief interlude, and we arrive at "Stigmatized Under Marian Grace", a song that reveals once again their destructive "dangerousness” and that shows the goodness of the songwriting (much improved from the first chapter) and also a new vein as regards the solo (finally) of the capable "Deacon" Maurizio S, although this is not the episode where it is most appreciated. The military beginning of the "Of Misery And The Final Hope" (song in which also appears Sakis of Rotting Christ as a guest vocalist) shows how the Riul have improved even if the speed is not well supported and there is space for large quantities of melody and eerie female vocals with the guitars which in this case seem to refer to the Swedish Death of Dark Tranquillity. Yes, I feel, the desire to progress and not stagnate is there, is strong and Riul are constantly searching for truth as the famous "Warriors of Light" by Coelho. The search of Riul continues until the final "The Fourth Daughter," which speaks about the fourth daughter of Muhammad, Fatima precisely, then finishing by weaving the Christian iconography with that of the Islamic religion, in what is probably the fourth secret, in a song with clear Arabian implications, which closes in an intriguing, fascinating mode and that predicts nothing positive, of what could be the clash between Christianity and Islam. Excellent return! (Francesco Scarci - Translation Sofia Lazani)

(Axiis Music)
Rate: 85

http://www.riuldoamnei.it/

Llvme - Fogeira de Sueños

#PER CHI AMA: Black/Folk Metal, Doom, My Dying Bride, Moonspell
Album di debutto per gli spagnoli di Salamanca “LLVME”. La band si forma nel 2007 e il nome dovrebbe significare “Fuoco” in una antica lingua spagnola (la, a me ignota, lingua delle terre del Leone). Il fondatore e guida risponde al nome di Nandu (tastiere, chitarra, voce, batteria) che con Lord Valius (voce), Oskar K-os (chitarre), e Nacho (basso) completano la line up. Altri musicisti partecipano per le parti di violino, di pianoforte e dei vari strumenti tipici. Il quartetto ci presenta un lavoro dagli svariati elementi: il folk, black metal, aspetti doom, death e i suoni delle terre spagnole del Leon. Passaggi brutali convivono piuttosto bene accanto a parti melodiche, il tutto avvolto da una atmosfera cupa e alquanto triste. Vi faccio una confidenza: un po’ mi fa arrabbiare questo disco. Sono portato a vedere di buon occhio chi sperimenta, altera, prova miscelare cose diverse. Ecco, questo lavoro ha molti spunti interessanti e abbastanza originali (non hanno inventato nulla di nuovo, per carità), ma d’altra parte a me suona sufficientemente vuoto e scontato. Immagino i vostri commenti: “Smettila con le sostanze obnubilanti, è originale o scontato?”. Vedete, alla fine quello mi resta è una sensazione di incompletezza. Probabilmente è difficile trovare un equilibrio tra la musica folk, piuttosto allegra, e quella lenta e triste black/doom. I nostri non sono riusciti a trovare questo equilibrio e, complici una certa linearità nella fase compositiva e una parte vocale non brillante, mi lasciano insoddisfatto. Mi sembra di aver già sentito mille volte quelle sonorità da altre parti e secondo me le influenze di gruppi come i “My Dying Bride” sono lampanti. Tirando le somme, se siete appassionati di folk/black metal dovreste apprezzare, altrimenti lasciate perdere. Sufficienza d’incoraggiamento per le bune idee mostrate. (Alberto Merlotti)

(My Kingdom Music)
Voto 60

Red Sky - Tra l'Ombra e l'Anima

#PER CHI AMA: Rock, Metal strumentale
Con il passare del tempo, svariati progetti solisti sono saliti alla ribalta, vuoi per le nuove tecnologie disponibili negli ultimi anni, vuoi per il desiderio insaziabile di partorire un progetto non (ancora) condiviso da altri musicisti. Red Sky è riconducibile al frontman degli Ammonal (Melodic Death Metal Band milanese) e questo "Tra l'Ombra e l'Anima" è un EP strumentale di sei tracce. Ottime oserei dire. Si inizia con "Respira", brevissima intro dall' aria molto ambient che lascia subito spazio a "Chiudi gli Occhi". La chitarra cristallina si snoda con dei bei fraseggi ricchi di semplicità e personalità, mentre l' uso sporadico di doppia grancassa e cambi di ritmo repentini, permettono al pezzo strumentale di non annoiare. La chitarra si ingrossa verso il finale, portando ad un'esplosione prog di pregevole fattura. Passiamo poi a "Il Mio Modo di Dirtelo" dove si conferma lo stile chitarristico precedente, dando così un marchio di fabbrica ai Red Sky che permette di emergere dall'universo rock-metal odierno. Sei minuti abbondanti che fanno da colonna sonora originale ad una love story. "La Luna Bacerà le tue Labbra"  è una ballata che inizia in modo classic-rock ma poi accelera subito rivelandosi un pezzo strumentalmente ineccepibile e che lascia traspirare un velo di tristezza. Il penultimo pezzo, "Giada", rispecchia molto la struttura dei precedenti brani, lo stesso utilizzo di distorsioni, wah e puliti lascia pensare ad una mancanza di originalità, ma invece raggiunge l'obiettivo di concentrare l'attenzione dell'ascoltatore sui riff di chitarra, basso e batteria. Ottimo lavoro. L'outro "E poi, Silenzio" chiude ottimamente questo "Tra l'Ombra e l'Anima", rimarcando la vena di tristezza che corre potente in tutti i pezzi ma che trova sempre un riscatto finale, come un'anima in pena che cerca la sua salvezza. Dopotutto, ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera per potersi esprimere a questo mondo di banale normalità. Nota: Red Sky sembra sempre alla ricerca di validi musicisti per i suoi live, quindi impavidi musicisti, risorgete dalle vostre ceneri e volate nel cielo rosso. Inoltre i live sono caratterizzati da un'estrema cura nei dettagli, con una pennellata naif di arte che non guasta mai. (Michele Montanari)

(Self)
Voto: 80

Coreya - Al silenzio

#PER CHI AMA: Rock, Crossover
Reggio Emilia, patria del liscio e del (quasi) rock italiano, dà i natali ai Coreya, cinque ragazzotti venuti su a tortelli, lambrusco (non lo stesso di Ligabue) e distorsioni. Forse proprio questo mix ha fissato nei loro cromosomi un sound originale, rimanendo comunque nel range del numetal e crossover, riuscendo allo stesso tempo ad unire testi impegnati e difficile da proporre senza cadere nella banalità. Quindi ribellione nella musica ma anche nelle parole, lasciando spazio al vocalist che utilizza al meglio il cantato. Il fatto che la voce sia squillante e ben equilibrata conferisce un tono grintoso ai Coreya. Anche l' influenza voluta o non di Marlene & Co. traspare in certi pezzi, questo rimarca una certa maturità dei Coreya che si distinguono anche per questo. Niente da dire sulla parte strumentale, se non che unisce sonorità tipiche del genera ma fa vedere il pelo sulla stomaco di chi suona per passione e non per fare il figo. Complimenti. Parlando dei pezzi, questo LP inizia con "l'Odio", un concentrato di rabbia non fine a stessa e velocità. Apre il cd ma non la ritengo la miglior traccia. "Mentre mi Perdo" stuzzica già di più il mio orecchio, il brano è vario con differenti cambi di ritmo e un bel grasso riff di chitarra nel finale. Bravi Coreya. Il sesto pezzo è una bella sorpresa, infatti "el Sueno es la Vida" è interamente cantata in spagnolo ed accende in me una piccola nostalgia per i grandi Héroes Del Silencio (se non li conoscete non preoccupatevi, sono io il vecchio). Piccola variante in un album totalmente cantato in italiano (scelta coraggiosa per il genere), ma che risulta pure azzeccata. Nell' ultima "Pari a Uno" esplode tutta la rabbia e cattiveria musicale dei Coreya, bel pezzo da concerto che sottolinea a fine lavoro cosa hanno in testa, anche se passano attraverso ballatone classiche , ma non banali, tipo "Distanze". Ragazzi, siete rimasti sulla buona strada quindi avanti tutta e in bocca al lupo. (Michele Montanari)

domenica 27 novembre 2011

All the Cold - One Year of Cold

#PER CHI AMA: Black, Ambient, Burzum
“One Year of Cold” (letteralmente “Un anno di Freddo”) è una compilation che racchiude i migliori brani del duo di Murmansk costituito da Winter e Nordsjel, contenuti negli innumerevoli split rilasciati in passato. Quel che balza subito all’orecchio sin dall’iniziale “Cast Winter” è l’impronta “Burzumiana” assunta dalla band russa: atmosfere gelide, in cui è il solo vento siberiano a soffiare e pungere il viso; melodie malinconico/depressive, figlie di un underground (quello russo) pullulante di realtà funeral doom; un incedere lento, quasi ipnotico per il ridondante enunciare delle stesse ritmiche quasi a voler ricalcare costantemente uno stato di disagio perenne. Non so esattamente da dove nasca questo malumore di fondo, questo senso di inquietudine che avvolge tutte le band provenienti dall’ex grande Unione Sovietica, so solo che c’è un qualcosa che le accomuna tutte, ossia il rifiuto del mondo che li circonda e che li spinge a vomitare (qui non solo in senso figurato, dovreste sentire la voce del vocalist, nelle sue sporadiche apparizioni) tutto il proprio dissapore, odio e disperazione nei confronti della vita e della società. La seconda traccia vede proprio l’affacciarsi del vocalist nella sua veste dannatamente oscura e malvagia con uno screaming spaventosamente disumano mentre la musica continua ad essere maledettamente atmosferica, melodica e capace di dipingere paesaggi invernali, ma senza montagne o foreste, solo il camminare nella neve ghiacciata in mezzo al nulla, con la sensazione di quel suono ovattato, attutito, quel silenzio in grado di stordire per l’enorme rumore che fa. Ecco le innumerevoli sensazioni che vengono sprigionate da questo “One Year of Cold”, che oltre a descriverle in musica, le narra anche all’interno delle sue liriche. Il senso di disagio contagia anche me, mi aliena da tutto e da tutti, soprattutto nella quarta desolante “New Day Without Me” e nella successiva “Message of Silence Space”, in grado di lasciarmi una profonda sensazione di disperazione al termine dei suoi infinitamente ripetitivi e strazianti lunghissimi minuti (sedici e undici rispettivamente) fatti di suoni ambient, decisamente lugubri e avvilenti. Non c’è luce, non c’è positività, non v’è alcun briciolo di speranza nei nove brani contenuti in questo lavoro; e ciò che affascina maggiormente è che non ci troviamo al cospetto della solita band funeral doom da cui aspettarsi realmente questo genere di sentimento, appesantito solitamente da una ritmica soffocante e pachidermica. Qui gran parte dello spazio è lasciato ai sintetizzatori mortificanti, a quei tocchi di pianoforte tristissimi che lasciano solo segni indelebili nel più profondo dell’anima, ferite che con somma difficoltà si rimargineranno. Sono cresciuto con la musica di Burzum e da poco la sto rivalutando, ma qui siamo al cospetto di due grandissimi artisti che riprendendo le sonorità del conte, rielaborandole con il feeling polare tipico russo, hanno rilasciato una testimonianza meravigliosa della loro genialità; da sottolineare tra l’altro che le ultime due splendide tracce sono inedite bonus track, cariche di un feeling autodistruttivo senza precedenti. Peccato solo che una simile release non possa essere apprezzata da un pubblico numeroso e sia, ahimè, destinata ad un esiguo gruppo di anime dannate che, come il duo Winter & Nordsjel, è tormentato nel corpo e nell’anima. Io lo sono e non posso far altro che celebrare questo lavoro e custodirlo gelosamente nella mia collezione di cd speciali. (Francesco Scarci)

(Kunsthauch)
Voto: 85
 

sabato 26 novembre 2011

Cut the End - Dawn’s Death to Dusk

#PER CHI AMA: Death/Post Metal, ultimi Entombed, Neurosis
Non appena ho ascoltato la prima traccia di questo cd, me ne sono immediatamente innamorato. “Born From the Earth” apre in modo tiepido, malinconico e dannatamente accattivante, lasciandomi intuire (erroneamente) fin da subito che quello che ho oggi fra le mani è un cd di post rock. Sicuramente si può cadere nella tentazione di una simile definizione durante l’ascolto degli iniziali sei minuti della traccia d’apertura, perché non appena prende il sopravvento il suono roboante delle chitarre e le vocals rabbiose dei due cantanti, il timido sound della band catalana diventa un’ondata di metallo contaminato trasudante rabbia, in grado di mischiare le carte più e più volte nei suoi 43 minuti di musica, distribuiti su cinque brani. Dicevo delle bellissime melodie poste all’inizio del cd, che si trasformano ben presto in una cavalcata apocalittica, in cui converge tutto quanto di buono in ambito post metal è concepito oggi. Come al solito, rimango disorientato quando di fronte mi ritrovo qualcosa di innovativo, perché sono felice di poter credere che nel metal ci sia ancora un sacco di cose da dire e sono certo che gli spagnoli Cut the End rientrino nella schiera di band capaci di sperimentare e stupire, anche con poco, ad essere sinceri. Eh già, perché la successiva “Treason, Pleasure & Pain” sembra più un pezzo degli ultimi Entombed (che centri qualcosa il mastering ai Cutting Room Studios di Stoccolma?), quelli più grooveggianti ma che comunque non disdegnano una certa pesantezza e velocità nelle ritmiche, il growling feroce delle vocals, ma che tuttavia strizzano l’occhiolino a qualcosa anche di più “commerciale” (vi prego passatemi il termine). Il sound del quartetto di Barcellona si fa più soffocante ed oppressivo con la terza “Les Malheurs de la Vertu”, dove a sostenere il tutto c’è un riffing nervoso di chiara matrice svedese death metal, sporcato però nelle sue parti strumentali, da influenze tipicamente statunitensi (stoner/western mi verrebbe da dire). La mia testa viene avvinghiata da un riff di chitarra che si insinua, come una cimice nel corpo, impossibile da identificare, e che quindi mi tiene costantemente compagnia. Nel suo incedere, la song si fa più cerebrale, si condisce di nuovi elementi, talvolta assai psicotici, pescati anche in ambiti più disparati quasi progressivi, tenendo comunque come elemento portante, quella ritmica iniziale selvaggiamente inquietante. Passano i minuti e vengo annichilito dal furente sound dei nostri, che in “The Sound of Fallen Leafs”, danno sfoggio a tutta la rabbia, investendoci con un pezzo tirato di death/hardcore assai tecnico (mostruoso il lavoro alla batteria, assai fantasioso). Siamo quasi giunti alla conclusione di “Dawn’s Death to Dusk” ma ci aspettano ancora i dieci minuti finali di “Expired Shortest Distance”, con i quali i Cut the End, fanno breccia definitivamente nel mio cuore con una miscela condensata di post metal, con il growling che si intreccia con linee pulite di voce, un drumming costantemente preciso e ipnotico, le chitarre alla costante ricerca del riff sperimentale, il riff che si incunea nel nostro cervello e non ci molla più. Sono folgorato, esaltato dalla proposta musicale dei quattro musicisti di Barcellona, che oggi mi hanno dato una bella lezione: la Spagna non è solo calcio, belle donne, spiagge assolate o sangria; oggi c’è una cosa in più: i geniali e selvaggi Cut the End. Post Moderni! (Francesco Scarci)

(Self)
Voto: 85